Sempre più spesso
assistiamo all’estrinsecarsi dell’entusiasmante convinzione di
gruppi di persone, che sentono un irrefrenabile bisogno di spogliarsi
per porre in evidenza qualche ingiustizia, scatenare qualche
protesta, insomma, far valere la propria volontà di partecipazione.
Dunque abbiamo
cortei nudisti contro le pellicce (e qui ci starebbe anche una
spiegazione metaforico-simbolica,: mi riduco come riducete l’amico
ermellino), ma anche per fermare le corride, per protestare contro le
ruspe, per la chiusura di un giornale o di una fabbrica, contro
l’aborto selettivo o le frodi informatiche.
Per raccogliere fondi, poi, niente di meglio di un calendario Pirelli de noantri, come fosse necessario estrarre la vocazione alla donazione di ogni buon cittadino attraverso il suo voyeurismo.
Per raccogliere fondi, poi, niente di meglio di un calendario Pirelli de noantri, come fosse necessario estrarre la vocazione alla donazione di ogni buon cittadino attraverso il suo voyeurismo.
Ammetto che atti
come questo possano suscitare una certa attenzione la prima volta -
oddio, forse di più agli inizi del Novecento, quando le prime donne
in pantaloni affrontavano coraggiosamente i lazzi e gli improperi dei
padri di famiglia – proprio perché le telecamere cercano la
novità, e collegarla alla trasmissione di un messaggio può essere
una buona idea.
Ma ora rischia di
diventare una ridicola abitudine, una di quelle di cui ci si
dimentica le radici, mantenendola come inevitabile regola. Immagino
un sobrio incontro sindacale in una fabbrica in cui, in aria di cassa
integrazione, tutti si spogliano come atto formale prima di discutere
sul da farsi. O una manifestazione sulla dignità delle donne
rimandata alla primavera per l’impossibilità di denudarsi
d’inverno.
O forse hanno
ragione loro: forse l’esibizionismo non c’entra niente, e
l’umanità, indipendentemente dai messaggi che intende veicolare,
continuerà a alzare gli occhi solo parlando di cosce, e riderà
sempre solo di cacca e pipì.
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