L’altra sera
Festa Democratica del paese, e in questa estate novembrina siamo riusciti a
ricavarci uno scorcio di tramonto e un pezzetto di prato per dedicarci ai
gnocchi fatti a mano (ottimi), alla pesca di beneficienza (pessima, mai mi era
capitato di non avere nemmeno un foglietto rosso, per una presina o una paletta
moschicida), e allo spettacolo che ci toccava.
E ci è toccata
un’eterna esibizione di una scuola di danza, in cui rigidi manici di scopa
davano luogo a contorcimenti ritmici che facevano dolere la cervicale al solo
pensiero.
Quando osservi
il walzer, ti rassegni: figlio d’Europa, ce lo siamo voluto così, la donna e
l’uomo che sembra non ballino nemmeno insieme, lei a guardare le pareti, lui
vagamente oltre la testa di lei, le braccia arrotondate a mantenere le
distanze, per non dar adito a peccaminosi inciuci. E’l’ottocento, bellezza.
Ma quando
guardi la danza del ventre, o i balli latino americani, quella è sofferenza
pura: e non parlo dei gruppetti di principianti, che ci mettono l’anima, a
dimenarsi immaginandosi nei peggiori bar dell’Havana, ma delle deleterie coppie
di pluripremiati, che ballano come ingranaggi di un compressore, sbuffando, trottando
e roteando, e applicano la postura del walzer a danze che, osservate nei paesi
d’origine, appaiono fatte di impercettibili movimenti e brevi contatti forieri
di sicure gravidanze.
Quelle coppie
mi trasmettono la stessa tristezza delle donne rifatte, che rinunciano
orgogliosamente al proprio viso in virtù di un discutibilissimo risultato
estetico; in più, vestite con quello che potrebbe essere l’abbigliamento intimo
della Regina Madre, creano un contesto talmente deprimente da stupire.
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