In riva al
mare, Babi sembra concedermi un secondo, preso in non so quale tentativo di
abbracciare l’intera fauna marina, quando, crogiolandomi con un orecchio sempre
pronto a constatare la fine del paradiso, vengo profondamente urtata da una
visione spaventosa: un barcone turistico così stipato di gente da farli
apparire a mazzi, trattenuti a fatica dalle ringhiere, con una musica così alta
e così stupida da oscurare l’orizzonte, perché si sa, l’idiozia può far male.
Il natante ci
mette troppo, a sparire dalla mia vista dopo aver attraversato la baia da un
capo all’altro, ci mette esattamente tutto il tempo che mi rimaneva prima di
tornare madre tuttofare (“mammaa, ma cos’era?”). E osa ripassare e ripassare,
più volte nella giornata, con persone, mi auguro per loro, sempre diverse e sempre
incredibilmente contente di agitarsi come pesci nelle reti.
L’amarezza fa
riflettere: e se degli scafisti congegnassero questo piano per portare
poveracci da una riva all’altra del Mediterraneo?
Se, dopo aver
raggranellato qualche migliaio di dollari indebitando l’intero parentado, e
attraversato deserti infiniti ammucchiati nel bagagliaio, frontiere crudeli
appesi sotto a un camion, controllori corrotti, fame e freddo, i migranti si
trovassero ad essere ammucchiati su una nave a forma di terrazza, fustigati da
musica dance a tutto volume, e fossero anche costretti a raccogliere le forze
per fingere frizzante allegria, in modo da passare le frontiere inosservati, e
si trovassero di notte, abbandonati sulla riva di un mare europeo, vestiti come
cubisti e storditi dall’esperienza inspiegabile? Forse, usare la stupidità come
deterrente all’immigrazione sarebbe vincente: quel che è troppo è troppo.
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