Torno ora da una settimana di –iti (tonsillite, tracheite, otite, cistite, stomatite) che, pur nella sensazione del più totale anacronismo che regala la febbre d’estate, che nemmeno ad andare in giro in torpedone, ha enormemente favorito la mia vita intellettuale, regalandomi il tempo di ritagliarmi borse da mare con le foto dei miei scrittori (una borsa di plastica con tante taschine munite di figurette di bellezze anni’50 soppiantate da Forster, Lessing, Kipling e altre decine, tra cui Joyce che si è meritato di comparire straziato, il mento in alto a destra e la fronte in basso al centro), e di leggere diversi libri.
La via del tabacco
Ho finito da qualche tempo questo libro pazzesco, in cui il degrado, la fame e la mancanza di futuro rendono una famiglia completamente priva di ogni componente umana, del senso della famiglia, della protezione, dei legami amicali, scaraventandoli nelle loro giornate a spremere calpestandosi a vicenda qualsiasi cosa possano ottenerne, da una rapa cruda all’ebbrezza di un giro in macchina in città, lasciando cadaveri specchio di sé stessi sul selciato. Un libro ben scritto, durissimo, angosciante quanto basta a capire quale orrore noi tutti celiamo dietro certe nostre porte, senza sapere con certezza quanto poco basti a spalancarle.
Il doppiaggio nel cinema italiano di Massimo Giraldi, Enrico Lancia, Fabio Melelli: un libro più di consultazione (ma chi è questa voce?) che di lettura vera e propria, in cui però ho trovato qualche curiosità su un argomento che, con la musica, mi interessa tantissimo (cosa darei per assistere a una seduta di doppiaggio)..
Una moglie a Parigi, di Paula McLain, regalo di compleanno. La scrittrice, dopo una lunga opera di ricerca, si è infilata nella vita di Helizabeth Hadley Richardson, prima moglie di Hamingway, testimone della sua prima giovinezza (l’ha sposato a 21 anni) e dei suoi faticosi inizi letterari, mollata una volta raggiunto il successo come altre mille mogli, per altre tre matrimoni e un suicidio, costellati di pagine di nostalgia per il periodo “giovane e povero”. Non approvo, di base, i romanzi i cui scrittori si impadroniscono delle vite di persone realmente esistite e, di solito, famose o vissute accanto a persone famose. Mi infastidisce il giochetto, mi sembra pericoloso, e sicuramente farcito di errori quanto una qualsiasi narrazione può assomigliare a una vita vera. Ma poi tutti i romanzi rubano dalle vite, e in tutte le vite possiamo trovare tasti nostri, e perché le vite di chi conosciamo per fama devono essere lasciate in pace, come se solo il protagonista ne potesse parlare? Insomma, mi ha coinvolta, e ho letto tutto d’un fiato, arrivando alla dolorosa e prevista fine di un matrimonio con lo stesso pathos che alcuni film americani riescono a trasmetterti nel lento incedere di una catastrofe naturale.
Cortesie per gli ospiti, di Ian McIwan. Strani eventi: tempo fa, accendo la TV per cinque minuti di pausa pomeridiana mentre Marito e Babi tornano dal parco, e trovo in un oscuro canale digitale un pezzettino di film con Rupert Everett, di quelli di fotografia super patinata e di atmosfera a metà tra un film erotico e un thriller morboso degli anni ’80. Ne leggo il tristo riassunto, mi soffermo a riflettere sul fatto che i riassunti della TV li devono scrivere dei mentecatti che ritengono che la suspense si fabbrichi mettendo a caso puntini di sospensione (“e lei se ne va a…”), e tutto si ferma lì. Il giorno dopo passeggio per un mercatino del libro usato, e, a soli tre euro per un Einaudi quasi nuovo, trovo Cortesie per gli ospiti, il libro da cui è tratto il film. Non potevo dargli asilo, per quanto McIwan sia un attore che devo riservare a momenti limpidi e leggeri della vita, perché è capace di pugnalarti e abbandonarti a rotolare nell’angoscia come un brutto incontro fuori dal peggior bar di Caracas. E così è stato.
E ora vengo cullata da “Il testamento” di John Grisham, tra le cui braccia svengo come una Rossella O’Hara col busto troppo stretto, ogni volta che la vera letteratura mi maltratta.
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