lunedì 19 dicembre 2016

Ultimi pasti

"Aiuto!"
Questo il messaggio che ho trovato sullo schermo del telefono, da parte di nonno G, che normalmente non ama diffondere il panico o usare parole più grandi di quanto serva, nella perfetta cognizione del peso del Verbo.
A questo messaggio è subitamente seguito lo squillo del telefono, sempre a suo nome, a cui ho risposto piena di inquietudine, ascoltando, non udita a mia volta, le seguenti parole:
"Un etto e mezzo di bresaola".
Ho richiamato immediatamente, senza risposta.
Allora si è fatta urgente una riflessione accurata.
Trovo estremamente improbabile che mio padre, accerchiato da una truppa di briganti armati fino all'osso che gli chiedano aspramente di esprimere il suo ultimo desiderio prima di essere spedito nel luogo da cui non si torna, con tono colloquiale domandi un etto e mezzo di insaccato bovino. Soprattutto senza pane.
Di conseguenza non ho potuto che concludere che a formulare l'appello fosse stato il suo telefono, forse temendo di perdere il suo predominio di vecchio cellulare di fronte alla moda imperante dei nuovi smartphone.

Senza nome

Curiosissimo, un titolo così, per un romanzo del 1862. Contiene due elementi che per la mia indole sono un binomio vincente: Inghilterra e Ottocento.
Se poi aggiungiamo Wilkie Collins, confezioniamo un pacchetto che è la mia garanzia di godimento assoluto. L'uomo, all'epoca, ha lasciato senza fiato migliaia di lettori del romanzo, pubblicato a puntate su una rivista, e ora ha lasciato me in un duraturo stato di benessere, lungo le ottocento pagine del romanzo. Numero di cui non avevo preso atto, dato che la lettura in formato ebook elimina completamente la senzazione della consistenza del libro, di peso e pagine, se non per percentuali, che non catturano a sufficienza l'attenzione. 
Mi interrogo sempre sul mio legame con l'epoca e il contesto. Non so se abbia a che fare con il fascino della trama, o con la curiosa abitudine delle protagoniste femminili di risolvere nel deliquio il sopravvenire delle difficoltà, virtù delicata che così spesso vorrei possedere, quando invece ogni colpo inferto dalla vita mi vede fastidiosamente e dolorosamente sana. Ma sicuramente subisco una totale fascinazione per come, nell'intricata accozzaglia di avventure sofferenti, poi tutto trova il modo di sistemarsi, di ricondursi al giusto e al buono, ad una qualche forma di felicità.



venerdì 2 dicembre 2016

Un uomo uno straccio

- Buongiorno, parla dell'assistenza tecnica della Nuova Premiata Ditta, nonché della Vecchia Premiata Ditta, e di numerose altre Premiate Ditte delle vicinanze?
- (sospiro) Sì.
- La chiamo perché non ho il programma che mi permetta di leggere l'estensione P7M.
- Cosa? Ma è sicura?
- Sì. Ne sono certa.
- (atterrito) Ma perché?
- E' una bella domanda, ma rimane il dato di fatto.
- Provi lei a installarsi il programma Dike
- Non ne ho i necessari privilegi.
- Ma è sicura??
- Se per sicura intende: "non dispone dei privilegi necessari all'installazione, entri a titolo di amministratore e riprovi" direi di sì, ne sono sufficientemente sicura.
- Provi. 
- Se le fa piacere.
- Come va?
- "non dispone dei privilegi necessari all'installazione, entri a titolo di amministratore e riprovi"
- Oh.
- Lo supponevo, sa?
- Eh. E ora come facciamo?
- Non può collegarsi lei da remoto?
(voce rotta) - Parla facile, lei. Non posso, non posso!
- ...
- Come la mettiamo?
- Ma lei è di quelle che dalla Vecchia Premiata Ditta A è stata spostata alla Nuova Premiata Ditta B?
- No, sono una di quelli che dalla Vecchia Premiata Ditta C è stata spostata alla Nuova Premiata Ditta D.
- (accenno di pianto) Oh, mio Dio.
- Facciamo che mi manda un tecnico?
- Oddio oddio, che possiamo fare?
- Sarebbe così gentile da aprire una segnalazione per me?
- (accorato) Mo' come facciamo? Apriamo questa segnalazione...
- Mi dispiace, causarle tanto dolore gratuito.
- (gemito) Vedrà che ne usciremo. Ecco la segnalazione.

