BUON NATALE A TUTTI
domenica 25 dicembre 2011
Rapporti con santi e supereroi in genere
- Attenzione spoiler-
I
miei nipoti ora diciottenni ancora ricordano vividamente il dolore infinito
della scoperta del grande imbroglio Babbo Natale: erano in Grecia, in un
ristorante sul mare, in un luglio afoso, e attendendo l’ordinazione hanno
chiesto ai genitori quasi per scherzo, per una definitiva conferma, se quelle
voci dei compagni sull’inesistenza del grande vecchio potessero avere un fondo
di realtà. I genitori hanno confessato. E loro, da bravi futuri ingegneri,
hanno passato in rassegna con una sorprendentemente precisa memoria
dell’infanzia tutti i Natali trascorsi, facendosi spiegare come fosse possibile
che i genitori falsi e bugiardi fossero accanto a loro nei consueti panni e
contemporaneamente impersonassero il vecchio porporavestito, e come mai
quell’altra volta Babbo è arrivato da quella direzione mentre il padre si trovava
dall’altra parte della stanza, e così via, quasi a cercare di ricondurre loro i
genitori alla realtà, sottraendoli a quella incomprensibile arroganza di
volersi fingere Santi o Supereroi.
Per
quanto mi riguarda, l’assoluta mancanza di spiritualità della mia atea famiglia
mi portava ad accettare con molta diffidenza la materializzazione di figure
ambigue che si aggirassero per casa. Se una vecchia santa cieca e asinomunita
riesce a penetrare senza alcun problema a depositare il dovuto e a ingurgitare
bicchieri di latte e manate di fieno (procurati dai genitori per attribuire realismo alla
messa in scena), chiunque potrà entrare a casa nostra, anche con intenzioni
meno nobili di quella di rallegrare la mia mattinata. Ricordo notti di puro terrore,
attenta a captare i rumori dell’infrazione. La scoperta della verità, alla
fine, deve essere stata un sollievo, che naturalmente ho rimosso.
Infine, viaggiando fino all’inizio del Novecento
a spiare la famiglia prolifica di un povero maniscalco, in cui la scoperta della
verità comportava (con una qualche logica, pur legata alla povertà) la
definitiva rinuncia al misero regalo, diamo uno sguardo a mio nonno P;
terrorizzato che quel momento arrivasse (dunque, nell’intimo, già consapevole), fu un giorno preso dal panico, e corse dalla madre tappandosi le
orecchie e gridando: Mama, mama, i vol dirme chi che l’è San Nicolo!
sabato 24 dicembre 2011
Adesso basta!
Dunque: vivo un momento di stress piuttosto significativo, che somatizza fino a ridurmi a fenomeno da baraccone per monatti, braccandomi in mille malattie, di cui, non richiesta, farò elenco meramente esemplificativo: colite, gastrite con reflusso, cistite, congiuntivite, tonsillite, tracheite, e ora, badate, pressione alta e pianto a dirotto; avevo assolutamente bisogno di leggere un libro che si chiamasse: Adesso basta. E l'ho trovato, me lo sono letto e ho concordato con tutti i principi universali colà delineati: l'autore, Simone Perotti, ha detto basta alla vita da manager affermato ma asfissiato dalle sue giornate, per ridimensionare i suoi bisogni, dunque le sue entrate, godendosi la vita in modo più consapevole, e vuole darne testimonianza a mo' di risveglio delle coscienze. Concordo con molti dei suoi ragionamenti astratti, ma, per quanto riguarda l'applicazione pratica del metodo, ho omesso di prestare attenzione ai suoi presupposti rispetto alla mia vita: lui cerca di convincermi a lasciare un lavoro per il quale ho lottato aspramente e che mi dà innumerevoli soddisfazioni, un tenore di vita lussuoso e pieno di ammenicoli costosi e inutili, i viaggi di lavoro in business class, i ristoranti alla moda settimanali. Ecco, ho rinunciato. E non è cambiato niente..
Sunti di vita

-
il tracollo di Berlusconi, troppo lento e troppo tardo,
ma comunque ristoratore, anche se, come per la tonsillite, alla prima
placchetta si teme che ritorni anche dopo 4 mesi di penicillina.
-
l’inizio dell’asilo di Babi, ovvero: il termine
dell’asilo nido e l’inizio della – neologismo -scuola dell’Infanzia, che ha
molti pregi. E’ vicina a casa. Ha maestre in gamba. E soprattutto: è pubblica,
chediolabenedica. La famiglia Debitucci si troverà improvvisamente a fare i
conti con 535 euro in più al mese, facendosene di sicuro una ragione.
-
ho ricominciato dopo anni silenziosi a cantare,
grazie ad un volantino abbandonato nell’asilo di cui sopra ed a un magnifico branco
di jazzisti coordinati da un maestro di
piano bravissimo ad ammucchiare appassionati. Grande onore, ho dato il nome ad
uno del numerosi quintetti che si compongono e scompongono trisettimanalmente
come cellule impazzite. Un po’ come il sogno che una volta, intervistato, narrò
Camilleri: precipitare proprio in mezzo al palco del teatro Bol'šoj intonando l’ultimo acuto prima dell’applauso scrosciante. Un
sogno cantato per anni sotto la doccia per realizzare il quale suonano in quattro.
Catene
La
collega N. invia sempre a una selezionata mailing list, della quale ho l’onore
di far parte per meriti misteriosi, quelle mail simil new-age spiritual buddist
che infestano la rete, con insegnamenti quali “bisognerebbe sempre usare parole
buone.... Perchè domani forse si dovranno rimangiare”, o “quando
tuo figlio appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno.... ti
ha agganciato per la vita”, o ancora “tutti vogliono vivere in cima alla
montagna.... Ma tutta la felicità e la crescita avvengono mentre la
scali”, oppure “Questa
immagine ha già fatto miracoli. Esprimi un desiderio… Noterai cambiamenti nella
tua vita oggi stesso. Puoi anche non crederci ma non conservare questa mail per
te; manda questa foto ad almeno 7 persone” e fregnacce simili.
Naturalmente la
collega trova in me un’indefesso collo di bottiglia, strenua opposizione alla
diffusione delle indispensabili massime, pur consapevole di giocarmi in
anticipo la gratuita realizzazione di ogni desiderio più intimo, ma è altro che
vorrei sottolineare.
