Quando una si ammala per la quarta volta in nove mesi, con quintali di catarro che ingorgano le meningi, le letture (tra l’altro piuttosto impegnative, mai che mi ammali durante un Camilleri) diventano ostiche e rallentate, in uno stato di perenne hangover da echinacea e non resta che dedicarsi a serie americane e immortali filmetti sulle varie piattaforme. Quando una poi si dedica con fervore a molte serie, perché anche se la lettura è ostacolata, il tempo quello rimane, e tra l’altro il giacere orizzontale ne cambia la percezione, quella, dicevo, inizia a trovare punti comuni, che collegano alcuni comportamenti, indipendentemente dalla narrazione. E fanno pensare che, se un atteggiamento si ripete in decine di film e puntate, si possa supporre che sia qualcosa di assodato nella quotidianità di un popolo. Per esempio:
Perché gli americani mettono sempre i piedi sui letti e sui divani indossando le scarpe? Non posso credere che a New York le strade vengano pulite con tale frequenza e intensità da risultare al pari delle piastrelle casalinghe. Già fatico a credere che le stesse camere da letto, coperte spesso di moquette, siano in grado di superare un controllo dei NAS, quindi figuriamoci il ciottolato barbaro di Union Street. Eppure lo fanno sempre, pervicacemente, senza che nessuno abbia nulla da dire e senza (apparentemente) strisce marroni sulle trapunte. Poi magari si girano sul letto sospirando d’amori perduti, mettendo la faccia proprio lì, dove è ancora calda la traccia del chewing-gum calpestato un’ora prima.
Perché quando gli americani si lavano i denti spazzolano correttamente con vigore, ma poi sputano resti di dentifricio, semi di Chia e tartaro e mettono lo spazzolino nel suo bicchiere, senza nemmeno un sorso d’acqua per il risciacquo definitivo o risciacquare l’attrezzo stesso? Un po’ mi ricorda il mio Erasmus germanico, e la pervicacia con cui i tedeschi insaponavano le stoviglie per poi depositarle nell’asciugapiatti coperte di morbida schiuma; effettivamente gli stessi detersivi riportavano la dicitura “senza risciacquo” e davanti ai nostri italici volti esterrefatti, gli autoctoni commentavano: “mi fido dell’industria chimica tedesca” e noi sorvolavamo educatamente su una troppo facile amara ironia.
Ultima considerazione: perché? Questa folle, insensata, esiziale mania degli americani per la verità. Che poi è quanto di più ipocrita esista: siamo abituati a bugie di ogni tipo sugli equilibri del mondo, da “Giuro che ha le armi nucleari, me l’ha detto mio cuggino” a “La mia stagista lavora sotto la scrivania perché teme i raggi UVA”; senza scomodare i massimi sistemi, nella quotidianità che vediamo in TV i protagonisti ne combinano di ogni; poi, però, sentono l’impulso di spifferare tutto a ogni costo, possibilmente senza alcun risultato pratico che incasinare tutto ancora di più, facendo soffrire inutilmente quanta più gente possibile. “Devo dire alla nonna che quella volta le ho rubato mezzo dollaro” “Ma Bryan, la nonna sta morendo…” “Vuoi che mi perda questo momento? Non sarei un vero americano”.
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