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venerdì 9 giugno 2023

Una storia americana

Mi piacciono tanto, mi incuriosiscono e mi interessano, le cose, le persone, le creature differenti. Differenti dalla cosiddetta norma, ossia da quello a cui siamo abituati, per dimensione, colore, reazioni agli eventi, modo di pensare.
Per esempio, mi affascinava l'enorme sedia costruita dagli artigiani per qualificare il distretto della sedia e del mobile in regione, che appariva improvvisamente al viaggiatore al lato della strada, così fuori misura che pareva giungesse a breve anche Polifemo, col suo pugno di marinai per cena. 

Ora, non voglio paragonare un intero popolo a un enorme manufatto e odio le generalizzazioni, ben conscia che le differenze individuali, o collettive, abbiano vitale importanza, ma ogni volta che leggo qualcosa sul modo di pensare degli statunitensi non posso fare a meno di restare basita, per l'immenso solco di pensiero, principi e ideali che ci separa; impaurita dal fatto che nel mondo attuale abbiano una posizione così preminente pur con caratteristiche collettive che non esito a definire frequentemente infantili; affascinata dall'immensa loro differenza dalla "norma" che contraddistingue il mio essere, in senso geografico, politico, storico. 

Francesco Costa, che ormai è parte integrante delle mie giornate con il suo podcast Morning, rassegna stampa acuta e intelligente che tiene sveglio il pensiero critico, in questo libro parla delle storie di Joe Biden e Kamala Harris, poco dopo l'elezione di entrambi alla guida degli USA. Ne descrive le carriere, le cadute, le difficoltà, insomma, il percorso che ha portato entrambi, per lo meno, a liberare il mondo dal folle Trumpismo. 

L'abolizione della schiavitù in America, ai tempi di Via col vento (che con quell'abile narrazione hollywoodiana, se ti distrai, ti fa ritrovare sudista), non ha avuto altro significato che queste parole: "abolizione della schiavitù". Insomma, lo stesso rilievo puramente formale della carta costituzionale americana, che proclama l'uguaglianza di tutti gli uomini, calpestandola poi costantemente. I bianchi, che fino a quel momento facevano dei neri un proprio feticistico possesso, all'improvviso ebbero il solo scopo di allontanarli dalle proprie vite, dalle proprie case, dai propri lavori, dalle proprie opportunità. E ci riuscirono per decenni, attraverso, in particolare, lo sviluppo urbano, che favoriva sistematicamente la segregazione, suddividendo il territorio del Paese in zone in cui il governo consigliava di investire (invitando le banche a fare credito a privati e imprese) e altre in cui ogni investimento era disincentivato, sempre quelle abitate dagli afroamericani - un'operazione definita redlining
Le conseguenze principali furono che agli afroamericani venne impedito di accumulare ricchezza e di frequentare le scuole per i bianchi (quindi le università, quindi i lavori migliori). Anche le tangenziali, le autostrade, che conducevano i bianchi al lavoro dalle loro villette suburbane, vennero costruite secondo percorsi che contribuissero a isolare le comunità nere - a costo di avere forme illogiche sul piano urbanistico, che comportano tuttora frequentissimi ingorghi anche in superstrade da 14 corsie; il sistema degli autobus veniva a sua volta organizzato in modo da escludere: per tenere i neri lontani da una data zona era sufficiente non prevedere fermate dei mezzi pubblici (utilizzati quasi solo da loro, in quanto poveri) o costruire un ponte così basso che il bus non potesse passarci sotto. 
Negli anni si tentò qualche norma correttiva, tra cui il cosiddetto busing, che cercava di mitigare la segregazione urbanistica istituendo uno scambio scolastico tra neri e bianchi tramite scuolabus che percorrevano quotidianamente decine di chilometri. I mezzi che trasportavano i bambini neri nelle scuole bianche venivano spessissimo danneggiati, presi a sassate, e i ragazzi accolti tra sputi e insulti. Le amministrazioni locali spesso accettavano di accogliere i bambini a norma di legge solo se costrette dai tribunali. I genitori, a loro volta, non potevano opporsi, e dunque scegliere dove mandare a scuola i propri figli. 
Biden, da giovane politico, si opponeva al busing, pensando che l'integrazione urbanistica fosse di gran lunga la strada migliore per eliminare la segregazione razziale e credendo in buona fede che questo tipo di coercizione non avrebbe risolto molto. Per questo attirò critiche feroci, nel tempo, dato che questa sua posizione lo schierava accanto a politici razzisti e reazionari che con le sue convinzioni non avevano nulla a che fare. 

Kamala Harris, intanto, era figlia del busing, a Oakland, dove ogni mattina percorreva chilometri per raggiungere una scuola "bianca" altrimenti negata ai residenti del suo quartiere. 

Nei quarantotto anni che separano la sua prima elezione in Senato da quella a presidente degli Stati Uniti, Biden è stato tra i parlamentari più influenti, ma contemporaneamente meno abbienti, non volendo mai svolgere altre professioni o monetizzare altrimenti la sua fama; ha seguito progetti considerati da chiunque impossibili; ha compiuto errori banali e subito dolori terribili; ha lavorato da persona equilibrata, senza essere mai estremista o demagogo; ha sempre cercato di sedare i conflitti, cercando nel compromesso la via del progresso; ha dovuto naturalmente giustificare decenni di scelte ad ogni occasione elettorale. 
Dall'autobus che ogni giorno la portava fuori dal suo mondo, la Harris, convinta di voler tentare di cambiare il sistema dall'interno, pur accettandone lentezze e contraddizioni, divenne la prima donna e persona nera a essere eletta procuratrice generale in California. 

Le carriere dei due protagonisti del libro si incrociano per i decenni successivi, attraverso grandi vittorie e grandi cadute, fino all'incontro nelle elezioni presidenziali più recenti.
"Il potere non cambia le persone: le rivela per quello che sono. Quindi bisogna guardare al passato, per capire il futuro".

mercoledì 24 maggio 2023

La canzone di Achille

In questi mesi sento come un bisogno di Achei. Qualche tempo fa ho letto l'Odissea,  proprio durante un viaggio a Ischia, imbattendomi nello scoglio che si dice rappresenti la nave dei Feaci, pietrificata da Poseidone, offeso perché avevano aiutato Ulisse a tornare a casa. Avere il libro in mano e la roccia davanti, per quanto, ne sono consapevole, sia solo uno scoglio, ha il suo impatto emotivo. 

E ora ho letto La canzone di Achille, che ripercorre l'Iliade (utilizzando come fonti anche l'Odissea e poi Virgilio, Ovidio Sofocle, Euripide, Eschilo, tra gli altri) per raccontare, dalla parte di Patroclo, la propria vita e quella del Pelide fino alla morte sotto le mura di Troia. Queste operazioni non sono universalmente condivise: i puristi odiano le commistioni tra capolavori storici e interventi attuali, considerandoli forzature al pari dell'antropomorfizzazione delle bestie nei documentari ammiccanti; una recensione del New York Times al tempo dell'uscita concludeva che questo libro avesse la testa di un romanzo per giovani adulti, il corpo dell'Iliade e i quarti posteriori di un Harmony. Io invece, se ben fatti, questi interventi li apprezzo, anche perché aiutano a sentire come tremendamente umane, e terribilmente personali, vicende che, studiate a scuola in malo modo, risultano addirittura prive di spessore, mentre ne sono colme. E soprattutto invogliano a riprendere l'originale con ben altra consapevolezza.

