Correva l'anno 1989, e, adolescente, sguazzavo tra le onde di lidi laziali, mentre mia madre, con sguardo perennemente appassionato, non alzava gli occhi dal romanzo, godendosi ogni riga e tutta la mia invidia. È sempre stato un ricordo importante nella sua serenità, e per anni mi ha lasciato in bocca la voglia di leggerlo, nonostante un certo timore reverenziale.
Mio padre, interrogato su cosa ne pensasse, ha detto: ho saltato tutti i dialoghi, l'ho letto molto rapidamente!
Resta da capire che cosa abbia letto, dunque, visto che, tolti i dialoghi, restano sì e no un paio di righe.
Ora l'ho fatto, ci ho provato, con le migliori intenzioni, protesa a coglierne ogni significato, ogni sfumatura.
Non posso più ignorare i sintomi, il mio temporeggiare davanti alla televisione per non andare a letto, l'evitare di pensare ai libri che mi aspettano per un fastidioso senso di colpa...ora abdico.
Zauberberg, hai vinto, o hai perso, a seconda dei punti di vista: a pagina 78 del secondo volume mi sono fermata, per correre alle ultime pagine, solo per scoprire, notizia pur poco rilevante nell'economia del romanzo, quanto Giovanni Castorp rimarrà lassù nel sanatorio (e non lo dico, troppa la fatica fatta per saperlo), e poi ho rinunciato alla montagna incantata, come sempre con un senso di sconfitta misto a sollievo. Spero di ricondurre presto il romanzo alla memoria dei lidi laziali, e della gioia di mia madre.
mercoledì 30 gennaio 2013
martedì 29 gennaio 2013
Ida y vuelta
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Sono
tornata nella città in cui ho vissuto prima di trasferirmi a famiglia avvenuta
nei lidi natii. Ci sono tornata da sola, in treno, come quando la mia
quotidianità era costellata di quei viaggi tra casa e università.
Ne
sentivo un bisogno impellente, in questo periodo in cui, forse perché vicina a
cambiare decennio, non faccio che interrogarmi sul tempo che fugge, su quanti
attimi ho saputo cogliere veramente, non
faccio che contare quanti anni avevo quando è accaduta ogni cosa, quanti ne
avrò quando Babi ne avrà venti. Un bisogno che identificavo semplicemente con
il voler rivedere tanti amici lontani, con i quali i rapporti sono mantenuti
periodicamente grazie all’invenzione chiave della (mia) umanità: l’e-mail, ma
mancavano da tempo di sguardi, abbracci e del suono delle risate.
Ho
corso tra un affetto e l’altro, tutto il giorno, escluse le tre leggerissime
ore di treno mattutine passate a leggere un libro scorrevole con cui ho tradito
la fatica che sto facendo con Thomas Mann, e le tre nutrienti ore del ritorno,
con il buio fuori dai finestrini, in cui, per la prima volta da quando mi
ricordo di vivere, non ho sentito la necessità assoluta di avere un libro tra
le mani; mi serviva pensare, ricordare, riflettere e immaginare, come se avessi
fatto improvvisamente pace con me stessa, e avessi finalmente voglia di starmi
a sentire.
E
allora ho capito: ho capito che questo mio bisogno impellente di andare laggiù
nascondeva qualcosa di più di un semplice saluto, qualcosa di collegato a
questo mio continuo pensare al tempo e a ciò che ho fatto o mancato. Volevo,
anche inconsciamente, toccare un pezzo importante delle mie radici, di quello
che sono, e collegarlo con quello che ero. Avevo bisogno di sapere che avevo
fatto qualcosa di importante per la mia vita, in quegli anni che sembrano
scivolati in uno stato onirico, insieme alla capacità di districarmi nel
traffico, di ricordarmi le vie, tutte quelle cose insomma che sono prova che in
una città si è vissuto.
Sono
stata accolta con talmente tanto affetto che ho fatto il bagno nella
gratitudine e nella nostalgia, ma ho capito che è stato anche mio il merito di
aver costruito, o seminato amore: scoperta
sempre felice, ma particolarmente in momenti della vita in cui ci si interroga incessantemente
sul valore del tempo che non torna più.
Genitori quasi perfetti
Piscina.
Spogliatoio
Bambino:
- Mamma, io e Clara siamo i più bassi della classe, così abbiamo fatto
amicizia. Siamo i più piccolini, in attesa di crescere.
Madre:
- Beh, tu sei un maschio, dovresti essere più alto.
Figlio:
- ma non è colpa mia, io vorrei crescere. Ma c’è chi lo fa prima e chi lo fa
dopo, vero, mamma?
Madre:
- sbrigati a spogliarti.
Figlio
(spogliandosi): - Io credo che prima o poi crescerò, anche più di Clara, forse…
Madre:
- guarda che l’anno prossimo avrai otto anni, e io non potrò più entrare qui a
aiutarti, devi muoverti e fare da solo!!