Suppongo che N. ogni
mattina legga le succitate perle di saggezza, che stimolano all’amore
universale, alla gentilezza, alla riflessione.
E allora perché
cavolo ogni volta che si entra nel suo ufficio si rischia una morte orribile?
sabato 17 dicembre 2011
Diritto al mona
Più mi sento invasa dalla fatica e dallo stress più cerco libri che mi rendano leggera, me ne rendo conto. A volte mi sento in colpa, come quando si legge un romanzo perché è piaciuto il film da cui è stato tratto e il cervello, snob fino all’ipotalamo, dice eddai, ma è un sistema da analfabeti di ritorno..Ma non è il momento di Musil. Nemmeno dell’amato James, ho interrotto le Bostoniane. E nemmeno della sofferenza alcolica americana, o della vita di Ipazia. Ho diritto a cercare puro sollievo, o la mente si atrofizza nella semplicità? La risposta me la regala il solito Pennac – certo che difendo i miei diritti di lettore con più veemenza dei miei diritti costituzionali - e mi metto il cuore in pace.
Ultima sfilza
Ecco i libri della fine dell’estate: Maj Sjöwall e Per Wahlöö, Roseanna, uno dei gialli ripescati dagli anni ’70 e ripubblicati recentemente da Sellerio su consiglio di Camilleri, famosi per aver voluto portare sulle pagine “uno scalpello per sventrare il sedicente “welfare state” di tipo borghese, ideologico, pauperistico e moralmente discutibile”, per dirla con lo stesso Wahlöö. Ottimi intenti, che dire, ma pochi mesi dopo mi ricordo troppo poco per ritenere che mi abbia scalfita. Forse è dura deprecare la Svezia degli anni ‘60 dall’Italia di oggi.
Serena Dandini, Dai diamanti non nasce niente. Nient’altro che piacevole a tratti, e nemmeno troppo utile alle mie velleità di giardiniera. Troppo fuori dal suo mestiere, e come è giusto deprecare le vallette che si credono attrici, è giusto fare con seri professionisti della TV che si dichiarano scrittori all’improvviso.
Odore di chiuso di Marco Malvaldi. Mi ha fatto pensare che non esiste più il libro giallo; tutti, dagli osannati nordici al nostro Camilleri, hanno virato verso il genere noir. E Malvaldi decide di dedicarsi a un giallo di quelli di una volta, con un morto in un ambiente ristretto, personaggi fortemente caratterizzati, l’ospite che collabora a risolvere il mistero (che è poi l’Artusi, con tanto di ricetta finale che mi toccherà provare)…che piacere!
Odore di chiuso di Marco Malvaldi. Mi ha fatto pensare che non esiste più il libro giallo; tutti, dagli osannati nordici al nostro Camilleri, hanno virato verso il genere noir. E Malvaldi decide di dedicarsi a un giallo di quelli di una volta, con un morto in un ambiente ristretto, personaggi fortemente caratterizzati, l’ospite che collabora a risolvere il mistero (che è poi l’Artusi, con tanto di ricetta finale che mi toccherà provare)…che piacere!
James Crumley, L’ultimo vero bacio – noir immerso nella Provincia Americana, di un autore che da molti è definito, con assoluto spirito iperbolico, erede di Chandler e degli altri scrittori hard boiled d’annata. La Provincia Americana (che chiamerò PA, visto che i sentimenti sono simili a quelli che mi suscita la Pubblica Amministrazione) mi suscita spesso malessere, non so se si tratti di qualche ombra d’infanzia che imprigioni la memoria inconscia riportandola a qualche antico dolore, o se semplicemente non sia in grado di sopportare i cani alcolizzati, ma, indipendentemente dal valore dello scrittore - benché debba essere sufficientemente arguto da aver compreso e riportato su carta l’odore della PA - ho continuamente in bocca il gusto dell’altrui doposbronza, senza essermi goduta il festino che l’ha preceduta.
Marco Malvaldi, Il gioco delle tre carte. Niente da fare: Malvaldi mi piace. Mi era piaciuto il giallo vecchio stile, mi piace questo giallo ambientato in una provincia in cui alcuni tenaci vecchi riescono a fuggire alla globalizzazione della quotidianità, imprimendo alle giornate una lentezza umana – di cui avrei così bisogno.
Helene Hanff – 84, Charing cross road. Sono entrata nel club dei fans più calorosi di questo mini epistolario, una di quelle piccole meraviglie basate su un intreccio nullo ma su tutte le corde di un’anima di quelle che piacciono proprio a me. Ebbene: ne ho guardato il film qualche tempo fa, e l’ho trovato straordinario, commovente e appassionante, desiderando immensamente di possedere il libro. E ora il libercolo, delle dimensioni giuste per non farmi apparire come una che traina un secchio di pietre fuori dall’orto, mi farà compagnia in borsetta, sperando sempre che anche l’ispirazione avanzi per osmosi.
Musicofilia di Oliver Sachs, sempre interessante, un po’ troppo prolisso e ripetitivo rispetto al solito Sachs.
I peccati di Peyton Place di Grace Metalious, oscura casalinga americana, trovato a 3 euro in una bancarella di piazza della Repubblica. Primo grande bestseller internazionale, da oltre 20 milioni di copie solo negli Stati Uniti, fonte di scandali e sensazione negli anni ’50, ha ispirato film, serie, e quegli strani fenomeni che sono i film TV.
Conserva un suo fascino, direi, ha un suo intreccio più che decente, e parla di sesso come nessuno all’epoca, sottolineando le ipocrisie, i provincialismi, le meschinità che sono le vere depravazioni, poiché costringono persone all’infelicità sulla base di niente.
Una ragazza per la notte di Corrado Augias: ritorno al giallo “politico”, più tipico del nostro tempo e del nostro Paese. Scrive bene, non annoia, e angoscia quanto basta descrivendo nel 1994 quello che i Telegiornali avrebbero trovato nell’Olgettina diciassette anni dopo. Grande visionario, o è il Paese che non fa che ripetersi?