L’ha scritto Madeline Miller, scrittrice e docente statunitense, impiegandoci molti anni, dopo essere stata folgorata dalla descrizione di Omero del dolore e della rabbia di Achille per la perdita del compagno, che per il resto, nell'ambito dell'opera, rimane un personaggio secondario. Cercando di elaborare una sorta di tessuto connettivo tra le ossa imbastite da Omero, narra l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza dei due protagonisti fino al tragico epilogo. 

Fossero o meno amanti, Omero non lo dice chiaramente. Lo accennano altre fonti (Eschilo, Platone), ma a un certo punto, sticazzi. L'importante è la connessione intima tra i due uomini, la comprensione profonda, i diversi ruoli a cui sono destinati, il protagonismo, il bisogno di immortalità che vanifica l'anelito alla purezza; l'orgoglio cieco e la generosità; il mondo che trascina verso un destino che forse avrebbe potuto essere messo in discussione a favore della felicità, ma appare come ineluttabile. Il dolore, immenso, della perdita, pur attesa come inevitabile. Insomma, la modernità di quegli uomini o la nostra vecchiezza; il fatto che restiamo sempre quelli, immobili nelle nostre meschinità e nei nostri slanci. Lontani tra noi, nel tempo o nello spazio, resta tutto uguale, anche quello che ci fa ridere e piangere. 


 

giovedì 18 maggio 2023

Homo deus. Breve storia del futuro

 


Un romanzetto da niente, praticamente. Una cosuccia da 560 pagine, trasformate nel mio kindle in numeri random dal significato sconosciuto ("posizione 7643". Boh).

Mi ero innamorata del suo precedente Sapiens. Da animali a dei, qualche tempo fa. Si occupava della storia dell'umanità, e non facevo che citarlo ovunque, per il terrore di chi mi incontrava. Questo secondo volume, che si occupa del futuro, dà invece le vertigini.

Si apre con questa considerazione: per la prima volta, nella storia dell'umanità, si è riusciti a tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre (sempre in termini ampi, diciamo, per cui è più facile oggi morire di troppi hamburger che trafitti da lance) e l'uomo, ora, mira ad elevarsi al rango di divinità, attraverso la ricerca della felicità eterna e dell'immortalità. In questo modo, però, attraverso robotica, intelligenza artificiale e ingegneria genetica, l'essere umano rischia di rendere superfluo se stesso. 

Capirete che, non riuscirò mai a descrivere e motivare una tesi così corposa; sarò costretta a sorvolare su tantissime considerazioni che ho trovato davvero interessanti e lucide, e probabilmente non riuscirò a creare un flusso di informazioni perfettamente incastrate l'una nell'altra e consequenziali; ma se si dovessi illustrare 560 pagine in un post di 200, credo che a tutti converrebbe rivolgersi direttamente al libro. Cosa che comunque consiglio caldamente. 

La rivoluzione agricola ha messo a tacere gli animali e le piante, subordinandoli completamente all'uomo e al suo personale dialogo con gli dei. La rivoluzione scientifica ha tolto di mezzo anche gli dei, creando una sorta di one-man show sulla terra, un monologo senza patti con nessun altra creatura e senza alcun obbligo. Per mantenere se stesso al centro, l'uomo ha sempre creato quella che viene definita una rete di significato, che si ottiene quando molti individui intrecciano insieme una ragnatela di storie (ad esempio il valore della carta che compone il denaro, il digiuno religioso, l'andare a votare, i segnali stradali). Una rete che ha valore unicamente perché la mia famiglia, i miei vicini e magari anche quelli lontani, pensano come me che abbia un senso. Nella storia, questa rete di significato si disfa di continuo e un'altra ne viene tessuta. Ciò che è più importante in un momento storico può essere totalmente irrilevante per i discendenti di quegli uomini. 

Attualmente gli abitanti della Terra vivono in modo vorticoso una realtà che sono diventati incapaci di interpretare. Non si riesce a tirare il freno di questo viaggio verso l'ignoto, perché da una parte nessuno, al momento, può essere esperto di tutti i campi del sapere attuale, nessuno può recepire tutte le scoperte scientifiche, o prevedere l'assetto dell'economia globale tra qualche anno. Per questo la politica, nel XXI secolo, risulta priva di grandi visioni, si limita ad amministrare, non a guidare, non potendo elaborare in modo sufficientemente rapido ed efficiente questa montagna di dati che ci circonda. Capire il significato di un mondo in cui millenari pregiudizi sono stati spazzati via e le nuove strutture diventano antiquate prima ancora che possano cristallizzarsi è oltre le nostre umane possibilità. Abitiamo un mondo caotico in cui però la tensione costante, individuale e collettiva, è quella di evitare che nessuno si ritiri dalla competizione. Il postulato è quello che la crescita sia l'unica fonte di successo, e la stagnazione l'inferno. Nessuna istituzione combatte più per moderare i desideri e l'avidità individuali e mantenerli in una specie di equilibrio, come si viveva un tempo, in cui si considerava di stare dentro a una torta di dimensioni fisse. E anche se potessimo tirare il freno, di questo viaggio vorticoso, il nostro sistema economico collasserebbe, perché necessita di crescita costante per sopravvivere. Un'economia che si regge sulla crescita infinita ha bisogno di progetti infiniti. 

Nel mondo scientifico, in particolare nelle sue due discipline madri, l'informatica e la biologia, si è sviluppato il datismo. Sostiene che l'universo consiste di flussi di dati e che il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all'elaborazione dei dati. I dati, che finora erano il primo passo nella catena dell'attività intellettuale (da questi si distillavano le informazioni, da queste la conoscenza e da quest'ultima la saggezza), ora sono l'inizio, e l'elaborazione di questi è il fine ultimo. La storia della specie umana può essere interpretata come un unico sistema di elaborazione di dati verso il miglioramento dell'efficienza, attraverso l'aumento dei processori (da minime comunità al web) e delle loro connessioni (rete commerciale), attraverso l'aumento della libertà di movimento, sviluppati in diverse epoche. La biologia, ad esempio, ha scoperchiato il mondo del libero arbitrio, come un'altra mera credenza. Se gli uomini fossero liberi, come potrebbero essere forgiati dalla selezione naturale? E se siamo fatti di algoritmi, noi, come il resto delle entità sulla Terra, non possiamo scegliere quelli che ci sembrano i nostri desideri più profondi (gli scanner cerebrali moderni possono prevedere i nostri desideri prima che ne siamo consapevoli). Quello che sembra una nostra scelta è una reazione biochimica a catena che solo ex post si visualizza nella mente come un desiderio. Noi sentiamo i nostri desideri, non li scegliamo. L'essere umano, come sempre nella sua storia, si difende attraverso due grandi capacità: quella della auto narrazione e quella della dissonanza cognitiva. Ci concediamo di credere a una cosa quando siamo in un laboratorio e tutt'altra quando siamo in tribunale o in parlamento. Infatti, quando uscì L'origine della specie, non si è smesso di andare a messa, lasciando tranquillamente convivere dottrine contrastanti. Ma in quest'epoca c'è qualcosa di profondamente diverso: questo nostro dualismo, fondamentale per sostenere la nostra auto narrazione, è minacciato dalle tecnologie, non più dalla filosofia di pochi. Tutti i congegni di cui ci stiamo circondando non ammettono il libero arbitrio e per noi sarà un cambiamento mai visto prima. Perché se nei film di fantascienza si dà sempre per scontato che i computer debbano munirsi di coscienza per superare l'intelligenza umana, nella realtà possono assolutamente prescinderne e creare un percorso diverso e più veloce verso una super intelligenza che possa fare a meno di noi, o per lo meno di quelli di noi che, per scarso accesso alle conoscenze e per censo, non riescano a diventare "uomini potenziati" in grado di gestire un mondo completamente nuovo. 

