C'è un modo di essere che mi attira infinitamente, da sempre. O meglio, non che sia una qualità sufficiente da sola a riparare ogni mancanza in altri settori, ma ho sempre ritenuto costituisse una marcia in più: la ritrosia. La totale mancanza di sopravvalutazione di sé, che, unita a una spiccata intelligenza, porta a una visione lucida, priva di sovrastrutture inutili, delle cose del mondo.
Alla Troisi, per capirci. Che accarezzava la realtà, non volendo danneggiare niente di quello che sulla terra valga la pena di esistere, ma abbattendo muri di stupidità con fare casuale.
E un altro di questi è Zerocalcare, che sabato è stato premiato dalla giuria del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani per il suo " No sleep till Shengal", dalle mani di Angela Staude Terzani. Nel consegnargli il riconoscimento, la signora Terzani ha raccontato del sogno del marito, che immaginava un'isola fatta di poeti che avrebbero vegliato e mantenuto vivi i veri valori e lo ha paragonato a uno di quei poeti. Zerocalcare era paonazzo, e a momenti viola, per la costante sensazione di inadeguatezza che lo permea, tanto più davanti a riconoscimenti rilevanti come questo e supplicava il presentatore con gli occhi affinché mettesse fine ai commossi applausi del pubblico, in una costante incredulità che una platea sempre più vasta lo consideri uno dei propri riferimenti intellettuali. Quando Marino Sinibaldi gli ha chiesto "Ma perché tu passi ogni volta, a ogni incontro con il pubblico, innumerevoli ore a fare disegnetti su misura per la gente?" ha risposto pressappoco: "P'espià. Io ho molti amici più svegli de me, e quando mi dicono che me devono intervistà su un argomento io vado da loro, che lavorano ar supermercato, a 'mpilà cose sugli scaffali, e gli chiedo che je devo dì, in questa intervista. Ma nessuno di questi amici miei sarà mai intervistato. E il fatto che qua ci sono io, in mezzo agli allori, fa sì che allora devo fa' capire alla gente che anche io vivo de merda, a fà disegnetti per tredici ore".
Però quando gli hanno chiesto di parlare del popolo degli Ezidi, comunità isolata nel nord dell'Iraq, che ha subito un genocidio nel 2014, poi stupri, rapimenti e che ora tenta, in un pugno di superstiti, di costruire il confederalismo democratico sulle orme dei curdi, ostacolato da ogni parte, da ogni governo che lo circonda, che attacca in modo subdolo e violento, lì non c'era più spazio per la ritrosia, per l'ironia mite e nichilista di quando parlano della sua persona. Ha sottolineato quanto sia strano, che un popolo che vive costantemente pressato dalla violenza, dalla paura e dagli scarsissimi approvvigionamenti, tenti pervicacemente di creare qualcosa di bello, importante, diverso, per essere protagonista del proprio vivere nel mondo. Invece noi, senza reali pericoli imminenti (se non quello provocato dai nostri stessi comportamenti, n.d.r.), senza alcun problema di ricevere quanto è necessario (e superfluo) per la quotidianità, passiamo il tempo a creare esclusivamente strutture indirizzate alla sopravvivenza, alla sicurezza, all'isolamento e alla difesa, spaventati da ogni cosa, da una Terra che si disegna perpetuamente in forma di minaccia.
Gli ezidi, e altri popoli come loro, immaginano un futuro costruttivo attraverso bombe, crolli e strade desolate. Noi, pieni di tecnologiche infrastrutture, di tempo e di comodità, non sappiamo andare oltre al fallimento dell'illusione moderna dell'uomo che piega tutto al suo volere e siamo paralizzati in un clima di desolata auto protezione, priva di qualsiasi visione.
"Ma figurati. So' scemo sì, ma morigerato. Io non so' coraggioso. Manco troppo svejo. Zero intuitivo. Sensibile bleaahschifo. Però ho imparato a fa' una cosa nella vita. Una sola. A scegliermi bene le persone che voglio vicino a me. Più coraggiose, sveje, intuitive e sensibili di me. Che sanno come costringermi a stare nei posti in cui bisogna stare. E in cui anche uno come me può portare il suo mattoncino".
Nessun commento:
Posta un commento