Storia della mia gente di Edoardo Nesi. Trovo altrove solo recensioni magnifiche, forse io ne ho letto, per restare in tema, la versione cinese da bancarella. A me ha dato questa sensazione: fossi un’insegnante, e dovessi correggere un tema di tal fatta, ne sarei molto soddisfatta, perché oltre a descrivere con lucidità il declino dell’industria tessile pratese, gli errori e la cecità degli industriali, dei politici, del Paese nel suo complesso, lascia intravedere l’amore per la letteratura, per il buon cinema, e sintatticamente risulta semplice e corretto. Il ragazzo si farà. E nel frattempo vince il Premio Strega.
mercoledì 14 dicembre 2011
Quarant'anni di coerenza
In ufficio c’è una collega che ha capito perfettamente il comportamento da tenere per evitare di lavorare, mantenuto con coerenza assoluta dall’assunzione alle soglie della pensione: fingere di non capire niente. E’ necessaria una seria dedizione alla causa, una faccia tosta non indifferente, la simulazione di una certa naivete, e infine la capacità di fottersene del proprio orgoglio. Questa collega, B, è così professionale che non è mai stata presa alla sprovvista, tranne che per qualche occhiata spiritosa e intelligente che talvolta si sottrae al suo controllo assoluto.
- Mi spieghi come fare questa cosa, che io proprio non ci riesco?
- Come sempre, B, come tutte le altre volte che te l’ho mostrato. Si apre questa schermata, si inserisce questa query…
- Gesùgiuseppemariaprotettoridellanimamia, cosa hai fatto, come ti è venuta fuori quella scritta??
- Col “copia e incolla”..
- Ma che roba è, non l’ho mai sentita!
- Lascia, B, me ne occupo io.
Un formidabile genio.
Camping a vita
Ebbene: ho conosciuto una donna eroica, che pur abitando un paesino lacustre (e sul Lago di Garda, che pare attrarre moltissime persone che, follia, snobbano il mare), da giugno a settembre decide responsabilmente di trasferirsi con la famiglia in un campeggio sito sulla stessa sponda del paesino lacustre. I bambini sono più felici, dice. Ma lei e il marito, ogni mattina, scendono a patti con il bagno comunitario, asciugamano in spalla e spazzolino in mano, per poi vestirsi di tutto punto (e si sa, i commerciali si vestono come wedding planners, non come me che cado nei miei jeans direttamente dal letto), truccarsi, e partire per il lavoro, fingendo ogni sera di partire per la vacanza.
martedì 13 dicembre 2011
Scorci di brandelli d'estate - Negli occhi il mare
Sto elaborando
il lutto del rientro, forse scrivere mi può aiutare, come il lettino dello
psicanalista.
Eccezionali
giorni a Sabaudia, nella casa di un caro amico che, periodicamente, disturbiamo
con richieste di prestito della magnifica villa, sempre accordate con
gentilezza, subito prima di beccare, su Repubblica TV, un reportage sulle
pesanti infiltrazioni camorristiche nella ridente cittadina.
Ci siamo
felicemente venduti al lettore di DVD per l’auto, che interpretavamo come una
debolezza negli altri genitori di figli scatenati, ma provatevi voi, 760 chilometri con
l’eterna domanda: quando arriviamo? che scatta dopo i primi 5 minuti e non
smette proprio mai.
Abbiamo
visitato lo zoo di Roma, destinazione obbligata per qualunque genitore voglia
salvarsi la vita a Ferragosto, sostenendo Babi nel momento di estrema delusione
in cui ha scoperto che gli animali non si trovano tutti insieme come nel Libro
della Giungla – modello “e la gazzella non dormirà molto bene”, e gli elefanti
tendono a non cantare in pubblico.
Babi ha
imparato a buttarsi in mare a occhi spalancati, riemergendo scompostamente ma
con uno sguardo di gioia totale; durante una esplorazione subacquea di pochi
secondi con addosso maschera e tubo, ha visto un granchio e, scegliendo se bandire
dalla sua vita mare o maschera, ha giustamente dismesso quest’ultima, in base
al concetto lontano dagli occhi lontano dal timore del cuore.
Noi abbiamo
apprezzato la spiaggia libera, muniti di lettino sfilacciato e ombrellone da
giardino (poiché di trascinare per le dune la base di cemento non se ne parlava,
si è scelto di infilarlo a forza nella sabbia contro la sua natura), scoprendo
che le strette lingue di sabbia libera tra gli stabilimenti sono laggiù
estremamente meno frequentate e più ariose degli assurdi appezzamenti in
concessione, in cui i lettini sono disposti incollati come un'unica brandina
gigante, e in cui, rincorrendo l’ombra che vaga per la giornata, peraltro
pagata a peso d’oro, si finisce distesi sul thermos del vicino.
Abbiamo
mangiato numerose mozzarelle fregandocene delle infiltrazioni casalesi nel ramo
bufala e dell’arresto di una quarantina di veterinari compiacenti, ripetendoci
il mantra “che male può fare, per 10 giorni”.
Abbiamo provato
una pizzeria nuova (quella abituale era casualmente stata messa sotto
sequestro), curiosamente annessa a una casa di riposo e allegra esattamente
come ci si aspetta la mensa della stessa, con giochi per bambini che parevano
esplosi, abbandonati lì, né rimossi, né riparati, forse per sollecitare un sano
confronto con la quotidianità dei bambini di Gaza.
Abbiamo
condiviso la casa con cari amici con figlio coetaneo di Babi, e ci siamo persi
in chiacchiere mentre i due nanerottoli litigavano aspramente, senza disdegnare
l’uso delle mani, su concetti tipo: la scala è bella, la scala è brutta,
oppure: basta! Ancora!, salvo poi cercarsi disperatamente appena uno dei due si
allontanava.
Abbiamo
imparato a mettere un Babi totalmente refrattario al sonnellino davanti a
quell’insopportabile orso ritardato Uinni dei Pù, per goderci il riposo
pomeridiano a camera spalancata alla corrente lacustre, prima di affrontare di
nuovo la spiaggia, e venir svegliati per la merenda dal suddetto Piscialletto
che aveva vegliato durante il nostro sonno.
Abbiamo letto
tanto tanto, rubando attimi sabbiosi e attimi notturni, e abbiamo
momentaneamente ripreso un normale ritmo sonno-veglia, che si è dissolto appena
è tornata ad occuparci la mente l’imminente stagione lavorativa.
Scorci d'estate / 3 La solitudine del velista
La mia
esperienza insegna che la passione per la vela sia uno di quei piaceri che
trascina invariabilmente l’uomo* in una solitudine profonda, il più delle volte
senza desiderarlo, e quasi senza rendersene conto.
Tutto inizia
con l’acquisto di una barca a vela, della più varia metratura, inizialmente
accolto dall’ignara famiglia con pari soddisfazione di tutti i membri, pregustando
il divertimento, o l’avventura, o il prestigio sociale.