In breve, l'autore ci spinge e rivolgere la nostra attenzione verso questi processi che si stanno interconnettendo: 
- la scienza converge verso un dogma omnicomprensivo che sostiene che gli organismi sono algoritmi e la vita è un processo di elaborazione di dati.
- L'intelligenza si sta affrancando dalla consapevolezza.
- Algoritmi non coscienti, ma estremamente intelligenti, potranno a breve conoscerci meglio di come conosciamo noi stessi.
Questi processi possono essere contestati, ma avranno sicuramente un rilievo serio nel destino dell'umanità, e dovranno essere presi in considerazione nell'immaginare il nostro futuro. 

Harari è uno storico. In questo libro non trova una soluzione. Cerca di collaborare a una più approfondita comprensione della realtà attuale. 
E, da storico, cerca di dirci che imparare la storia non serve a prevedere il futuro, ma a liberarsi del passato e immaginare destini alternativi. Non saremo mai del tutto liberi dai condizionamenti della nostra storia, ma meglio una libertà parziale che nessuna libertà. 



lunedì 8 maggio 2023

No sleep till er premio


C'è un modo di essere che mi attira infinitamente, da sempre. O meglio, non che sia una qualità sufficiente da sola a riparare ogni mancanza in altri settori, ma ho sempre ritenuto costituisse una marcia in più: la ritrosia. La totale mancanza di sopravvalutazione di sé, che, unita a una spiccata intelligenza, porta a una visione lucida, priva di sovrastrutture inutili, delle cose del mondo.

Alla Troisi, per capirci. Che accarezzava la realtà, non volendo danneggiare niente di quello che sulla terra valga la pena di esistere, ma abbattendo muri di stupidità con fare casuale. 

E un altro di questi è Zerocalcare, che sabato è stato premiato dalla giuria del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani per il suo " No sleep till Shengal", dalle mani di Angela Staude Terzani. Nel consegnargli il riconoscimento, la signora Terzani ha raccontato del sogno del marito, che immaginava un'isola fatta di poeti che avrebbero vegliato e mantenuto vivi i veri valori e lo ha paragonato a uno di quei poeti. Zerocalcare era paonazzo, e a momenti viola, per la costante sensazione di inadeguatezza che lo permea, tanto più davanti a riconoscimenti rilevanti come questo e supplicava il presentatore con gli occhi affinché mettesse fine ai commossi applausi del pubblico, in una costante incredulità che una platea sempre più vasta lo consideri uno dei propri riferimenti intellettuali. Quando Marino Sinibaldi gli ha chiesto "Ma perché tu passi ogni volta, a ogni incontro con il pubblico, innumerevoli ore a fare disegnetti su misura per la gente?" ha risposto pressappoco: "P'espià. Io ho molti amici più svegli de me, e quando mi dicono che me devono intervistà su un argomento io vado da loro, che lavorano ar supermercato, a 'mpilà cose sugli scaffali, e gli chiedo che je devo dì, in questa intervista. Ma nessuno di questi amici miei sarà mai intervistato. E il fatto che qua ci sono io, in mezzo agli allori, fa sì che allora devo fa' capire alla gente che anche io vivo de merda, a fà disegnetti per tredici ore". 

Però quando gli hanno chiesto di parlare del popolo degli Ezidi, comunità isolata nel nord dell'Iraq, che ha subito un genocidio nel 2014, poi stupri, rapimenti e che ora tenta, in un pugno di superstiti, di costruire il confederalismo democratico sulle orme dei curdi, ostacolato da ogni parte, da ogni governo che lo circonda, che attacca in modo subdolo e violento, lì non c'era più spazio per la ritrosia, per l'ironia mite  e nichilista di quando parlano della sua persona. Ha sottolineato quanto sia strano, che un popolo che vive costantemente pressato dalla violenza, dalla paura e dagli scarsissimi approvvigionamenti, tenti pervicacemente di creare qualcosa di bello, importante, diverso, per essere protagonista del proprio vivere nel mondo. Invece noi, senza reali pericoli imminenti (se non quello provocato dai nostri stessi comportamenti, n.d.r.), senza alcun problema di ricevere quanto è necessario (e superfluo) per la quotidianità, passiamo il tempo a creare esclusivamente strutture indirizzate alla sopravvivenza, alla sicurezza, all'isolamento e alla difesa, spaventati da ogni cosa, da una Terra che si disegna perpetuamente in forma di minaccia. 

Gli ezidi, e altri popoli come loro, immaginano un futuro costruttivo attraverso bombe, crolli e strade desolate. Noi, pieni di tecnologiche infrastrutture, di tempo e di comodità, non sappiamo andare oltre al fallimento dell'illusione moderna dell'uomo che piega tutto al suo volere e siamo paralizzati in un clima di desolata auto protezione, priva di qualsiasi visione.

"Poi, oh, se tu ti ritieni un rivoluzionario dimmelo, eh. Che ti faccio cambià il dosaggio delle goccette".
"Ma figurati. So' scemo sì, ma morigerato. Io non so' coraggioso. Manco troppo svejo. Zero intuitivo. Sensibile bleaahschifo. Però ho imparato a fa' una cosa nella vita. Una sola. A scegliermi bene le persone che voglio vicino a me. Più coraggiose, sveje, intuitive e sensibili di me. Che sanno come costringermi a stare nei posti in cui bisogna stare. E in cui anche uno come me può portare il suo mattoncino".

venerdì 5 maggio 2023

Le riflessioni del convalescente

 

Quando una si ammala per la quarta volta in nove mesi, con quintali di catarro che ingorgano le meningi, le letture (tra l’altro piuttosto impegnative, mai che mi ammali durante un Camilleri) diventano ostiche e rallentate, in uno stato di perenne hangover da echinacea e non resta che dedicarsi a serie americane e immortali filmetti sulle varie piattaforme. Quando una poi si dedica con fervore a molte serie, perché anche se la lettura è ostacolata, il tempo quello rimane, e tra l’altro il giacere orizzontale ne cambia la percezione, quella, dicevo, inizia a trovare punti comuni, che collegano alcuni comportamenti, indipendentemente dalla narrazione. E fanno pensare che, se un atteggiamento si ripete in decine di film e puntate, si possa supporre che sia qualcosa di assodato nella quotidianità di un popolo. Per esempio:

Perché gli americani mettono sempre i piedi sui letti e sui divani indossando le scarpe?  Non posso credere che a New York le strade vengano pulite con tale frequenza e intensità da risultare al pari delle piastrelle casalinghe. Già fatico a credere che le stesse camere da letto, coperte spesso di moquette, siano in grado di superare un controllo dei NAS, quindi figuriamoci il ciottolato barbaro di Union Street. Eppure lo fanno sempre, pervicacemente, senza che nessuno abbia nulla da dire e senza (apparentemente) strisce marroni sulle trapunte. Poi magari si girano sul letto sospirando d’amori perduti, mettendo la faccia proprio lì, dove è ancora calda la traccia del chewing-gum calpestato un’ora prima.

