Ebbene: è assodato che faccio un lavoro che non mi piace da qualsiasi lato lo guardi; che non ha niente a che fare coi miei studi, nemmeno lo stipendio; sotto un grande kapo che potrei raccomandare a qualcuno solo per odio infinito, e tanti kapetti leccaculo che distruggono i nostri tentativi di portare avanti la premiata ditta.
I lati positivi sono:
- il lavoro. Pare che sia merce rara, e dunque zitta e mucci.
- La porta del mio ufficio: ha una vetrata smerigliata che mi permette di scrutare le ombre dei passaggi, e il blazer nero che si avvicina pericolosamente alla maniglia; inoltre si chiude.
Il delirio supremo è quando il Marchese decide di portarmi con sé nelle sue strane peregrinazioni. Non so cosa lo spinga, e raramente lo scopro nel corso dell’esperienza. Non mi rende mai edotta dei termini della questione, con esilaranti effetti quando sono chiamata a stenderne un verbale senza conoscere nemmeno i partecipanti, e poi, curiosamente, pretende che io alimenti le mie conoscenze su materie che non mi vengono nemmeno illustrate. Provando sentimenti di grande delusione al momento di valutare la mia perspicacia.
La scena si sviluppa solitamente in questo modo: il Marchese, altri kapi di maggiore o minore importanza, i quadri, e io. Quando siamo per strada o nei corridoi mi sento come una bambina trascinata in giro da zii distratti, che parlano di cose da grandi guardandosi complici nell’utilizzare metafore di parole sporche, per non arrivare alle orecchie della piccola.
Quando siamo seduti in riunione mi sento invece il corpulento scagnozzo del boss mafioso, che siede leggermente discosto dal gruppo, con lo sguardo spento di chi è lì in virtù dello scarso comprendonio e dell’abilità con la mitraglietta. Ad un cenno della mano, mi alzo, mi libero della mitraglietta e torno bambina, a trotterellare dietro al gruppo di eletti fino in ufficio, sperando di arrivare in tempo per i cartoni animati.
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