Poi, la prima
spedizione. E le prime crepe. Il velista imbarca la famiglia, e partono
immediatamente i sacramenti: anche l’uomo più mite e gentile nel quotidiano, su
una barca a vela diventa un cerbero dannato, e parla una lingua incomprensibile
ai più, fatta di orza! Il carrello di scotta della randa! bolina larga! La
deriva!
Più numerosi sono
i giovani imbarcati e sottoposti a sevizie, più la moglie si illude ancora di
potersi godere la giornata. Fino a che il boma non le colpisce la nuca, e la randa
non le oscura il sole più o meno ogni dieci minuti, lasciandola in balia della
brezza polare mentre una muta di pazzi le cammina addosso per afferrare scotte,
cime, ancore all’urlo di “impediti! Siete degli impediti!”. Se figli non ce ne
sono, o non sono abbastanza, anche la signora verrà trascinata nel turbine agli
ordini di un ormai irriconoscibile maschio alfa.
Se alla vela
si unisce la passione per la pesca, il matrimonio è in serio pericolo già con
la prima gita: al termine della giornata, mentre il velista siederà al circolo,
con un gin tra le mani, a raccontare di pesci lunghi come semirette, la signora
si ritroverà con duecento cefali da pulire, o millecinquecento seppie grandi
come fragole da liberare dell’osso, perché non vi sia confusione di ruoli tra
mozzi e capitani.
Quando, dopo
un numero generalmente breve di uscite, la moglie si rifiuterà di rivivere
quell’inferno, dichiarandosi dispiaciuta di aver già accettato l’allettante offerta
di un weekend in coda sulla Salerno – Reggio Calabria, i figli ci proveranno
ancora un po’, in parte affascinati dalla doppia personalità paterna, in parte
desiderosi di guadagnarne l’approvazione, e infine, se maschi, ancora
incredibilmente convinti di accrescere il proprio sex appeal con una barca sotto
i piedi.
Ma viene il
giorno in cui la famiglia cede al completo, e al velista non resta che cercare
appassionati come lui per condividere richiami gutturali ed esperienze di mare.
Peccato che ognuno di questi appassionati abbia la propria barca, vuota, enorme
e silenziosa, e ognuno rifiuti categoricamente di riconoscere all’altro
un’autorità immeritata accettando un ruolo da secondo sullo scafo altrui.
Così, il mare
è pieno di uomini soli su barche fuori misura, la cui assenza, se cala il vento
all’improvviso immobilizzandoli in mezzo alla baia, viene notata dalla famiglia
solo verso sera, quando la tranquillità si protrae troppo per non sembrare
innaturale.
* tutto questo
può accadere anche a generi invertiti, ma nella mia esperienza, a farsi
stregare da questo baratro, sono sempre gli uomini, e, arbitrariamente,
riconosco alle donne sempre un po’ di più sale in zucca quanto alla scelta dei
loro passatempi
Scorci d'estate / 2 Siamo tutti sulla stessa barca
In riva al
mare, Babi sembra concedermi un secondo, preso in non so quale tentativo di
abbracciare l’intera fauna marina, quando, crogiolandomi con un orecchio sempre
pronto a constatare la fine del paradiso, vengo profondamente urtata da una
visione spaventosa: un barcone turistico così stipato di gente da farli
apparire a mazzi, trattenuti a fatica dalle ringhiere, con una musica così alta
e così stupida da oscurare l’orizzonte, perché si sa, l’idiozia può far male.
Il natante ci
mette troppo, a sparire dalla mia vista dopo aver attraversato la baia da un
capo all’altro, ci mette esattamente tutto il tempo che mi rimaneva prima di
tornare madre tuttofare (“mammaa, ma cos’era?”). E osa ripassare e ripassare,
più volte nella giornata, con persone, mi auguro per loro, sempre diverse e sempre
incredibilmente contente di agitarsi come pesci nelle reti.
L’amarezza fa
riflettere: e se degli scafisti congegnassero questo piano per portare
poveracci da una riva all’altra del Mediterraneo?
Se, dopo aver
raggranellato qualche migliaio di dollari indebitando l’intero parentado, e
attraversato deserti infiniti ammucchiati nel bagagliaio, frontiere crudeli
appesi sotto a un camion, controllori corrotti, fame e freddo, i migranti si
trovassero ad essere ammucchiati su una nave a forma di terrazza, fustigati da
musica dance a tutto volume, e fossero anche costretti a raccogliere le forze
per fingere frizzante allegria, in modo da passare le frontiere inosservati, e
si trovassero di notte, abbandonati sulla riva di un mare europeo, vestiti come
cubisti e storditi dall’esperienza inspiegabile? Forse, usare la stupidità come
deterrente all’immigrazione sarebbe vincente: quel che è troppo è troppo.
lunedì 12 dicembre 2011
Piccolo genio del backstage
Nei momenti in
cui ogni madre crede di allevare un piccolo genio, normalmente solo a titolo di
barbaro riscatto dei propri fallimenti, credo fermamente che Babi abbia un
futuro da musicista. Basta guardare il luccichio dei suoi occhi davanti a
qualsiasi custodia, contenga pure un mitra per il massacro di San Valentino;
basta prestare attenzione all’incredibile intonazione del pargolo che,
nebulosamente, si tende a far risalire ai primi vagiti; basta osservare
l’ipnotica pazienza con cui il bimbo, contrariamente alla sua vivacissima
natura si sistema sul bordo di un qualsiasi palcoscenico a veder predisporre
l’esibizione di una big band di jazz, con tanto di eterna prova microfoni e
consuete lungaggini da pre-concerto..
Certo che poi
è strano: quando gli strumenti sono pronti, i musicisti hanno indossato il frac,
e le luci attirano lo sguardo verso l’inizio del concerto, ecco che Babi
ritiene di aver terminato il suo compito: ecco, mamma, possiamo andare.
Scorci d'estate
L’altra sera
Festa Democratica del paese, e in questa estate novembrina siamo riusciti a
ricavarci uno scorcio di tramonto e un pezzetto di prato per dedicarci ai
gnocchi fatti a mano (ottimi), alla pesca di beneficienza (pessima, mai mi era
capitato di non avere nemmeno un foglietto rosso, per una presina o una paletta
moschicida), e allo spettacolo che ci toccava.