Perché quando gli americani si lavano i denti spazzolano correttamente con vigore, ma poi sputano resti di dentifricio, semi di Chia e tartaro e mettono lo spazzolino nel suo bicchiere, senza nemmeno un sorso d’acqua per il risciacquo definitivo o risciacquare l’attrezzo stesso? Un po’ mi ricorda il mio Erasmus germanico, e la pervicacia con cui i tedeschi insaponavano le stoviglie per poi depositarle nell’asciugapiatti coperte di morbida schiuma; effettivamente gli stessi detersivi riportavano la dicitura “senza risciacquo” e davanti ai nostri italici volti esterrefatti, gli autoctoni commentavano: “mi fido dell’industria chimica tedesca” e noi sorvolavamo educatamente su una troppo facile amara ironia. 

Ultima considerazione: perché? Questa folle, insensata, esiziale mania degli americani per la verità. Che poi è quanto di più ipocrita esista: siamo abituati a bugie di ogni tipo sugli equilibri del mondo, da “Giuro che ha le armi nucleari, me l’ha detto mio cuggino” a “La mia stagista lavora sotto la scrivania perché teme i raggi UVA”; senza scomodare i massimi sistemi, nella quotidianità che vediamo in TV i protagonisti ne combinano di ogni; poi, però, sentono l’impulso di spifferare tutto a ogni costo, possibilmente senza alcun risultato pratico che incasinare tutto ancora di più, facendo soffrire inutilmente quanta più gente possibile. “Devo dire alla nonna che quella volta le ho rubato mezzo dollaro” “Ma Bryan, la nonna sta morendo…” “Vuoi che mi perda questo momento? Non sarei un vero americano”.


lunedì 24 aprile 2023

Bignami critico

Dunque qui si parla di un blog che tratta delle pagine che leggo, oltre a quelle che vivo: l’ho letto nell’intestazione, e tocca recuperarle, quelle pagine. Almeno dall’inizio dell’anno. 
Ho due possibilità: 
1) fare una foto dei libri, tutti impilati, scrivendo uno scarno voto, dall’alto al basso, senza alcuna motivazione, come fa Cattelan (per lo meno prima di fondare una personale casa editrice).
Chissà cosa pensa un romanziere, al riguardo. Se trovi più doloroso essere stroncato nel dettaglio o così, come per un tema scritto per forza in seconda liceo.
1°. 5
2°. 8
3°. 7
E così via. Ma questa soluzione comporta un problema serio, dovuto al mio leggere eBook. La fotografia dei libri impilati ne sarebbe gravemente compromessa.

2) soffermarmi solo su quelli che abbiano riscosso la mia incondizionata stima. Devo dire che questo inizio anno non è stato fortunato, sul piano letterario. Ho letto cose appena decenti e perfino qualcosa di improponibile. Ho perfino esercitato il terzo diritto di Pennac, quello di non finire un libro, che uso con molta parsimonia, sentendo sempre quel sordo senso di colpa di colei che ha fallito, come se tutte le parole scritte al mondo avessero lo stesso rilievo e fossi io a non coglierlo. Diciamo che è stato solo un pugno di libri, a risvegliare le mie interiora e farmi scricchiolare le ossa: tre su undici.

Tara Westover, L’educazione. L’incredibile vita, dalla sottomissione al riscatto, di una ragazza di famiglia mormona sui monti dell’Idaho. La fede cieca del padre (che non si esclude sia anche bipolare, e questo fa riflettere su come il fanatismo si intrecci con la malattia mentale rendendo “accettabile” un pensiero completamente squilibrato) diventa crudeltà, rigidità, mancanza di pietà per i suoi stessi figli. Il complottismo paterno impedisce loro di andare a scuola, li trascina in lavori pericolosissimi, vieta le cure ospedaliere, e soprattutto è così totalizzante da far sentire i figli ingrati e sbagliati, se non accettano incondizionatamente questi soprusi come volontà di Dio. Quello che più mi ha colpita, di questa storia realmente vissuta dalla protagonista, è stata la narrazione distaccata, quasi serena e rassegnata, della griglia di violenze e bugie in cui è cresciuta, che rende il racconto ancora più vero e terribile. 

Mario Calabresi, Quello che non ti dicono. Calabresi torna a indagare un periodo che si era ripromesso di non frequentare mai più, dopo il libro autobiografico per il quale aveva analizzato e studiato lungamente gli anni di piombo. Invece, a causa di un insieme di eventi molto singolare, ci ritorna, per raccontare l’assassinio di Carlo Saronio, nel 1975. A chiedergli di farlo sono la figlia e il nipote di Carlo, all’epoca bambini (la figlia è nata otto mesi dopo, non conoscerà mai il padre), per rompere il muro di silenzio che l’intera famiglia ha costruito, incapace di metabolizzare quanto è successo, e forse l’epoca intera. Calabresi decide di aiutarli e ricostruisce la vita di questo ragazzo della Milano bene, pieno di ideali di giustizia sociale e di sensi di colpa per la sua condizione di privilegiato, che proprio per questo si fa coinvolgere in situazioni che non fanno che distoglierlo dalla missione della sua vita, incastrandolo nella violenza con cui molti identificavano l'unica soluzione. E, alla fine, portandolo anche alla morte, per mano di un sedicente amico. Un doveroso viaggio in un'epoca i cui echi ancora ci riguardano tutti, anche inconsapevolmente. Tanto vale esserne un po' più consapevoli. 

Ian Leslie, Bugiardi nati. Perché non possiamo vivere senza mentire. L'autore scandaglia le bugie, la loro storia, le loro motivazioni, le loro funzioni. D'altra parte, tra i comandamenti, o imperativi morali condivisi, se preferiamo, non dire falsa testimonianza è l'unico che tutti violiamo regolarmente, e con entusiasmo, basti pensare a "che bel regalo, grazie!", per quieto vivere, per non irritare o dispiacere, o per le buone maniere che impariamo già nella prima infanzia. L'autore illustra nel suo studio come mentire, tendenza umana universale, sia stato tra i motori evolutivi della specie; che i grandi bugiardi sono grandi decifratori del comportamento umano; che dire bugie non è una patologia o una stortura da eliminare, ma un aspetto fondamentale della nostra natura, della complessità intellettuale dell'essere umano; che ingannare sé stessi sulle proprie capacità è il comportamento abituale di coloro che avranno più successo nel lavoro, una salute più solida e rapporti più sereni, come tra l'altro dice George Bernard Shaw: "Le persone ragionevoli si adattano al mondo, le persone irragionevoli tentano di adattare il mondo a sé. Tutto il progresso, dunque, dipende dalle persone irragionevoli". 
Una parte molto divertente del libro è quella in cui Leslie si sofferma sull'effetto placebo e su molti studi scientifici sull'argomento. A un certo punto parla del colore delle pillole somministrate per diverse malattie. Pare che, a parità di principio attivo (o perfino in assenza dello stesso), il colore incida sulla potenzialità di guarigione del farmaco, come tra l'altro la dimensione, la frequenza di assunzione e il costo, in base alla tipologia di malattia. Per esempio, la depressione si cura più efficacemente con le pillole gialle. L'ansia con quelle verdi. I dolori dell'ulcera con quelle bianche. L'insonnia con le pillole azzurre, ma con una sconcertante eccezione. In Italia, unico caso al mondo, esiste una fondamentale differenza di genere: le donne trovano molto giovamento nelle pillole azzurre, per gli uomini invece queste tendono a funzionare meno rispetto a quelle di altri colori. L'ipotesi (solo formulata, non dimostrata) fornita dagli autori di uno di questi studi è che essendo azzurro il colore delle varie nazionali sportive, questo non induca il sonno nei maschi italiani, ma più probabilmente eccitazione e predisposizione al tifo. Non so se invece vi sia un collegamento con il Viagra, ma dovrebbe riguardare anche maschi di altre nazioni. Mi auguro. 