Poi ha chiamato un tecnico meno bisognoso di ansiolitici, ma non si è riuscito a collegare da remoto. Ne è infine venuto uno in ufficio, ha alquanto sbuffato e se ne è andato. 
Tuttora non leggo il formato P7M.
 
 

Sbobba

- Donne! voi che siete esperte di minestre!
ho apostrofato ieri le giovani nuove colleghe, che si portano in ufficio contenitori con qualsiasi cosa possa essere infilato in una scatola al fine di essere mangiato, per radunarsi in pausa pranzo a gozzovigliare.
- a che ora devo mettere la zuppa sul termosifone per poterla mangiare calda all'una?
E qui si sono scatenate le più varie opinioni.
- Io ce la metto già alle sette e quaranta
- Non badare a lei, è freddolosa anche in una sauna. E' sufficiente alle 12.
- Macché, ieri ce l'ho messa alle 10.35 e l'ho mangiata perfettamente tiepida.
- Io la scaldo con l'elettricità alle 12.45, ho lo scaldavivande.

Ho seguito l'opinione della mezza mattina. Si è rivelata adatta ai miei gusti. E in più, grazie al mio rapido sondaggio, ho subito capito a cosa fosse dovuto il misterioso blackout dell'una meno un quarto, che ha spento tutti i pc dell'ufficio, lasciandomi con la sbobba pronta, ma privata di un excel su cui lavoravo da un paio d'ore.

giovedì 1 dicembre 2016

Aho'

Nella Nuova Premiata Ditta coesiste un coacervo di persone provenienti da Premiate Ditte diverse, con abitudini anche opposte e modalità operative tra le più varie.
Per esempio: noi eravamo abituati a chiudere le porte degli uffici, pur spalancandole per scambiarci un profluivio di boiate a ritmo regolare. Qui tengono le porte spalancate, anzi, ci hanno gentilmente avvisati che tenerle chiuse risulta maleducato ed escludente, ma le puttanate si fermano spontaneamente sulla soglia, per lasciar passare solo concetti più sobri, e assolutamente nessun grido di sfogo o euforia. 
Ancora, il nostro albero di Natale era un casino fatto di anni di accumulazione, con palline a forma di pigne anni Ottanta, altre a forma di scarpe di Manolo Blahnik, fili di perle, orsi col maglione. Loro un albero da vetrina di negozio di una volta, strettamente rosso e oro. Di nuovo: sobrio. 
Che poi si lavora bene, eh. Persone serie e chiare, che prendono in carico i problemi e cercano una soluzione. Materiale raro.
Ma la cosa più curiosa è costituita dai regolamenti che dobbiamo seguire, in merito a orari, permessi, mensa e ferie. 
In attesa di una regolamentazione comune, l'indicazione dei piani alti è che ognuno continui a seguire le proprie norme interne di provenienza. Dunque, nello stesso ufficio, c'è chi può usare i permessi personali retribuiti per parlare coi prof. del figlio, e chi no. Chi può andare in mensa senza avere anche il pomeriggio al lavoro, e chi solo nei giorni in cui il tempo è prolungato. Chi deve terminare le sue ferie entro metà gennaio, e chi entro giugno. Chi conserva a titolo di straordinario i minuti fatti in più, e chi li vede inesorabilmente cancellati a fine mese, come se quella vita non l'avesse vissuta. E' un po' come Roma e il Vaticano, il cui confine i turisti attraversano senza nemmeno accorgersene, ma chi ci vive lo sente. 
E noi semo i romani.

Chi l'avrebbe mai detto?

Visualizzazione di IMG_6532.JPG


Nel nuovo ufficio in cui ci hanno messi c'è una finestra che dà su un parco bellissimo.
E, in lontananza, delle serre bianche, tunnel di plastica che contengono chissà quali delizie vegetali.
Le serre, sistemate tra gli alberi e parzialmente nascoste dai rami, risultano ad un primo e distratto sguardo, quello che preferisco, come una pozza d'acqua, realisticamente un lago, ma a me piace pensare al mare.

