Questo libro mi chiamava da anni dai mucchi di tascabili
alla gloriosa Feltrinelli in cui trascorrevo buona parte del tempo regalato di
quando ero studentessa. Ogni volta me lo rigiravo tra le dita, ne leggevo la
quarta di copertina, sospiravo. Qualche volta finiva sul mucchio di tomi che
reggevo sotto le ascelle come un francese la baguette, e poi, prima della
cassa, tornava al suo posto. Perché nella maggior parte dei casi, quando ho
letto libri non consigliati o recensiti da persone di mia fiducia, ma basandomi
su titolo, sulla copertina o su non so quale sortilegio della carta, ne sono
rimasta delusa. Era diventato il simbolo del libro che potrebbe deludere, senza
che io, né lui, immagino, lo desiderassimo.
E poi l’ho visto tra i cinquanta libri scelti da Baricco
nei suoi articoli della domenica sulla Repubblica.
Badate: non ho letto la recensione prima di prendere il
libro, ho solo accettato il consiglio come quello di un amico che si incontra
per caso aspettando l’autobus, e, mentre sta salendo, dice: dimenticavo, ho
letto Il medico di Corte, te lo consiglio! Insomma, mi è bastato l’autorevole
via libera al mio desiderio. Solo oggi ho letto cosa Baricco ne dicesse.
E adesso? Immagino che, circolando in rete la sua recensione,
la mia diventi un inutile orpello. Quindi mi faccio anch’io promotrice della
sua capacità di impastare le parole, dandogli umile ospitata.
"Accadde tutto realmente, nel
piccolo regno di Danimarca, nella seconda metà del Settecento. C’era questo re,
Cristiano VII, che con ogni evidenza era poco più di un ragazzo demente,
inadatto a svolgere con la necessaria linearità le più semplici funzioni della
sovranità. Cercarono un medico, allora, per provare a limitare i danni con una
qualche cura. Trovarono un tedesco: si chiamava Friedrich Struensee. Era
brillante, abile e cresciuto nel verbo dell’Illuminismo. Prese per mano il re,
convinto che pazzia fosse un nome troppo riassuntivo per definire quello che
poteva succedere nel cervello di un uomo, e sicuramente di quell’uomo. Lo
riportò a galleggiare passabilmente sulla superficie delle cose e si guadagnò
la sua più completa fiducia. Non ci mise molto a diventare l’amante della
regina, la persona più influente del regno e l’uomo che impresse alla Danimarca
la più fulminea e incredibile delle rivoluzioni illuministe che la storia
ricordi. Morì, decapitato, un paio di anni dopo, giudicato colpevole di Lesa
Maestà.
Fin qui i fatti. Bisogna poi
saperli raccontare, se quello che vuoi farne è un romanzo.
Per Olov Enquist è un narratore
squisito, e in quel particolare artigianato (distillare dalla Storia delle
storie) è, per quel che ne capisco io, uno dei migliori. Ha oggi 77 anni, è
noto per il suo impegno politico, è svedese. Non ci sarebbe da stupirsi se ce
lo ritrovassimo premio Nobel, prima o poi. Ma a parte questo: scrive limpido,
con architetture nitide e mai banali, una misura incantevole e dei cambi di
velocità da ragazzino. Di rado forza le cose, e spesso sembra giusto
accompagnarle, come pochi scrittori sanno fare. Ha un timbro di voce di cui non
ho mai veramente scoperto il segreto: credo che parta da una specie di
freddezza da referto medico e poi la scaldi al fuoco lento della sua personale
meraviglia. Il risultato è strano: è come sentire un notaio che legge un
testamento, ma il testamento è il suo, e allora la voce è più calda, e ogni
parola piena di cose, e il tutto così irripetibile – ordinato ma irripetibile.
Una cosa, in particolare, gli devo riconoscere, con invidia: ha un modo sconcertante
di prenderti, ovunque tu sia, e di posarti in mezzo alle storie che racconta:
lo sanno fare in molti, ma lui lo fa con un gesto mite, da artigiano modesto,
che ti prende di sorpresa. Ti ritrovi lì in mezzo, ma maledettamente in mezzo,
e neanche ti accorgi che qualcuno ti aveva preso in mano e ti aveva posato
su quella scacchiera di cui nulla sapevi. Lasci che lui giochi, allora, ed è,
per lo più, un piacere".
Il medico di corte è probabilmente
il libro che gli è meglio riuscito, ma non è solo per questo che l’ho amato
così tanto da parlarne oggi. L’ho amato anche perché custodisce una fantastica
lezione sull’Illuminismo (e dunque, se posso avanzare un consiglio accessorio,
un’ideale integrazione alla lettura del libro di Berlin sul Romanticismo). Forse
non avevo mai capito veramente la forza utopica e la follia visionaria delle
idee illuministe fino a quando Enquist non mi ha raccontato la fulminea
rivoluzione danese di Struensee: fino a quando lui non mi ha fatto vedere da
così vicino la realtà di un paese rivoltato come un calzino, in pochi
mesi, sotto la scossa elettrica di folli ideali di libertà, di razionalità, di
naturalità. Uno spettacolo sublime e grottesco. Una specie di Sessantotto in
porcellana. Non si ha idea di come d’improvviso, centinaia di pagine lette e
capite, mi siano tornate addosso, vive però, adesso, e perfino un po’ roventi.
Una lezione, dico.
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