martedì 18 aprile 2023

A volte tornano

E' strano, prendere tutto un malloppo di passato, di quando la prole ti saltellava intorno in una condizione di totale dipendenza, tenerlo lì sotto e tentare di proporre qualcosa di molto diverso, che sì, viene da quella roba lì, da quelle esperienze, ma per certi versi è di nuovo una vita più simile a quella da giovani e per altri son giornate da vecchi perennemente stanchi e acciaccati. Fatto sta che in questi anni di silenzio, nei quali non mi nutrivo di scrittura, io continuavo a pensarci, a questo diario che restava solo nella rete, sconosciuto ai più e giustamente dimenticato dai pochi, tra altri milioni di diari e che conteneva cose che per me erano importanti: mi avrebbe per esempio impedito di dimenticare molti giorni. Quindi è sempre stata rassicurante, l'idea che da qualche parte ci fosse; che, come pare accada per le foto imbarazzanti, la rete prima o poi restituisca ogni cosa (tranne le tesi di laurea cancellate per errore, che invece finiscono in un universo parallelo dal quale non si torna). Questi racconti, qui sotto, mi tengono per certi versi ancorata a quella vita, con un bambino piccolo, all'asilo e all'inizio della primaria, quando i pomeriggi erano spesso fatti di mutuo soccorso tra madri, dopo scuola a lasciar sfogare i pargoli; era incredibile, quante cose delle reciproche vite si finiva per conoscere, fuori dalla scuola col sole e col freddo boia, a consolarsi e consultarsi a vicenda. Ora, madri di adolescenti, non ci si conosce più, tra famiglie della classe del liceo, e si finisce per avere più tempo, ma socialità meno assidua, salvo recuperare quella della gioventù, sempre che si sia stati abbastanza saggi da mantenerne degli scampoli. Tutto questo per dire: l'impulso impera! Ricomincio a scrivere: qui le mie letture, o le giornate che può valere la pena di ricordare e condividere con gli amici. E altrove (sarò più precisa a breve) i miei viaggi, dato che mi è stato detto che era un peccato, che tutta la mia programmazione ossessivo-compulsiva-certosina restasse confinata in un quaderno A5 invece che a disposizione dell'umanità (i venticinque lettori di manzoniana memoria). Quindi coraggio, ricominciamo. 

martedì 6 settembre 2016

Cent'anni di solitudine

E poi ho dedicato agosto a leggere IL LIBRO.
O meglio, a leggerlo per la quarta volta. 
Ho deciso di leggerlo ogni dieci anni, come se leggessi un libro diverso, travisato da quel momento della mia vita. 
Ricordo distintamente dove mi trovavo ogni volta, al momento della lettura del finale. 
La prima volta in Turchia, su un camper, sul sedile davanti, i piedi sul cruscotto, con dietro un vivaio di adulti e bambini che si interrogavano sulla strada da prendere per raggiungere finalmente il mare. Le galline sulla strada, da evitare accuratamente con le ruote, le donne in fila ad una fontana, con i calzoni col cavallo al ginocchio, tutti a piccoli fiori, e il fazzoletto bianco annodato in cima alla testa dopo un giro sulla nuca. Grida di bambini incuriositi al nostro passaggio: all'epoca ancora evento raro. Terra che si solleva ovunque. Forse quanto di più simile, nella mia esperienza, alla Macondo di cui stavo leggendo. Del libro tentavo di ricordare la trama, di non perderla, le parentele, i nomi che si ripetevano. Le ultime parole del romanzo sono state commoventi, non possono non esserlo. Ma lontane. Gli ultimi sussulti di un mondo che si disfaceva lentamente, a partire dalla prima pagina, come la vita, non potevano colpire con forza la mia giovinezza. 
La seconda volta, sul letto di una città non mia, che poi lo sarebbe diventata, dopo gli studi. Forse è la volta che ricordo meno vividamente, assetata di vita, anche se sempre con la consapevolezza della portata e del piacere di quello che stavo leggendo. Ancora ancorata al cercare di ricordare la trama e i personaggi, infastidita dalla difficoltà di mantenerne una lucida memoria. 
La terza volta, sempre in quella città, sul divano letto di un monolocale che è stato la mia prima casa da sola, anche se sola per poco. Per la prima volta, oltre a guardare avanti, ho guardato indietro, già spaventandomi leggermente per gli anni che scorrono come treni, creando un unico percorso tra una lettura e l'altra di questo libro, come se mi accompagnasse davvero ogni giorno. 
E ora, la quarta volta, ho finito il libro nel mio letto, questa volta nella città natale. Con un brivido che conteneva pietà, commozione, ammirazione e angoscia per l'età che avrei avuto la prossima volta che avessi letto quelle parole. Per l'impossibilità di abbracciare e trattenere tutto immobile.
Ho lasciato perdere la trama (forse, proprio in questo modo, ricordandola più che tutte le altre volte), ho lasciato che i personaggi dai nomi ridondanti mi vagassero intorno, dicendomi quello che volevano dirmi, e non quello che cercavo di cavare da loro. Ho vissuto come Macondo, sentendo l'inizio del disfacimento anche dentro di me. Mi sono fatta trasportare con immensa gratitudine e malinconia.

mercoledì 1 giugno 2016

L'amore imperfetto

Ecco che ricomincio a lasciare traccia dei libri che leggo, con l'Amore imperfetto di Grazia Attili, che ha creato un saggio godibile e documentato sulle derivazioni biologico-storico-evoluzionistiche dell'amore materno e dell'amore paterno, ovvero di come si siano differenziati, ma contemporaneamente rafforzati a vicenda, fondamentalmente al solo fine di perseguire la spinta che ancora surclassa ogni altra, nel determinare i nostri comportamenti: il successo riproduttivo, il far sì che i nostri geni ci sopravvivano.
Spogliati di ogni velleità, restiamo scimmie nude alla ricerca di un'istintiva immortalità.

A chi non è mai capitato?