E ci è toccata
un’eterna esibizione di una scuola di danza, in cui rigidi manici di scopa
davano luogo a contorcimenti ritmici che facevano dolere la cervicale al solo
pensiero.
Quando osservi
il walzer, ti rassegni: figlio d’Europa, ce lo siamo voluto così, la donna e
l’uomo che sembra non ballino nemmeno insieme, lei a guardare le pareti, lui
vagamente oltre la testa di lei, le braccia arrotondate a mantenere le
distanze, per non dar adito a peccaminosi inciuci. E’l’ottocento, bellezza.
Ma quando
guardi la danza del ventre, o i balli latino americani, quella è sofferenza
pura: e non parlo dei gruppetti di principianti, che ci mettono l’anima, a
dimenarsi immaginandosi nei peggiori bar dell’Havana, ma delle deleterie coppie
di pluripremiati, che ballano come ingranaggi di un compressore, sbuffando, trottando
e roteando, e applicano la postura del walzer a danze che, osservate nei paesi
d’origine, appaiono fatte di impercettibili movimenti e brevi contatti forieri
di sicure gravidanze.
Quelle coppie
mi trasmettono la stessa tristezza delle donne rifatte, che rinunciano
orgogliosamente al proprio viso in virtù di un discutibilissimo risultato
estetico; in più, vestite con quello che potrebbe essere l’abbigliamento intimo
della Regina Madre, creano un contesto talmente deprimente da stupire.
Altri libri estivi
Che dire di
“il testamento” di Grisham? Estremamente piacevole, e foriero di leggiadri
insegnamenti su immani estensioni paludose brasiliane chiamate Pantanal. Si
potrebbe vivere senza? Sì. Ma è piacevole la voglia di restare soli col proprio
libro, come ascoltando una storia d’inverno intorno al fuoco, e faticare a
staccarsene. E’ una delle sensazioni per cui vale la pena di vivere.
E poi è venuto
Il giorno in più di Fabio Volo.
Quell’uomo mi
ha sempre ispirato simpatia, per quel poco che l’abbia potuto seguire, lo trovo
un attore dignitoso e un uomo di spettacolo spiritoso; mi incuriosiva come
scrittore, con anche quel po’ d’invidia per chi tenta e riesce, pare, in tutto.
La storia non
è male, ossia, alla fine è scontata, ma riesce a mantenere intatta la curiosità
sul destino di questo amore, e quando un finale è scontato solo all’ultima
pagina, il lavoro, per me, è riuscito. Quello che non mi ha proprio convinta è
il bisogno dell’autore di spiegare come la pensi su ogni cosa e in ogni momento, non facendo emergere il
punto di vista dalla narrazione, ma spingendo la narrazione a creare luoghi di
sentenze su ogni minimo aspetto della vita. Un po’ come Platone, che radunava
discepoli ai piedi di Socrate, e tutti attenti a ascoltare, senza distrarsi con
le proprie quotidiane vicende; ma - è scontato - senza la parvenza (e neanche
la volontà) di costruire un’opera di pari spessore intellettuale. Se vuoi e sai
d’esser leggero, lascia scivolare i fatti, Volo, non ingombrarli di principi.
Infine mi sono
dedicata a Amy Chua, Il ruggito della mamma tigre, ovvero l’opposto perfetto ai
libri di pedagogia che sono sempre stati la mia bibbia, dalla nascita di Babi.
E l’ho letto in un momento in cui la famiglia Rumoretti sta prendendo le misure
da zero con un piccolo adolescente di tre anni, che ha iniziato a chiarire con
parole taglienti e fatti conclusivi chi, a suo parere, sia al comando del trio;
non nascondo dunque che in qualche tratto la lettura abbia suscitato in me un
qualche accenno di piacere sadico.
Il libro individua
tre differenze principali di forma mentis tra i genitori orientali e
occidentali:
la mamma
cinese non si impone alcuna preoccupazione circa l’alimentare e il mantenere
l’autostima dei figli, che non vede assolutamente come fragili; crede
profondamente che i suoi figli siano in debito con i genitori, e debbano
trascorrere la vita cercando di ripagarne con devozione i sacrifici; ritiene di
sapere esattamente cosa sia meglio per i figli, assoggettandoli così senza
alcuna remora alle proprie volontà e calpestandone i desideri.
Al fine di
promuoverne la crescita intellettuale e il primato lavorativo, la madre cinese
sottopone i figli ad ininterrotto studio, scolastico e musicale, non ammettendo
alcun voto inferiore al massimo, e negando ogni svago; riducendo insomma la
vita di bambini e adolescenti a qualcosa che per noi è impossibile anche solo
immaginare.
In realtà,
ulteriore prova di come sia sempre meglio assaggiare che sentir descrivere, dal
libro non emerge una donna folle, rigida quanto sicura del proprio metodo, ovvero
quella che è stata descritta in diversi dibattiti televisivi eretti sul niente
in questi mesi a seguito dell’uscita del libro: questa donna, che vive di
persona, prima da figlia e poi da madre, tutti i contraccolpi di uno scontro di
culture, si chiede ripetutamente se il suo metodo sia in effetti superiore, se
porti a risultati obiettivamente e complessivamente migliori del permissivismo
occidentale, guardando onestamente ai propri fallimenti, cambiando in diversi
casi opinione e riflettendo sui limiti della propria severità.
Fondamentalmente,
conclude, nessuno dei due metodi educativi costituisce garanzia di felicità.
Sicuramente i
risultati raggiunti da figli allevati in quel modo, estremamente faticoso anche
per la madre stessa, soprattutto tra le famiglie di immigrati in cui a giocare
contro è la società in blocco, sono stupefacenti: ma leggendo mi veniva in
mente quella utile metafora, che descrive la storia del mondo come un libro di
non so quante pagine, e la storia dell’umanità come l’ultima riga di quel
libro. Poiché la storia di ognuno di noi è una macchia d’inchiostro
infinitesimale che compone l’ultima lettera, che senso ha occuparsi
esclusivamente del proprio successo, dell’eccellenza, quando già metà della
vita trascorre dormendo, e una buona parte a difendersi da inutili desideri di
acquisti compulsivi? Senza quella minima capacità che ci resta di goderci le
nostre giornate, meglio estinguersi.
sabato 10 dicembre 2011
Non facciamoci mancare niente
Credo che
questo blog, anche con il suo nuovo titolo che provvederò in breve a dare in
pasto al pubblico, resterà noto ai motori di ricerca in virtù di svariate malattie.