In questo ufficio ci hanno trasferiti a forza. Ci hanno ceduti da una premiata ditta ad un'altra. Dopo corsi e anni spesi a favorire il nostro attaccamento all'azienda, si sono offesi perché non accettavamo subito e di buon grado di essere ceduti ad un'altra, il cui destino è forse un po' più in bilico. Ma questo è un altro discorso. E tra il vecchio e il nuovo io voto sempre nuovo. Perché frequentemente la strada battuta è estremamente noiosa.

Tra le cose nuove che ho trovato qui c'è questo parco, con gli scoiattoli che giocano trascinando quelle lunghe code a spazzola, i cachi che crollano pesanti sul terreno perché pare che in questa Regione si ami solo piantarli, non mangiarli. Piccoli alberi pieni di mele del diametro di una pallina da ping pong, buonissime quanto bruttine per la mancanza di anticrittogamici. Edifici un po' cadenti, appartenenti all'ultima epoca in cui si costruiva con gusto, che paiono dare ancora ospitalità alle anime tormentate che ci hanno vissuto. E questo mare finto, che ogni mattina mi regala una preziosa e volatile illusione.

Penso di averci guadagnato, a venire qui.

sabato 26 novembre 2016

Notti in bianco, baci a colazione

Non so che faccia possa avere l'editor che ha suggerito questo titolo. O forse l'ha fatto lo stesso Bussola, dopo alcune notti passate con la figlia minore febbricitante sullo stomaco. Roba che ci si avvicina al libraio per conoscerne la collocazione, dopo aver cercato disperatamente di far da sè, e si sussurra il titolo come si confida al farmacista di avere le creste di gallo (se poi il farmacista ti guarda in testa e dice: Non mi pare, beh, quella è un'altra storia).
Ed è vero che questo libro viene da un blog, e la cosa un po' si sente e un po' lo limita.
Ma mi è piaciuto, mi ha fatta ridere con la voce: "ah ah ah", e perfino piangere in un paio di casi. Condivido ciò che pensa, tanto da sentirlo un po' mio, capisco a fondo molte sue posizioni, e non mi sono annoiata mai. Un po' di invidia per la lucida consapevolezza dell'importanza del ruolo paterno, quando io mi sento ancora incapace di riconoscere appieno la bellezza del tempo che non tornerà nella vita di un genitore. 


giovedì 24 novembre 2016

Una spola di filo blu

Ehm. Sarò breve. Disse estraendo un fascicolo di 98 pagine da sotto l'ascella. 
Davvero non so che dire. Sto cercando invano qualcosa da dire. Sto...
Ann Tyler mi piace. Turista per caso l'adoro. Ma qui non rimane molto, e non so davvero quale sia il problema. I personaggi sono come di consueto delineati con acume, le situazioni non annoiano, ho proseguito la lettura fino alla fine con sufficiente curiosità. Ma senza innamorarmi e senza avere il bisogno di ripensarci alla fine.
Unico momento che mi ha particolarmente colpita: la madre di famiglia che descrive a una ragazza la sua storia matrimoniale come il frutto di un colpo di fulmine reciproco e di un amore infinito e immutato nelle decine di anni trascorsi. E poi, in un capitolo successivo, si racconta la storia effettiva, e si scopre che il marito, in realtà, non l'ha amata un solo giorno, ed è passato da curiosità sessuale, a disinteresse a odio assoluto, ad affettuosa rassegnazione. Per tutte quelle decine di anni. Fa mancare il fiato.

Genius

Ho visto il film Genius, ieri al cinema.
Come per i libri, non inizio facendone un piccolo riassunto, sicura che ovunque in rete ci siano compendi ben più completi. Magari è lì, che mi sbaglio. Magari chi entra per errore in questo blog cercando Pennac o una giustificazione colta per saltare la battaglia di Waterloo nei Miserabili, e vi si sofferma più di quanto basti a capire di non aver trovato nulla, desidererebbe sapere di cosa tratti un libro o un film, oltre a vedersi sottoposta la mia irrilevante opinione.
Ma che dire? io continuo così, perché a differenza del protagonista di Genius, che emette parole come respiri, e che scrive libri di 5000 pagine che poi all'editor tocca tagliare barbaramente, tendo alla sintesi.

