mercoledì 24 febbraio 2010

Gilgamesh e Enkidu


Il marchese de Sade, oggi, in ufficio, si è imposto con le cattive, come spesso fa. Però oggi lo scontro pare diventare cavalleresco. I Kapetti sono radunati in una stanza a congiurare, e il racconto della vicenda sta assumendo contorni sempre più avventurosi, sta diventando epico. Non mi stupirei se ne scaturissero un paio di volumi in versi, e se questa sera le signore delle pulizie trovassero le pareti coperte di graffiti con mufloni e lance.
Tutto è lecito, per metabolizzare la propria nullità.

Ritorno al 1994


Da La Repubblica di oggi: Giuseppe D'Avanzo come al solito osserva tutto lucidamente, e racconta molto più chiaramente di come potrei mai fare provandoci io.

"Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).
Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro - e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura - le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche - giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora - dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994. Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente - ci hanno detto - era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.

Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società. Discutere di corruzione - ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria - vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.

A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese".

lunedì 22 febbraio 2010

Sondaggio


E un altro sondaggio è andato, così, senza guardarsi indietro, e senza superare gli otto (milioni di ) voti del precedente, forse sacrificando un po' di share a Sanremo.
Ci si chiedeva quale fosse la stagione più adatta alla produzione letteraria.
I risultati:
stravince l'autunno (3), votato anche dalla sottoscritta, segue a ruota l'inverno (2), l'estate (1).
Questa volta il risultato è analizzabile con grande chiarezza:
Per creare bisogna soffrire, come disse il da me citatissimo Troisi (unica persona al mondo a riscuotere la mia nostalgia senza averlo in realtà conosciuto) invidiando Pino Daniele, che per una canzone doveva soffrire al massimo 'na mezz'ora, mentre lui, per fare un film...
La sofferenza è data dalla mancanza di speranza. Situazione che deriva da casi personali, ma che è sommamente aiutata da ciò che la finestra inquadra.
In autunno ci aspetta solo l'inverno, la splendida esplosione dei colori è solo presagio di morte.
In inverno c'è il barlume di speranza della primavera, ma in certi giorni è sepolto senza complimenti da tonnellate di fanghiglia.
L'estate è come il sabato del villaggio. Ridi, ridi, mona, che tra poco...
La primavera semplicemente non ci riesce. Non seppellisce di fango, ma di temporali che rinfrescano. Non ha esplosioni rosse di fiamme, ma verdi di speranza. E parlare di venerdì del villaggio sarebbe troppo anche per una masochista come me che, dopo aver timbrato il cartellino venerdì sera, non può fare a meno di pensare: ecco, un minuto in meno mi separa dal lunedì.
In poche parole, non ha il physique du role.
Morale: era un sondaggio scontato? No, volevo essere sicura che per scrivere sia necessario soffrire, prima di soffrire per niente.

Armadale


Finite le 823 pagine di Armadale, e devo dire che mantengono la promessa del classico classico: estremamente avvincenti, fanno affezionare ai personaggi, attirano tra le coperte per conoscerne gli sviluppi. Quello che Wilkie Collins riesce a realizzare con costanza, come in La pietra di luna, o La donna in bianco. Quello di cui c'è bisogno in certi momenti.

E così passo a Alice Munro, il cui nome mi frullava nella mente da un lontano incontro con Jonathan Franzen al Festival della letteratura di Mantova, mi sembra anno 2004. Ne ho un ricordo particolarmente vivido, perchè, tra mille incontri con autori che dimostravano invariabilmente di avere una padronanza del pubblico, una capacità di coinvolgere, una verve comica che non era assolutamente dovuta in chi sia famoso per saper scrivere, lui era stato assolutamente imbarazzato, incapace di trovare qualsiasi cosa da dire, insomma indecente dal punto di vista dell'intrattenimento, tanto che l'incontro si era tramutato in una esibizione dell'interprete, finalmente libero dai fili di dover tradurre parole altrui e precipitato in una situazione che, era palese, attendeva da anni.
La cosa non mi aveva disturbato, mi era finalmente sembrato che esistesse un uomo capace di scrivere ma incapace di ballare, cantare e recitare.
Tra le poche parole carpite a forza di domande dal pubblico, Franzen si è appassionato un momento solo, quando ha nominato la sua scrittrice preferita, augurandosi che un giorno ricevesse il Nobel: Alice Munro (parole che, pronunciate da un anglosassone boffonchiante e timido, sono state veramente difficili da indovinare). Ogni volta che risentivo questo nome mi ricordavo la scena e mi ripromettevo di leggerla. Ora ce l'ho fatta, e ne riferirò.