Mentre iniziavo a preoccuparmi per l’assenza di tonsillite, che da oltre un
mese evitava di farmi visita, ci ha pensato un altro pezzo di corpo, a dar voce
alla voglia di sofferenza: alle cinque e mezza di mattina mi ha svegliata una potente colica renale.
Un micidiale minuscolo
sassetto, a forma di castagna, con punta ossuta e culo strabordante, mi ha
inferto quasi dieci ore di laceranti dolori, conditi da una gita al pronto
soccorso dopo aver dato ordini, piegata in due sul divano, circa il libro da
mettere in borsa per lenire il terrore della noia pur desiata, e poi da morfina
a piene mani, da rari momenti di lucidità in cui, dimenticata su una barella in
un angolo del corridoio sotto la scritta: vietato sostare in corridoio,
assistevo a dialoghi tra addetti che riferivano di aver perso impegnative e
perfino pazienti, ostentando sicumera coi parenti, e medici confusi (“mi danno
un ricettario e io scrivo: fortuna che non mi hanno dato un kalashnikov).
Ne sono
uscita, e come sempre mi ha stupita la perfetta pace dell’anima che subentra ai
dolori più tremendi del corpo. Nelle pause di oblio indotto dalle più svariate
sostanze psicogene, mi chiedevo, fatalmente consapevole di entrambe le
sensazioni, se fosse peggio il parto o la colica.
Dopo lunghe
riflessioni, credo sia peggio il parto: perché dalla colica i medici cercano di
proteggerti come possono, dal parto manco per sogno, anzi, ti guardano come a
dire: hai voluto la bicicletta… quasi fosse un capriccio, quest’affare di
portare avanti l’umanità. E poi partorire un sassetto o un fagotto di 4 chili,
pardon, non è proprio la stessa cosa.
Sittin' in the middle of nowhere
Viste le difficoltà
per raggiungere il mio blog, abbiamo chiesto e ottenuto una linea telefonica casalinga
che mi permettesse di cambiargli il nome e gestirlo con la comodità dell’ ADSL,
solo che il grazioso Modem antenna-munito che mi hanno inviato è
connessione-incontinente (non la trattiene), quindi ogni volta che desidero
lanciarmi nella rete globale devo prevedere una media di 25 minuti di
attesa al grido di “Why am I sitting in
the middle of nowhere, standing here with nothing to do?” tanto per alimentare
la mia autostima. Finora mi hanno aiutata Antonietta, Giorgio, Maria, Antonio e
Salvatore, con un’inusuale preparazione e cortesia, ma il sistema mi sembra lo
stesso un tantino complesso, e la canzonetta non risulta utile ad eccitare la
fantasia, per cui il blog risulta ancora disperso, e questo word molto povero
di idee.
L’inventiva
non viene nemmeno aiutata dalla mancanza di pratica quotidiana (non per nulla
Moravia sedeva ogni giorno alla scrivania davanti al mare di Sabaudia scrivendo
dalle alle, e lo pubblicavano pure!), né dallo stato del mio inferno di lavoro:
se alcuni ricchi e annoiati coglioni gareggiassero nel collezionare casini, la
premiata ditta sarebbe quotidianamente visitata da maggiordomi in livrea con
soldi che spuntano da ogni tasca per accaparrarsene il numero maggiore
possibile, ma senza negoziare: solo cartaccia di prima qualità, qui.
E la chiamano estate
Sono tornata in
ufficio, e nell’afa del meriggio, mentre il sole feroce attraversa l’edificio
venendosi a piazzare davanti alla mia porta, riflettendo caparbio la propria
immagine sul condizionatore rotto creando irridenti giochi di luce, mi sento
addosso la voglia di lavorare di una segretaria svedese in bikini assunta per
altri fini, che batte un tasto al minuto con le unghie lunghe sette centimetri.
Il dolore di tornare qui è così grande da privarmi della parola per buona parte
della domenica, e il fenomeno di vivere la più profonda noia pur avendo
tantissimo da fare, il tempo che non basta mai e non finisce mai,
contemporaneamente, mi stupisce ogni giorno. Se la finestra avesse le sbarre
non mi stupirebbe, sarebbe solo una materializzazione delle mie sensazioni.
Lo so, c’è il
dolore vero e c’è chi il lavoro non lo ha. Ma sono come un bambino di fronte a
una zuppa odiata e all’evidenza che milioni di altri bambini la
desidererebbero. Non serve a niente, in questo meriggio afoso, una zuppa.
Gétromo?
- Mamma, ma la casa di questa capretta nel libro è senza porta!
- Infatti, Babi, la Pimpa vorrebbe entrare e la capra Elisabetta le dice di entrare dalla finestra.
- Ma perché non ha chiamato il getròmo?
- Chi, amore?
- Edgar, quello che ha fatto a noi la casa!
- Hai ragione, Babi, avrebbe dovuto chiamare il geometra, la capra Elisabetta.
La malattia libera parole
Torno ora da una settimana di –iti (tonsillite, tracheite, otite, cistite, stomatite) che, pur nella sensazione del più totale anacronismo che regala la febbre d’estate, che nemmeno ad andare in giro in torpedone, ha enormemente favorito la mia vita intellettuale, regalandomi il tempo di ritagliarmi borse da mare con le foto dei miei scrittori (una borsa di plastica con tante taschine munite di figurette di bellezze anni’50 soppiantate da Forster, Lessing, Kipling e altre decine, tra cui Joyce che si è meritato di comparire straziato, il mento in alto a destra e la fronte in basso al centro), e di leggere diversi libri.
La via del tabacco
Ho finito da qualche tempo questo libro pazzesco, in cui il degrado, la fame e la mancanza di futuro rendono una famiglia completamente priva di ogni componente umana, del senso della famiglia, della protezione, dei legami amicali, scaraventandoli nelle loro giornate a spremere calpestandosi a vicenda qualsiasi cosa possano ottenerne, da una rapa cruda all’ebbrezza di un giro in macchina in città, lasciando cadaveri specchio di sé stessi sul selciato. Un libro ben scritto, durissimo, angosciante quanto basta a capire quale orrore noi tutti celiamo dietro certe nostre porte, senza sapere con certezza quanto poco basti a spalancarle.
