Che dire di
“il testamento” di Grisham? Estremamente piacevole, e foriero di leggiadri
insegnamenti su immani estensioni paludose brasiliane chiamate Pantanal. Si
potrebbe vivere senza? Sì. Ma è piacevole la voglia di restare soli col proprio
libro, come ascoltando una storia d’inverno intorno al fuoco, e faticare a
staccarsene. E’ una delle sensazioni per cui vale la pena di vivere.
E poi è venuto
Il giorno in più di Fabio Volo.
Quell’uomo mi
ha sempre ispirato simpatia, per quel poco che l’abbia potuto seguire, lo trovo
un attore dignitoso e un uomo di spettacolo spiritoso; mi incuriosiva come
scrittore, con anche quel po’ d’invidia per chi tenta e riesce, pare, in tutto.
La storia non
è male, ossia, alla fine è scontata, ma riesce a mantenere intatta la curiosità
sul destino di questo amore, e quando un finale è scontato solo all’ultima
pagina, il lavoro, per me, è riuscito. Quello che non mi ha proprio convinta è
il bisogno dell’autore di spiegare come la pensi su ogni cosa e in ogni momento, non facendo emergere il
punto di vista dalla narrazione, ma spingendo la narrazione a creare luoghi di
sentenze su ogni minimo aspetto della vita. Un po’ come Platone, che radunava
discepoli ai piedi di Socrate, e tutti attenti a ascoltare, senza distrarsi con
le proprie quotidiane vicende; ma - è scontato - senza la parvenza (e neanche
la volontà) di costruire un’opera di pari spessore intellettuale. Se vuoi e sai
d’esser leggero, lascia scivolare i fatti, Volo, non ingombrarli di principi.
Infine mi sono
dedicata a Amy Chua, Il ruggito della mamma tigre, ovvero l’opposto perfetto ai
libri di pedagogia che sono sempre stati la mia bibbia, dalla nascita di Babi.
E l’ho letto in un momento in cui la famiglia Rumoretti sta prendendo le misure
da zero con un piccolo adolescente di tre anni, che ha iniziato a chiarire con
parole taglienti e fatti conclusivi chi, a suo parere, sia al comando del trio;
non nascondo dunque che in qualche tratto la lettura abbia suscitato in me un
qualche accenno di piacere sadico.
Il libro individua
tre differenze principali di forma mentis tra i genitori orientali e
occidentali:
la mamma
cinese non si impone alcuna preoccupazione circa l’alimentare e il mantenere
l’autostima dei figli, che non vede assolutamente come fragili; crede
profondamente che i suoi figli siano in debito con i genitori, e debbano
trascorrere la vita cercando di ripagarne con devozione i sacrifici; ritiene di
sapere esattamente cosa sia meglio per i figli, assoggettandoli così senza
alcuna remora alle proprie volontà e calpestandone i desideri.
Al fine di
promuoverne la crescita intellettuale e il primato lavorativo, la madre cinese
sottopone i figli ad ininterrotto studio, scolastico e musicale, non ammettendo
alcun voto inferiore al massimo, e negando ogni svago; riducendo insomma la
vita di bambini e adolescenti a qualcosa che per noi è impossibile anche solo
immaginare.
In realtà,
ulteriore prova di come sia sempre meglio assaggiare che sentir descrivere, dal
libro non emerge una donna folle, rigida quanto sicura del proprio metodo, ovvero
quella che è stata descritta in diversi dibattiti televisivi eretti sul niente
in questi mesi a seguito dell’uscita del libro: questa donna, che vive di
persona, prima da figlia e poi da madre, tutti i contraccolpi di uno scontro di
culture, si chiede ripetutamente se il suo metodo sia in effetti superiore, se
porti a risultati obiettivamente e complessivamente migliori del permissivismo
occidentale, guardando onestamente ai propri fallimenti, cambiando in diversi
casi opinione e riflettendo sui limiti della propria severità.
Fondamentalmente,
conclude, nessuno dei due metodi educativi costituisce garanzia di felicità.
Sicuramente i
risultati raggiunti da figli allevati in quel modo, estremamente faticoso anche
per la madre stessa, soprattutto tra le famiglie di immigrati in cui a giocare
contro è la società in blocco, sono stupefacenti: ma leggendo mi veniva in
mente quella utile metafora, che descrive la storia del mondo come un libro di
non so quante pagine, e la storia dell’umanità come l’ultima riga di quel
libro. Poiché la storia di ognuno di noi è una macchia d’inchiostro
infinitesimale che compone l’ultima lettera, che senso ha occuparsi
esclusivamente del proprio successo, dell’eccellenza, quando già metà della
vita trascorre dormendo, e una buona parte a difendersi da inutili desideri di
acquisti compulsivi? Senza quella minima capacità che ci resta di goderci le
nostre giornate, meglio estinguersi.
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