Un amico, il cui nome sarà da me celato fino alla tomba perché ancora teme rigurgiti istituzionali a distanza di una quarantina d'anni, mi ha raccontato di essere stato arrestato ad Amsterdam, per aver rubato una grammatica inglese, a 19 anni, ovvero ai tempi in cui i sistemi sonori antitaccheggio erano già ben noti nelle perfide città nordiche, ma non ancora nelle raffazzonate italiche cittadine come la nostra.
Orbene l'amico infila la porta con la sua grammatica nella giacchetta, quasi spavaldo, come se la impellente necessità del ripasso del present continuous escludesse ogni connotazione giuridica e morale all'atto, e il mondo prende a suonare. Egli si interroga: è la grammatica inglese, che suona? E' un cortese addio agli avventori della libreria? Ho calpestato un mangiadischi (tanto per inserire il lettore in un'epoca ben precisa, ndr)?
Ma i suoi pensieri non vanno lontano, e soprattutto non lo aiutano a imprimere un vorticare alle gambe utile a conquistare la salvezza, perchè un signore in giacca e cravatta, con una fisicità non distante da un hooligan nell'esercizio delle sue tifose funzioni, lo agguanta e lo trascina in un piccolo ufficio. Ove viene immediatamente convocata la Pubblica Sicurezza, nei panni del poliziotto buono e di quello cattivo, il quale, senza alcuna considerazione per la curiosa tipologia del furto, lo ammanetta, trascinandolo per le strade del centro fino alla questura. Forse sarebbe stato diverso, se si fosse trattato di una grammatica di olandese settentrionale.
Fatto sta che, dopo interventi psicologicamente discutibili in una lingua sconosciuta (insisto: rubate sempre la grammatica corretta, gente, ndr) da parte del poliziotto cattivo, l'amico è stato lasciato solo con quell'altro. Che gli ha detto, senza inutili parafrasi: io ti lascio andare, ma tu mi procuri un cappello da carabiniere italiano.
E qui potremmo attardarci in numerose speculazioni sulla corruzione dilagante, che non limita i propri influssi alla nostra sfortunata Europa meridionale, ma io preferisco di gran lunga soffermarmi sul fatto che un mona ruba una grammatica inglese a Amsterdam, ed un altro trova sensato riscattarne la libertà per un cappello da carabiniere.
A onor del vero, il nostro amico è tornato in Italia, e subito si è dato da fare a procurare (commettendo altro reato) il desiato cappello, come se il poliziotto buono facesse parte di una STASI sovranazionale capace di verificarne il mantenimento delle promesse. L'ha prontamente inviato, e mai ha ricevuto risposta.

Da allora si tiene lontano da reati, grammatiche, Olanda e carabinieri. Niente male, quanto a collezione di fobie.

martedì 26 marzo 2013

Tutto torna

Tanti anni fa ho trascorso sei mesi in una graziosa cittadina tedesca, in un meraviglioso erasmus, di quelli che lasciano tracce indelebili di memorie anche dolorose dovute alle nostalgie irrisolte di una vita completamente diversa, una vita a termine. A fine inverno nonna D e alcuni suoi amici sono venuti a trovarmi per qualche giorno. Tra tutti, possedevano il seguente patrimonio linguistico teutonico: Osterhase, ossia coniglio pasquale, e Spitzen zusammen, ovvero la parola d'ordine del maestro di sci austriaco che cerca di inculcare lo spazzaneve: le punte insieme. Per anni ho conservato nella mente diligentemente queste perle di saggezza, senza capire esattamente che spazio avrebbero avuto nella mia vita. Questa mattina, mentre raschiavo il ghiaccio della notte dal parabrezza, in questa assurda vigilia di Pasqua innevata, comincio a capire.

domenica 24 febbraio 2013

Outing

E' il momento che si sappia. Io ho una curiosa abilità, molto utile nel contribuire in modo determinante al successo di un papiro di laurea, quel manifesto che in talune città universitarie si usa redigere per l'amico laureando descrivendo in modo buffo e ambiguo le gesta della sua vita, ma assolutamente poco utile nella vita, soprattutto visto che Stefano Benni detiene da decenni l'unico posto in pianta organica, al riguardo. 
In parole povere: io sono molto brava a creare poemi, sonetti, odi e ballate, in endecasillabi, in settenari, novenari, con attenzione maniacale alla metrica e alla rima, alternata, baciata o come il committente crede. Ma, attenzione, esclusivamente su argomenti assolutamente irrilevanti. 
Due sono le poesie serie che nella vita mi ha dettato il cuore: esse non sono in rima, sono state scritte una nel 1993 e una in anni successivi, entrambe dettate da stravolgimenti del cuore, e quelle due poesie non vedranno mai la luce, passando direttamente dall'oscurità all'oblio in virtù della mia morte. 
Tutto il resto è rima, èd è forse divertente, almeno per me che le ho scritte, affettuoso per chi le ha ricevute, curioso, ma inesorabilmente inutile.
Come prova di ciò che sto scrivendo, perchè mi sembra giusto , riporterò qui sotto una poesia scritta per un'esercitazione in un corso di lingua in Germania, anno dell'Erasmus 1997, pur non del tutto esplicativa in materia di metrica per scelta stilistica, che traduco liberamente poco sotto, precisando che ogni traduzione è un po' morire, che l'opera ci perde. E speriamo così di aprire questo blog all'Europa. 
Potrei anche lanciare un concorso: chi mi dice cosa mai ci possa fare nella vita, con questa abilità, avrà in regalo un poema su un oggetto a piacere.

Weißt du

Weißt du,
meine Liebe ist unendlich,
wie unzählig ist am Meer
der Sand
Aber sag, mein Lieber, 
was hast du 
mit der Bademeisterin gemacht, 
am Strand?

Weißt du,
ich möchte alles das sein, 
was du für mich bist.
Aber erzähl, mein Schatz,
die Frau die immer 
an deinem Telefon antwortet:
wer ist's?

Weißt du,
ich bin in dich verliebt
wie in eine erbarnungslose Katze
ein Kater.
Aber, Herz, 
wer war das Kind
das wir fortwährend folgte
und sagte: Vater?

So, meine große Liebe,
ärgere dich nicht
wenn ich dich schlage und beiße,
wenn du, in der Nacht, 
immer
vergißt,
wie ich heiße.

Sai

Il mio amore è infinito
come lo sono 
i granelli di sabbia.
Ma dimmi, amore,
Che hai fatto colla bagnina
A Castellamare di Stabia?

Sai,
io vorrei essere tutto ciò che tu sei
per me.
Ma racconta, tesoro,
la donna che risponde 
al tuo telefono
chi è?

Sai,
io sono un gatto
innamorato di una gatta
senza pietà.
Ma dimmi:
chi era il bimbo
che ci seguiva ovunque
e ti chiamava
papà?

Così, 
non ti inquetare
se io, e il mio pugno,
ti picchiamo
quando, di notte,
sempre
dimentichi come
mi chiamo.
 