Il doppiaggio nel cinema italiano di Massimo Giraldi, Enrico Lancia, Fabio Melelli: un libro più di consultazione (ma chi è questa voce?) che di lettura vera e propria, in cui però ho trovato qualche curiosità su un argomento che, con la musica, mi interessa tantissimo (cosa darei per assistere a una seduta di doppiaggio)..
Una moglie a Parigi, di Paula McLain, regalo di compleanno. La scrittrice, dopo una lunga opera di ricerca, si è infilata nella vita di Helizabeth Hadley Richardson, prima moglie di Hamingway, testimone della sua prima giovinezza (l’ha sposato a 21 anni) e dei suoi faticosi inizi letterari, mollata una volta raggiunto il successo come altre mille mogli, per altre tre matrimoni e un suicidio, costellati di pagine di nostalgia per il periodo “giovane e povero”. Non approvo, di base, i romanzi i cui scrittori si impadroniscono delle vite di persone realmente esistite e, di solito, famose o vissute accanto a persone famose. Mi infastidisce il giochetto, mi sembra pericoloso, e sicuramente farcito di errori quanto una qualsiasi narrazione può assomigliare a una vita vera. Ma poi tutti i romanzi rubano dalle vite, e in tutte le vite possiamo trovare tasti nostri, e perché le vite di chi conosciamo per fama devono essere lasciate in pace, come se solo il protagonista ne potesse parlare? Insomma, mi ha coinvolta, e ho letto tutto d’un fiato, arrivando alla dolorosa e prevista fine di un matrimonio con lo stesso pathos che alcuni film americani riescono a trasmetterti nel lento incedere di una catastrofe naturale.
Cortesie per gli ospiti, di Ian McIwan. Strani eventi: tempo fa, accendo la TV per cinque minuti di pausa pomeridiana mentre Marito e Babi tornano dal parco, e trovo in un oscuro canale digitale un pezzettino di film con Rupert Everett, di quelli di fotografia super patinata e di atmosfera a metà tra un film erotico e un thriller morboso degli anni ’80. Ne leggo il tristo riassunto, mi soffermo a riflettere sul fatto che i riassunti della TV li devono scrivere dei mentecatti che ritengono che la suspense si fabbrichi mettendo a caso puntini di sospensione (“e lei se ne va a…”), e tutto si ferma lì. Il giorno dopo passeggio per un mercatino del libro usato, e, a soli tre euro per un Einaudi quasi nuovo, trovo Cortesie per gli ospiti, il libro da cui è tratto il film. Non potevo dargli asilo, per quanto McIwan sia un attore che devo riservare a momenti limpidi e leggeri della vita, perché è capace di pugnalarti e abbandonarti a rotolare nell’angoscia come un brutto incontro fuori dal peggior bar di Caracas. E così è stato.
E ora vengo cullata da “Il testamento” di John Grisham, tra le cui braccia svengo come una Rossella O’Hara col busto troppo stretto, ogni volta che la vera letteratura mi maltratta.
venerdì 9 dicembre 2011
E poi cosa, ancora?
- - Buongiorno, mi è arrivata una bolletta dell’acqua con il bollettino per pagarla in posta, ma io ho la domiciliazione bancaria da febbraio..
Signora, a noi non risulta nessuna domiciliazione bancaria!
- Ma se in maggio mi avete prelevato 49 euro!
- A me non risulta nessuna bolletta a suo nome di 49 euro, me ne risultano due non pagate di altri importi, però…
La famiglia Bolletti ha appena scoperto che, per un errore della banca, da mesi pagava le bollette di qualche sconosciuto, sicuramente proprietario di piscina, il cui codice cliente equivaleva al nostro codice di domiciliazione, ma nessuno, nel frattempo, provvedeva alle nostre con la stessa solerzia.
La cosa più impressionante è che la cieca fiducia nei mezzi informatici crea un muro invalicabile tra due certezze, la mia che guardo i movimenti del conto in banca e quella dell’azienda dell’acqua che osserva una realtà completamente diversa. La sensazione, fino al momento in cui entrambe le parti non decidono di negare questo potere alla tecnologia, discutendo di evidenze umane, è di tale stordimento che Kafka, invece che in un castello, avrebbe scelto di smarrirsi in un hard disk
Il perchè del silenzio
ACHTUNG: DA QUESTO MOMENTO IL BLOG RIAPRE I BATTENTI, E PUBBLICHERO' DI SEGUITO ALCUNI POST SCRITTI SU WORD NEI GIORNI DI MALINCONICA ASSENZA.
LA COSA PIU' DIVERTENTE E' CHE IL VECCHIO INDIRIZZO DEL BLOG RIMANDA AL NUOVO SENZA FALLO, DUNQUE QUESTO SILENZIO, TUTTO QUESTO CASINO NON SONO SERVITI A UNA BENEAMATA CIPPA, SE NON AD ALIMENTARE LA MIA NOSTALGIA.
Ho dovuto oscurare il blog perché il Marchese de Sade stava per entrare in possesso dell’indirizzo grazie a una soffiata di una spia nazista nascosta in panni da pastorella, insomma, una trama da Ken Follett, e v’erano diversi elementi in cui avrebbe potuto con grande facilità riconoscersi, per esempio in questa foto, o in questa descrizione. E' ovvio che ho dovuto eliminare fisicamente la spia, non ancora il Kapo.
Ora mi trovo ad un bivio: proseguire a mantenere l’amato frutto delle mie fatiche letterarie occulto ai più, tramite il sistema degli inviti agli amici fedeli? Questo forse mi darebbe maggiore libertà quanto ai contenuti, avrei meno attenzioni circa dove vivo o dove lavoro, anche se credo che i più scafati ci siano arrivati benissimo; però mi sottrarrebbe l’emozione di un ingresso estraneo, di un commento anonimo e misterioso, evento raro quanto piacevole.
Cambiare completamente l’indirizzo, e rinascere con altro nome dentro qualche altra rete, come un testimone sotto copertura, confidando nelle limitate capacità informatiche del signor Kapo, e nelle immense capacità intuitive dei miei lettori? A questo riguardo, visto che la maggior parte degli ingressi al mio blog avvengono, come già detto, grazie ai termini “inverter”, “macchie”, “tonsille”, c’è una buona possibilità di venir trovata anche altrove, provocando numerose visite lampo accompagnate dalle consuete ingiurie di gente con la gola a placche interessata al fotovoltaico. In questo modo mi manterrei aperta al mondo, e l’unico dolore sarebbe rinunciare all’amato titolo del blog, una di quelle pochissime idee, nella mia vita, per le quali amo sferrarmi in solitudine grandi pacche sulle cosce, complimentandomi per l’intuizione geniale.