mercoledì 17 febbraio 2010

Lo scaffale della Feltrinelli


Ho permesso a un marchio di entrare spudoratamente nel mio blog perchè l'idea dello scaffale con i libri più amati la trovo magnifica, e degna del sacrificio alla pubblicità della Feltrinelli.
Preferirei invero che lo scaffale fosse in rovere, e i libri vi risiedessero come dio comanda, ovvero con il fianco al lettore e facce e schiene a contatto; mi piacerebbe si potesse estrarli con una manina di mouse, e sfogliarli per trascorrere il tempo in compagnia dei migliori amici.
In assenza di tali capacità programmatiche, mi accontento di scorrere i libri dei miei organi (ossia che il cuore ha amato e che il cervello ha saputo rintracciare nella memoria), sperando che incuriosiscano il viandante elettronico.

martedì 16 febbraio 2010

Hannibal the carnival


Al lavoro c’è un signore azzimato e serioso, integerrimo e gran lavoratore, come da stereotipo della provincia. Misurato, calmo, mai lo vedresti perdere il controllo, mai rispondere oltre la misura.
C’è solo un giorno, in tutto l’anno, in cui questo signore si concede di lasciare ogni freno inibitore, abbandonandosi a sfrenati baccanali tra i corridoi degli uffici. E quest’anno ne sono stata testimone. E’ entrato un prete, con una pentola di alluminio piena di grappa slovena e uno scopetto da wc di cui si serviva per spruzzare monitor e carte impartendo rumorose benedizioni e mormorando una litania di cui ho perso gran parte delle parole, purtroppo, poiché è terminata con un gran sventagliare di tonaca fino a scoprire delle mutande a righe rosse e blu, e forse ne avrei capito il motivo. Poi, come è comparso, è sparito, accompagnato da scoppi di risa in ogni ufficio del corridoio.

Ora: adoro che le persone si scoprano diverse all’improvviso. Amo che si crepi la patina e mostrino un nascosto senso dell’umorismo, una vena di follia, una non compresa capacità di ridere e vivere. Adoro il fatto che un evento qualsiasi stravolga anni di autocontrollo, scoprendo un affresco sotto l’intonaco di serietà costruito a fatica contro la propria natura. Lo trovo una rinascita, e trovo abbia un effetto seriamente comico, come per l’alunno di un amico britannico, unico caso conosciuto in cui fosse il maestro ad annoiarsi fino a dormire, che, colto dal terremoto nel mezzo di una lezione, si è alzato di scatto, si è buttato per le scale scaraventando di lato vecchi e bambini per pter passare, urlando: attaccatevi al muro maestro!

Insomma, tutto questo mi piace: ma che per farlo scelgano l’ultimo di Carnevale, giorno che per me ha smesso di rivestire un qualsiasi significato dal decimo compleanno, lo trovo tanto scontato da essere strano.

giovedì 11 febbraio 2010

L'incubo svezzamento




Al ristorante, il menu recitava: tagliata di manzo.
Che ci recapitassero una sorta di braciola a tocchetti, era l'ultimo pensiero.
Tagliata, è tagliata.

Anzi, l'ultimo pensiero è stato a Frankenstein Junior:
- dotore, lei non avere nemmeno tokkato suo cibo!
-cic cic ciac. Ecco, ora l'ho toccato!

mercoledì 10 febbraio 2010

No meal - sì nemesi


Quando qualcuno arriva in ritardo all'aereo accade di frequente che, pur tra le occhiate di riprovazione delle hostess, venga frettolosamente fatto accomodare in prima classe, e vi pervenga come unico passeggero dell'autobus, con una quarantina di posti tra i quali scegliere correndo tra le gates.
Danno e beffa, dunque, per i passeggeri puntuali che sacramentano in attesa del simpatico ritardatario sui loro sedili economy trenta x trenta centimetri che li sosterranno per quelle 14 ore di volo il cui picco di divertimento sarà l'arrivo di maleorodanti vassoi di sbobba gommosa.
Una compagnia britannica ha deciso di porre un freno a questo malcostume: il passeggero ritardatario si accomoderà sì in prima classe, ma con un biglietto con il seguente marchio della vergogna: NO MEAL.
Lo sventurato trascorrerà quindi le successive 14 ore senza essere privato delle gambe, che in economy di solito vengono amputate da uno scientifico formicolio, ma costretto a spiare i vicini rifocillati a richiesta con flute di champagne, gamberetti in salsa rosa e linguine al salmone, senza poterne godere.
Alla nona ora non potrà fare altro che attraversare la tendina di tessuto sintetico che lo separa dalla bolgia, e umiliarsi per ottenere un vassoio di plastica di risi e bisi del 1992.