venerdì 20 luglio 2012

Odor control

Mi interrogo spesso sul potere evocativo degli odori.
Esco dal lavoro nel momento più assolato del pomeriggio, quando il calore sale dall’asfalto fino a diffondere ovunque  il profumo dei pini marittimi. Si dirà: devi considerare che sei ben felice di uscirtene da quel posto di perdizione, anche se fuori dalla porta trovassi scarichi tossici di allevamenti di ovini. Certamente sì, ma quel profumo mi guida subito altrove, cancellando istantaneamente ogni traccia fastidiosa della giornata.
Quello è uno dei più banali e universali odori evocativi, che lascerà pochissimi cuordipietra indifferenti al suo aleggiare. Ma mi fa camminare come bambina, come adolescente serena, per lo spazio e il tempo di quel viale alberato che mi separa dalla macchina, tanto da spingermi a un quotidiano ringraziamento muto.
Altro odore banale, ma che non risparmia mai alle labbra un sorriso, è il profumo che resta nelle mani dopo anche solo un abbraccio fugace a una persona di cui si è innamorati. Anzi, quell’annusare continuo può addirittura rendere comprensibile a se stessi un sentimento ancora confuso.  
Poi ci sono gli odori privati, assolutamente inspiegabili, e a volte nemmeno riconducibili ad alcuna esperienza razionale. All’improvviso sono di buon umore, e non so assolutamente quale memoria abbia colpito il mio cervello fino a stordirlo. Oppure, al contrario, non so da dove arrivi quell’odore, ma è certamente quello di una notte passata dormendo all’aperto in un paesino turco, temendo gli scorpioni forse più del dovuto, ma ascoltando il mare, le barche dei pescatori, qualche parola sconosciuta, in uno stato di pace interiore difficilmente ritrovata in seguito.
L’odore del ricordo appena raccontato, poi, l’ho trovato: quella notte avevo dormito con il sacco a pelo appoggiato a tronchi tagliati di qualche conifera, e ora lo sento continuamente entrando in casa, perché lì fuori ho ammucchiato pezzi di un albero tagliato in giardino, che avrei dovuto consegnare a nonna D, ma non ne trovo il coraggio. Mi mancherebbe troppo quell'evocazione prepotente che lascia senza fiato.
La cosa più curiosa è che non è detto che i ricordi d’infanzia, o di adolescenza, in sé, siano così piacevoli. Per quanto mi riguarda, tende a prevalere una velata malinconia, che ha rivestito la memoria chissà quando e chissà perché, fino a uniformare un po’ i ricordi, e, tendenzialmente, a farmi preferire il presente. Però l’odore rimane memoria pura, non si porta dietro zavorra dagli anni, regala emozioni vivide e sostanzialmente piacevoli. E gliene sono grata ogni volta.

martedì 27 marzo 2012

Il medico di corte




Questo libro mi chiamava da anni dai mucchi di tascabili alla gloriosa Feltrinelli in cui trascorrevo buona parte del tempo regalato di quando ero studentessa. Ogni volta me lo rigiravo tra le dita, ne leggevo la quarta di copertina, sospiravo. Qualche volta finiva sul mucchio di tomi che reggevo sotto le ascelle come un francese la baguette, e poi, prima della cassa, tornava al suo posto. Perché nella maggior parte dei casi, quando ho letto libri non consigliati o recensiti da persone di mia fiducia, ma basandomi su titolo, sulla copertina o su non so quale sortilegio della carta, ne sono rimasta delusa. Era diventato il simbolo del libro che potrebbe deludere, senza che io, né lui, immagino, lo desiderassimo.

E poi l’ho visto tra i cinquanta libri scelti da Baricco nei suoi articoli della domenica sulla Repubblica.

Badate: non ho letto la recensione prima di prendere il libro, ho solo accettato il consiglio come quello di un amico che si incontra per caso aspettando l’autobus, e, mentre sta salendo, dice: dimenticavo, ho letto Il medico di Corte, te lo consiglio! Insomma, mi è bastato l’autorevole via libera al mio desiderio. Solo oggi ho letto cosa Baricco ne dicesse.

E adesso? Immagino che, circolando in rete la sua recensione, la mia diventi un inutile orpello. Quindi mi faccio anch’io promotrice della sua capacità di impastare le parole, dandogli umile ospitata.

"Accadde tutto realmente, nel piccolo regno di Danimarca, nella seconda metà del Settecento. C’era questo re, Cristiano VII, che con ogni evidenza era poco più di un ragazzo demente, inadatto a svolgere con la necessaria linearità le più semplici funzioni della sovranità. Cercarono un medico, allora, per provare a limitare i danni con una qualche cura. Trovarono un tedesco: si chiamava Friedrich Struensee. Era brillante, abile e cresciuto nel verbo dell’Illuminismo. Prese per mano il re, convinto che pazzia fosse un nome troppo riassuntivo per definire quello che poteva succedere nel cervello di un uomo, e sicuramente di quell’uomo. Lo riportò a galleggiare passabilmente sulla superficie delle cose e si guadagnò la sua più completa fiducia. Non ci mise molto a diventare l’amante della regina, la persona più influente del regno e l’uomo che impresse alla Danimarca la più fulminea e incredibile delle rivoluzioni illuministe che la storia ricordi. Morì, decapitato, un paio di anni dopo, giudicato colpevole di Lesa Maestà.

Fin qui i fatti. Bisogna poi saperli raccontare, se quello che vuoi farne è un romanzo.

Per Olov Enquist è un narratore squisito, e in quel particolare artigianato (distillare dalla Storia delle storie) è, per quel che ne capisco io, uno dei migliori. Ha oggi 77 anni, è noto per il suo impegno politico, è svedese. Non ci sarebbe da stupirsi se ce lo ritrovassimo premio Nobel, prima o poi. Ma a parte questo: scrive limpido, con architetture nitide e mai banali, una misura incantevole e dei cambi di velocità da ragazzino. Di rado forza le cose, e spesso sembra giusto accompagnarle, come pochi scrittori sanno fare. Ha un timbro di voce di cui non ho mai veramente scoperto il segreto: credo che parta da una specie di freddezza da referto medico e poi la scaldi al fuoco lento della sua personale meraviglia. Il risultato è strano: è come sentire un notaio che legge un testamento, ma il testamento è il suo, e allora la voce è più calda, e ogni parola piena di cose, e il tutto così irripetibile – ordinato ma irripetibile. Una cosa, in particolare, gli devo riconoscere, con invidia: ha un modo sconcertante di prenderti, ovunque tu sia, e di posarti in mezzo alle storie che racconta: lo sanno fare in molti, ma lui lo fa con un gesto mite, da artigiano modesto, che ti prende di sorpresa. Ti ritrovi lì in mezzo, ma maledettamente in mezzo, e neanche ti accorgi che qualcuno ti aveva preso in mano e ti aveva posato su quella scacchiera di cui nulla sapevi. Lasci che lui giochi, allora, ed è, per lo più, un piacere".

Il medico di corte è probabilmente il libro che gli è meglio riuscito, ma non è solo per questo che l’ho amato così tanto da parlarne oggi. L’ho amato anche perché custodisce una fantastica lezione sull’Illuminismo (e dunque, se posso avanzare un consiglio accessorio, un’ideale integrazione alla lettura del libro di Berlin sul Romanticismo). Forse non avevo mai capito veramente la forza utopica e la follia visionaria delle idee illuministe fino a quando Enquist non mi ha raccontato la fulminea rivoluzione danese di Struensee: fino a quando lui non mi ha fatto vedere da così vicino la realtà di un paese rivoltato come un calzino, in pochi mesi, sotto la scossa elettrica di folli ideali di libertà, di razionalità, di naturalità. Uno spettacolo sublime e grottesco. Una specie di Sessantotto in porcellana. Non si ha idea di come d’improvviso, centinaia di pagine lette e capite, mi siano tornate addosso, vive però, adesso, e perfino un po’ roventi. Una lezione, dico.