Che fare: cambio diritto del lettore? Non mi pare elegante ildirittoalbovarismo; sembra un forum di discussione tra mucche che non vogliono perdere le proprie radici.
ildirittodinonleggere costituirebbe una contraddizione in termini; ildirittodirileggere sembrerebbe un affronto a coloro che entrano per sbaglio (fermati, cavolo, cosa te ne frega del risparmio energetico?), con una punta di fastidiosa autoreferenzialità. Al contrario, ildirittodinonfinireunlibro funzionerebbe come un inserto subliminale: vattene finché puoi. Ildirittodileggerequalsiasicosa butta tutto in vacca, ildirittodispizzicare fa pensare a un happy hour, ildirittodileggereadaltavoce per carità, ildirittoditacere porterebbe numerosi commenti del tenore: ecco, appunto.
Probabilmente dovrò abbandonare Pennac. D’altra parte ci sono bellissimi blog con titoli orrendi, come nonsolomamma.com, che richiama direttamente le sciagurate centinaia di attività commerciali in cui ti promettono anche altro rispetto a chissà cosa. Magari calerò in titoli incisivi e crescerò in contenuti, chessò..
martedì 14 giugno 2011
Continuavano a chiamarlo Marito
Ieri, affaccendata in mestieri vari, ho provato la stessa sensazione di familiarità sentendo arrivare dalla finestra un numero di bipbip, intervallato da nevrotiche maniglie che si sollevano, francamente improponibile per ogni persona assennata che utilizzi il telecomando per chiudere l’auto; solo una persona ne può controllare il funzionamento quelle dieci volte a mezzogiorno, prima di entrare a casa per il pranzo: “Bentornato, Marito!”
Un progetto da sogno
Ognuno vien su con qualche ossessione. La mia forse è puerile, ma almeno non dannosa per chicchessia.
Fin dai tempi di un’infanzia, in cui ho respirato la più grande felicità dei sensi in riva al Mediterraneo, con i suoi muri a calce, i suoi azzurri schiariti dal sole, i profumi violenti di flora rocciosa, perfino le puzze improvvise dei quartieri più interni, ho sognato di poter avere a casa mia uno spazio all’aperto da dipingere a toni marini, e da riempire con sedie impagliate e un tavolo rustico, munito di tovaglia a quadretti, sul quale appoggiare una latta di ragguardevoli dimensioni (pelati formato famiglia, tonno intero..) in cui coltivare amorevolmente una pianta di basilico del tipo greco, con foglie piccole e odore antico.
Ebbene: la location lascia a desiderare, è una tettoia con tetto bianco di lamiera e l’interno rivestito di piastrelle maron; non guarda il mare ma il mio orto disordinato e lussureggiante come fosse al tropico; piove troppo spesso; gli scaffali zincati della Marcegaglia non contribuiscono ad un’atmosfera campestre; le sedie sono di plastica nera e metallo; ma ho un grande tavolo con la tovaglia a quadretti, e ora ho preparato la mia latta, più piccola del dovuto, con il mio microscopico basilico greco.
L’effetto è un po’ da modellino in scala del mio sogno, ma in qualche modo è un inizio.
Ebbene: la location lascia a desiderare, è una tettoia con tetto bianco di lamiera e l’interno rivestito di piastrelle maron; non guarda il mare ma il mio orto disordinato e lussureggiante come fosse al tropico; piove troppo spesso; gli scaffali zincati della Marcegaglia non contribuiscono ad un’atmosfera campestre; le sedie sono di plastica nera e metallo; ma ho un grande tavolo con la tovaglia a quadretti, e ora ho preparato la mia latta, più piccola del dovuto, con il mio microscopico basilico greco.
L’effetto è un po’ da modellino in scala del mio sogno, ma in qualche modo è un inizio.
venerdì 10 giugno 2011
HEY, TU CHE ENTRI QUI...MI RACCOMANDO
Ieri, affaccendata in mestieri vari, ho provato la stessa sensazione di familiarità sentendo arrivare dalla finestra un numero di bipbip, intervallato da nevrotiche maniglie che si sollevano, francamente improponibile per ogni persona assennata che utilizzi il telecomando per chiudere l’auto; solo una persona ne può controllare il funzionamento quelle dieci volte a mezzogiorno, prima di entrare a casa per il pranzo: “Bentornato, Marito!”
giovedì 9 giugno 2011
Il tabù della morte
Babi adora un cartone animato in cui delle api con zaino munito di tasto inflate - deflate vagano tra i fiori a distribuire polline al ritmo di Here comes the sun dei Beatles.
L’altro giorno casa nostra è stata tetro scenario di uno strano accadimento: tornati dalle vacanze, abbiamo trovato qualche decina di api stecchite ai piedi delle finestre del piano di sopra. Come saranno entrate? Perché sono morte? Che sarà accaduto? E soprattutto: come fare a distogliere Babi dal tentativo di risvegliarle ai propri doveri, spintonandone delicatamente coi piedi i corpicini gridando: Ma perché non cantate i com de san taratara i com de san ed ai se izorrai?
L’altro giorno casa nostra è stata tetro scenario di uno strano accadimento: tornati dalle vacanze, abbiamo trovato qualche decina di api stecchite ai piedi delle finestre del piano di sopra. Come saranno entrate? Perché sono morte? Che sarà accaduto? E soprattutto: come fare a distogliere Babi dal tentativo di risvegliarle ai propri doveri, spintonandone delicatamente coi piedi i corpicini gridando: Ma perché non cantate i com de san taratara i com de san ed ai se izorrai?
mercoledì 8 giugno 2011
Texaco, Patrick Chamoiseau
Un libro come un obbligo tollerato. Mi infastidivano i manierismi per cui la città era chiamata (pare dal creolo) Incittà, e la protagonista si riferisse al padre come “il mio Esternome (quello è il nome, ciò che contesto è il possessivo), e quel modo di scrivere costantemente evocativo, come un continuo incipit.
Comunque qualcosa ho imparato, su luoghi e tempi di cui ero ignorante. Andato.
Och
Il fatto che Babi, da allora, ogni sera al momento di dormire sussurri: Mamma, voglio che stiamo sempre a casa, non voglio più andare nei posti, non voglio più andare al mare, deve in qualche modo preoccuparmi?
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