PS. A questo proposito, abbiamo appena acquistato il biglietto per il primo volo di Babi. Gliene ho parlato, e si è subito entusiasmato, pensando che la cosa si sarebbe svolta oggi, al posto della scuola. Do'h.

martedì 9 febbraio 2010

Il sorriso del Kapo (ha un buco nella gomma)


Ieri il Marchese de Sade mi ha fermata all'ora dell'uscita, mi ha chiesto con estrema calma come andasse col lavoro, e mi ha promesso di occuparsi di qualcosa che giace da due mesi sul suo tavolo e che sto aspettando con trepidazione.
Poi ha sorriso bonariamente. Con muscoli che probabilmente giacevano inutilizzati sul suo viso da tempo immemorabile. L'effetto è stato più o meno questo.

lunedì 8 febbraio 2010

Anche i bambini hanno un cuore


Babi non si lascia mai andare, non appare mai coinvolto sentimentalmente da alcun gioco gli venga regalato: sembra avvicinarsi dolcemente al coniglio Johnny, ma è per coglierlo di sorpresa scaraventandolo sotto un camion.
Sembra avere un debole per una enorme gallina, ma dopo un attimo di smarrimento la prende per le zampe e la fa roteare per la stanza prima di lasciarla andare contro Pantacollant.
La stessa gatta viene avvicinata da Babi come un’antilope da un ghepardo, per poi essere spinta giù da ovunque si trovi; il copione poi prevede che Babi si giri innocente chiedendo stupito: ‘u è gatto? (= dove si nasconde il gentile felino che sottostava poc’anzi alle mie gentili carezze?)
Il peluche lo infastidisce, nemmeno dovesse mangiarlo, preferisce i rigidi camion, le palle di legno da martellare fino allo sfinimento delle palle stesse, dei genitori e dei vicini di casa; i finti telefoni che emettono suoni spaventosi come una canzone imbarazzante cantata da Winnie the Pooh.

Ma ora è arrivato tra noi una sorta di verme dal corpo morbido e imbozzolato che termina da una parte come Pisellino di Braccio di Ferro, dall’altra con un viso umano di plastica, o meglio, da cartone animato giapponese, di quelli con gli occhi grandi da contenere un bicamere con cucina abitabile, una cuffietta con le orecchie, e un meccanismo che gli illumina il viso di rosso e emette musiche quali la ninna nanna di Brahms e il Canone di Pachelbel, ma non in quella orrenda versione midi come tutti gli altri giochi, bensì in un tentativo di polifonia.
Ebbene: per la prima volta Babi ha dato un nome a qualcosa: BrrTato.
E per la prima volta non lo usa esclusivamente come bomba a mano, ma usa intrattenervisi, credendosi non visto, in conversazioni animate e fugaci bacetti. Qualche volta se lo porta anche a letto, illuminandone il viso di rosso proprio mentre si sta addormentando, al solo fine di renderci la vita difficile (per fortuna la musica si può spegnere).

Da bambina che dava un nome anche alla maniglia dell’armadio e che radunava mucchi di orsetti organizzando gite fuori porta sul triciclo, devo dire che questi sprazzi di affetto mi rallegrano, pur intervallati dai consueti incidenti alla blues brothers organizzati da padre e figlio, con quegli orrendi rumori - tipo cradchtscshch - che fanno con la bocca.

venerdì 5 febbraio 2010

La petizione


Immaginate una piazza affollata, un sabato pomeriggio, in cui camminate per una volta liberi da pensieri, quasi zuzzurelloni.
All’improvviso un tale si avvicina con aria amichevole, un viso nebbiosamente noto in qualche piega del cervello che solo un elettrodo potrebbe identificare - null’altro che porti qualche ricordo. Il tipo vi tende la mano, con l’altra vi rifila una pacca sulla spalla, e vi chiede con solerte precisione come sta la famiglia, la nonna malata, perfino il gatto di casa, di cui conosce nome e nomignolo che usate attribuirgli nell’intimità.
E voi, senza parole, cercate di scartabellare nella coscienza, sudando copiosamente, e chiedendovi incessantemente: chi è mai, costui?