domenica 22 gennaio 2012

Canto di Natale, ovvero come germina la discordia tra i popoli

Bisogna premettere che mio padre e i suoi fratelli hanno vissuto tutta la loro giovinezza tramando nell’ombra. Per la loro madre, nonna O, tutto ciò che non sapeva fare lei era impraticabile da chiunque. Dunque i figli, ad insaputa dei genitori, hanno nuotato in ogni fiume, si sono scapicollati in biciclette da rottamare, hanno posseduto automobili e motociclette, e andavano a messa a turno, per poter sostenere l’interrogatorio materno sul vangelo del giorno, presentandosi impeccabili a cena.
Tanti anni fa i due fratelli maggiori erano rimasti soli a casa per un pomeriggio. Il più grande, zio D, femminaro ai livelli di Mimì Augello, era riuscito a rimediare un appuntamento con due americane. Sono entrate in casa, e hanno danzato tutto il pomeriggio con una bibita in mano, e ai piedi tacchi a spillo che terminavano con tre chiodini, per difendersi dal ghiaccio. Il tutto sul parquet appena posato dal severissimo nonno P.
Alla fine del festino, appena notata la devastazione operata sul pavimento, lo zio H ha decretato: siamo morti. Ma lo zio D ha preso in mano la situazione: ghe pensi mi.
Al ritorno dei nonni, che immagino coi capelli dritti per lo sconvolgimento emotivo, lo zio ha raccontato: Sai quella stupida della Olga Fornaro, la figlia dei vicini? E’ venuta a tentare di venderci un’enciclopedia, e nella foga del momento, andava avanti, andava indietro, e girava in tondo, e non c’era verso di fermarla. Una cosa pazzesca!
-Ma quella stupida! Ma guarda se doveva ridurre così il parquet nuovo! Ma a cosa serve girare come trottole per vendere un libro! Ha commentato il nonno P pieno di sdegno.
Da quel giorno la povera Olga Fornaro ha sempre rappresentato, nella memoria familiare, il massimo esempio di stupidità e indifferenza per le cose altrui. Ma non solo per i poveri nonni buggerati, anche per i figli ingannatori, che ancora vedono passare l’ignara donna apostrofandola con: Guarda, quella stupida di Olga Fornaro.

domenica 25 dicembre 2011

Rapporti con santi e supereroi in genere


A pranzo con parenti, è stato interessante scandagliare il rapporto delle genti e delle generazioni con le imminenti festività.
- Attenzione spoiler-
I miei nipoti ora diciottenni ancora ricordano vividamente il dolore infinito della scoperta del grande imbroglio Babbo Natale: erano in Grecia, in un ristorante sul mare, in un luglio afoso, e attendendo l’ordinazione hanno chiesto ai genitori quasi per scherzo, per una definitiva conferma, se quelle voci dei compagni sull’inesistenza del grande vecchio potessero avere un fondo di realtà. I genitori hanno confessato. E loro, da bravi futuri ingegneri, hanno passato in rassegna con una sorprendentemente precisa memoria dell’infanzia tutti i Natali trascorsi, facendosi spiegare come fosse possibile che i genitori falsi e bugiardi fossero accanto a loro nei consueti panni e contemporaneamente impersonassero il vecchio porporavestito, e come mai quell’altra volta Babbo è arrivato da quella direzione mentre il padre si trovava dall’altra parte della stanza, e così via, quasi a cercare di ricondurre loro i genitori alla realtà, sottraendoli a quella incomprensibile arroganza di volersi fingere Santi o Supereroi.
Per quanto mi riguarda, l’assoluta mancanza di spiritualità della mia atea famiglia mi portava ad accettare con molta diffidenza la materializzazione di figure ambigue che si aggirassero per casa. Se una vecchia santa cieca e asinomunita riesce a penetrare senza alcun problema a depositare il dovuto e a ingurgitare bicchieri di latte e manate di fieno (procurati dai genitori per attribuire realismo alla messa in scena), chiunque potrà entrare a casa nostra, anche con intenzioni meno nobili di quella di rallegrare la mia mattinata. Ricordo notti di puro terrore, attenta a captare i rumori dell’infrazione. La scoperta della verità, alla fine, deve essere stata un sollievo, che naturalmente ho rimosso.
 Infine, viaggiando fino all’inizio del Novecento a spiare la famiglia prolifica di un povero maniscalco, in cui la scoperta della verità comportava (con una qualche logica, pur legata alla povertà) la definitiva rinuncia al misero regalo, diamo uno sguardo a mio nonno P; terrorizzato che quel momento arrivasse (dunque, nell’intimo, già consapevole), fu un giorno preso dal panico, e corse dalla madre tappandosi le orecchie e gridando: Mama, mama, i vol dirme chi che l’è San Nicolo!

venerdì 5 febbraio 2010

La petizione


Immaginate una piazza affollata, un sabato pomeriggio, in cui camminate per una volta liberi da pensieri, quasi zuzzurelloni.
All’improvviso un tale si avvicina con aria amichevole, un viso nebbiosamente noto in qualche piega del cervello che solo un elettrodo potrebbe identificare - null’altro che porti qualche ricordo. Il tipo vi tende la mano, con l’altra vi rifila una pacca sulla spalla, e vi chiede con solerte precisione come sta la famiglia, la nonna malata, perfino il gatto di casa, di cui conosce nome e nomignolo che usate attribuirgli nell’intimità.
E voi, senza parole, cercate di scartabellare nella coscienza, sudando copiosamente, e chiedendovi incessantemente: chi è mai, costui?

Nei casi peggiori egli vi offrirà da bere, continuando a dimostrare di conoscere di voi quello che nemmeno voi stessi ricordate. E non siete in grado di contraccambiare, cercate con vuote domande di carpire qualcosa sul suo stato civile, cercando di evitare figuracce su orribili tragedie che possono essergli accadute senza che in voi rimanesse traccia.

E’ molto difficile, in questi casi, che alla fine scopriate che era un amico di vostro nonno defunto che conduceva una doppia vita da agente del kgb e che al mondo aveva un solo amico a cui raccontava di voi ogni cosa. Nella maggior parte dei casi, rassegnatevi, è una questione di memoria.

Un amico assillato da tale problema ha trovato una soluzione: non uscire mai di casa senza una petizione. Ma non una qualsiasi, deve avere determinate caratteristiche, per funzionare ad ogni evenienza.
- deve essere generica, assolutamente priva di implicazioni politiche che diano ad una persona la possibilità di dire: non sono mica d’accordo. Ricordate che questo metodo nasce per ottenere un solo risultato, non per prendere due piccioni con una fava trovandosi pieni di firme per un referendum sulle leggi salvaBerlusca. Benissimo i salvataggi di specie in estinzione, possibilmente equatoriali o polari, così si riduce il rischio di trovarsi davanti a un appassionato bracconiere.
- Deve contenere uno spazio per la firma, ma anche uno per il nome esteso, per evitare poi di trovarsi davanti ad uno sgorbio illeggibile bofonchiando: Allora, come stai, carissimo Fllrri? Belli? Effrri?
- Non deve prevedere spazio per la data di nascita, altrimenti ci si gioca tutte le donne attempate. Non mi pare il massimo incontrarsi dopo anni e chiedere subito l’età.

Con questi presupposti, non si deve far altro che stringere amichevolmente quella mano estranea, interrompere sorridendo ogni smanceria mostrandosi coinvolti nel profondo nella propria causa: Carissimo, approfitto di te un secondo per salvare le innocenti foche, ecco, firma qui, scrivi qui il tuo nome…la foca ringrazia, e ora, dove eravamo? Caro Gualtiero, ma come va? Parlami di te!