lunedì 25 gennaio 2010

Siparietto moralista ed amaro sui ggiovani d'oggi


Nel mio lavoro precedente, nella mia vita precedente, avevo diversi contatti con "il pubblico", un organismo geneticamente modificato che soleva donarci sublimi interventi, allo sportello, via mail, via posta, via fax, che conservavo con amore, e che in ufficio utilizzavamo per addolcire i momenti duri considerando con distacco e grasse risate la pochezza altrui.
Non ci imbarazzava, il fatto di ergerci a giudici del livello di decenza di una civiltà, perchè il nostro pubblico non era composto da illetterati per età, per censo o per scarse capacità intellettuali; era un pubblico d’elite, di quelli che non esiteresti a trascinare ad una cena di beneficenza per fare bella figura servendoti della loro conversazione, non fosse che si pagano cento euro a persona.
Il nostro pubblico, insomma, era di giovani (promettenti laureati), carini (la bellezza dell’asino, come direbbe mia nonna) e disoccupati (futuri).

Ebbene: da quelle bocche uscivano tali incredibili scemenze, segni di ignoranza, di incapacità di leggere un testo semplice, di negligenze dettate dall’ego, di ingenuità mascherate, da potervi dedicare un trattato sociologico.

La mia posizione attuale grazie al cielo non mi permette così frequenti contatti con il pubblico; bisogna però considerare che in questo posto il pubblico non è filtrato, è lo specchio in piccolo della popolazione di una città, con tutti i generi, le età, i patrimoni e i titoli di studio che questo comporta. Ma nulla di simile a quello che ho vissuto allora arricchisce le mie liste di boiate.
Questo mi spinge ad aggiungere al mio personale trattato alcune considerazioni: le persone contengono in sé una potenzialità più o meno alta di sparare cazzate. Le variazioni possono essere dovute all’età, alla scolarizzazione, alla vita che si è vissuta e alla consuetudine con la parola, con la scrittura, con la gente. Ma esiste anche una autolimitazione trasversale, data dall’umiltà e dalla considerazione degli altri. Un filtro salvifico il cui potere diminuisce al crescere dell’arroganza. Il pubblico che avevo allora era dunque stato cresciuto da famiglie ma anche docenti universitari abituati ad usare l’arroganza come valore, a potersi permettere tutto in virtù della riuscita scolastica, dell’intelligenza celebrata, o anche solo della giovinezza.

Non è altro che ciò che questa epoca insegna: tutto si sistema, non c’è parola sbagliata che non possa essere ritirata, non c’è offesa che non possa essere ritrattata, non c’è stupidità che non possa diventare un valore (almeno ai fini della carriera), non c’è reato che non possa essere cancellato (o prescritto), dunque perché affannarsi a trovare le parole, a mettersi nei panni degli altri, a controllare quello che si dice, nel contenuto e nell’ortografia?

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