Nei casi peggiori egli vi offrirà da bere, continuando a dimostrare di conoscere di voi quello che nemmeno voi stessi ricordate. E non siete in grado di contraccambiare, cercate con vuote domande di carpire qualcosa sul suo stato civile, cercando di evitare figuracce su orribili tragedie che possono essergli accadute senza che in voi rimanesse traccia.

E’ molto difficile, in questi casi, che alla fine scopriate che era un amico di vostro nonno defunto che conduceva una doppia vita da agente del kgb e che al mondo aveva un solo amico a cui raccontava di voi ogni cosa. Nella maggior parte dei casi, rassegnatevi, è una questione di memoria.

Un amico assillato da tale problema ha trovato una soluzione: non uscire mai di casa senza una petizione. Ma non una qualsiasi, deve avere determinate caratteristiche, per funzionare ad ogni evenienza.
- deve essere generica, assolutamente priva di implicazioni politiche che diano ad una persona la possibilità di dire: non sono mica d’accordo. Ricordate che questo metodo nasce per ottenere un solo risultato, non per prendere due piccioni con una fava trovandosi pieni di firme per un referendum sulle leggi salvaBerlusca. Benissimo i salvataggi di specie in estinzione, possibilmente equatoriali o polari, così si riduce il rischio di trovarsi davanti a un appassionato bracconiere.
- Deve contenere uno spazio per la firma, ma anche uno per il nome esteso, per evitare poi di trovarsi davanti ad uno sgorbio illeggibile bofonchiando: Allora, come stai, carissimo Fllrri? Belli? Effrri?
- Non deve prevedere spazio per la data di nascita, altrimenti ci si gioca tutte le donne attempate. Non mi pare il massimo incontrarsi dopo anni e chiedere subito l’età.

Con questi presupposti, non si deve far altro che stringere amichevolmente quella mano estranea, interrompere sorridendo ogni smanceria mostrandosi coinvolti nel profondo nella propria causa: Carissimo, approfitto di te un secondo per salvare le innocenti foche, ecco, firma qui, scrivi qui il tuo nome…la foca ringrazia, e ora, dove eravamo? Caro Gualtiero, ma come va? Parlami di te!

giovedì 4 febbraio 2010

Sindrome di Stoccolma


Credo che questo ufficio stia vivendo la più grande epidemia di sindrome di Stoccolma, in breve ammirazione e identificazione nel proprio carceriere, che si sia mai registrata al mondo, rivelandola come malattia contagiosa.
Tutti parlano male di questo posto, e a ragione; tutti si sentono maltrattati dal grande Kapo – non per nulla Marchese De Sade, che si divide tra indifferenza assoluta e banchetti di umiliazione; nessuno si sente capito, valorizzato; in corridoio l’atmosfera è quella di una passeggiata nell’Antartide nel periodo in cui i pinguini stanno tutti attaccati come un sol uomo a sorvegliare le uova nella tormenta. Se il Marchese entra nella stanza tutti tacciono, temendo che quello che stanno per dire, qualsiasi cosa sia, diventi fonte di altre sfuriate immotivate.
Ci si saluta con un cenno cauto, sussurrando con brevi gesti, fino alla certezza dell’assenza del Marchese: solo in quel caso si prende a respirare rilassati, come sopravissuti all’uragano, e ci si sorride a vicenda sentendosi benedetti dal destino.
La sensazione dell’uscita serale è: anche oggi l’ho scampata.
Fondamentalmente si tenta di lavorare nonostante il Marchese de Sade, non sotto la sua direzione.

Ma quando si affaccia nella vita di qualcuno la possibilità di andarsene, di cambiare ufficio e ambiente, di uscire da quella barbara influenza, ecco che tutti si ritraggono come vampiri all’alba. Eh, no, io so cosa lascio ma non so cosa trovo. Altrove è ancora peggio. Tanto è tutto uno schifo. So di che male devo morire. Io non me ne vado.
E tu, nuova arrivata
che hai conosciuto altre atmosfere
ti chiedi:
Ma come può esser peggio?
Sanno cose che mi tengono celate?
E scruti dalla finestra gli altri uffici, con vaga inquietudine, immaginandoci l’inferno di Bosch.