Ecco.
Brevi attimi in cui ci si sente una madre perfetta.
sabato 26 gennaio 2013
Barbamondo
venerdì 25 gennaio 2013
L'eterno duello tra le corde
- che il piano viene accordato a 442 hz invece che a 440, a volte anche sopra, nella consapevolezza dell'inevitabile ammorbidirsi delle corde, in un'ottica di entropia universale, e che dunque al diapason non resta che diventare un curioso ammenicolo su cui avvolgere i capelli.
- che la vera difficoltà sta nel togliere togliere togliere note, tanto che il nostro pianista viene continuamente spronato a suonare più note alte, ma non nel senso del lato destro della tastiera, bensì nel senso di sollevare le mani dalla stessa, e che il giorno in cui ha suonato con quattro dita per il dimezzamento del pollice dovuto ad un furioso combattimento con l'attrezzo per tagliare i finocchi a velo aveva una marcia in più.
- che nello swing i quarti importanti sono il due e il quattro, mentre nella bossanova l'uno e il tre
- che quando mando in mona la mia dignità e mi misuro con lo scat alla Ella Fitzgerald, tocco vette altissime nel mondo dell'imitazione dei volatili da cortile, nel momento in cui si decide di farne il pranzo di Natale.
- che il rapporto tra pianisti e chitarristi è assai duro, tanto più in un laboratorio organizzato da un pianista per pianisti E altri musicisti. Ne ho più volte avuto la netta percezione, ma l'altra sera a prove la certezza assoluta.
NEF: però, questa canzone senza piano rende maggiormente l'atmosfera.
M (Chitarrista): Ma guarda...io penso..che il piano è uno strumento destinato a morire.
Libri
Libertà di Johnatan Franzen. Le sue Correzioni, lo ammetto, mi avevano annoiata, in un periodo in cui pareva non si potesse fare a meno di leggerle senza perdere qualcosa di importante. Ma poi ho ceduto all'amica D, con cui scambio sempre consigli di lettura ben mirati, e lei si è dedicata a Middlesex, io a Libertà. E mi è piaciuto da morire, con solo qualche dubbio fumoso sull'eccessiva lunghezza, sul fatto che il livello alto non è proprio mantenuto stabilmente per tutto il corposo romanzo.
Una barca nel bosco di Paola Mastrocola. Per quanto provi a pensarci, non ricordo un libro più deprimente di questo. E' un'istigazione al suicidio. Non riesco a trovare altre parole, pur comprendendo che questa non si possa certo definire recensione sulla cui base chicchessia possa farsi un idea.
silenzi
perchè la vita è dura in generale
perchè le adenoidi e le tonsille di Babi con ripercussioni traumatiche inquietanti a seguito dell'anestesia non sono una passeggiata
perchè l'esperienza di cantare dopo anni di silenzio è un'emozione meravigliosa e devastante, tanto più con un gruppo intorno, e accade pure di piacere a chi ascolta, e all'improvviso di scoprire che la paura non supera più la gioia di esibirsi, e rallegrarsene e poi pensare che allora si è sprecata una vita
perchè questo orrendo lavoro continua a scandire i miei giorni spingendomi alla rivolta, e poi a vergognarmene, in un'epoca in cui dovrei baciare la scrivania su cui poggiano annoiati i miei gomiti, visto che mi impedisce di provare cosa sia l'indigenza
perchè dimagrire fino a dimezzarsi lusinga, ma è tanto impegnativo e costringe a trovare da capo una collocazione nel mondo
perchè l'abitudine misteriosa che il mio corpo ha preso in quest'ultima estate, di lasciarmi dormire non più di quattro ore per notte, per poi costringermi a fissare il buio perfettamente sveglia e lucida, soffocata dai pensieri, non è quanto di più rigenerante esista in natura
ho scoperto che da qualche parte dovevo tagliare: tra lettura e scrittura non si può che tagliare l'imperfetta conseguenza di una nobile causa: ho tagliato la scrittura.
E ora, nello scrivere questi quattro pensieri, scopro che non è stato indolore come pensavo. Che ho sottovalutato il lato terapeutico dell'impegnarsi nel trovare qualcosa da raccontare, pur leggero, pur lontano dalle onde emotive che mi hanno attraversata in questi mesi.
Mi sembrava di non avere più parole, o meglio, di usarle per trasformarle nel mio modo di cantare, e mi ci sono in parte rassegnata, ma il pensiero del blog, di questa creatura che diventava sempre più vuota, fredda e lontana dall'attuale me, che non era più in grado di descrivermi, di descrivere le mie notti a fissare il buio, mi faceva male. Quindi, nell'ottica tutta animale di perseguire il piacere, ci riprovo. Intanto, almeno, a lasciare traccia delle mie letture, atto che spero rallegri la mia vecchiaia.
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