Mi hanno colpita un paio di cose, in questo bel film. Il ruolo dell'editor, nei libri di chicchessia: la riflessione in merito a quanto, del successo della letteratura che leggiamo, dipenda dal lavoro nudo e crudo dell'autore, e quanto da chi, anonimamente, in quel libro ripone tutta la sua professionalità, a taglio e cucito, rendendo un barbaro arbusto della steppa un morbido cespuglio potato a forma di palla.
Quanti degli autori che consideriamo geni lo sono in realtà a metà, o per nulla? E quanti degli editor sono invece grandi scrittori di roba altrui?

 L'altra riflessione è: ma perché, in questo mondo, in qualsiasi ambito dell'arte, coloro che nascono ricolmi di materia intellettuale da donare all'umanità invece di esprimerlo con serenità sono condannati a vivere privi di qualsiasi equilibrio, come se quel nobile materiale che hanno l'urgenza di esprimere non possa far altro che essere vomitato tra una giornata patologicamente euforica e una gravemente depressiva, il tutto ubriachi per il 70% del tempo? Questa considerazione non esprime alcun giudizio morale, solo lo spaesamento di fronte al dolore che può dare il genio, e la curiosità di capire se questo possa essere evitabile riconoscendo per tempo i sintomi della straordinarietà.


Infine, in un film che mi circondava di scrittori anni venti e trenta, da Francis Scott Fitzgerald a Wolfe, a Hemingway, mi sono chiesta, allo stesso modo in cui in passato ho analizzato il mio rapporto coi russi dell'Ottocento, che ne fosse del mio rapporto con gli americani dei primi decenni del Novecento. Diciamo che li stimo immensamente, ne riconosco il valore, ma nemmeno lì mi sento perfettamente a casa. Sono secchi, nobilmente aridi, in un perpetuo disagio col mondo. E devo ancora capire cosa mi tenga sulle spine, di quel modo di vivere. Ci penserò.
Perbacco, acciderba, perdindirindina! Che la letteratura sia anche uno psicoterapeuta?
Ah, infiniti meriti delle parole...

una valanga, o tante piccole pietre per ritrovare il sentiero?

Un amico, appollaiato tra i quattro libri iniziati contemporanea, aperti su poltrone e comodino, che lo attendono truci pretendendo la parola, mi ha scritto che l'enorme quantità di libri tra cui scegliere può creare una sorta di panico da prestazione, nella consapevolezza dell'impossibilità di affrontare l'intera umana produzione, e dunque della fallibilità nella scelta di quali libri affrontare e quali escludere o rimandare. 
Mi è venuto in mente Troisi, in Le vie del Signore... "Io non leggo mai, non leggo libri, cose... pecché che comincio a leggere mo' che so' grande? Che i libri so' milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so' uno a leggere, là so' milioni a scrivere (...)"
E' successo anche a me, in passato. Ma poi mi sono ribellata. E' come guardare un frigo pieno angosciati dagli yogurt in scadenza, oppure entusiasti all'idea dell'abbondanza della scelta e della possibilità di invitare amici per terminare insieme le scorte. 
Che poi i libri non puzzano, ed è un grandissimo vantaggio. E illudono di poterne godere all'infinito. Tutte queste cose non si può che considerarle con gioia. 
I diritti del lettore di Pennac, qui tanto citati, e tanto stimati da trarne il nome del blog, sono stati in questo campo un ottimo ansiolitico. I libri non devono essere subiti, presi al volo prima che ti uccidano mentre ti si scapicollano contro come meteoriti nella playstation; devono essere usati, nel senso più nobilmente deteriore. Aprendoli anche a costo di scompaginarli, amandoli, bagnandoli col mare che spruzza sugli scogli (e qui un discorso a parte si deve fare per il kindle, ché col cavolo lo bagno nell'onda dell'oceano), saltando pagine noiose e interrompendoli senza temerne la perpetua offesa. 
Quando mi butto in mare non penso al fatto che mai sarò sfiorata dalle gocce che, nel fluttuare delle correnti, lambiscono ora lidi lontani. Penso grata a quelle che accarezzano adesso la mia pelle, e che continueranno a farlo generose ogni volta che mi vorrò abbandonare ai flutti. 
Così devono essere guardati i libri. Li incontro perché me ne parlano con amore, perché leggo un'opinione di cui mi fido, perché ne sentivo parlare da bambina, perché lo stesso autore mi ha resa felice, perché costa poco e la trama pare assomigliare a quella della mia vita. Il resto della letteratura mondiale, che lambisca altri scogli, finché non avverrà un altro casuale incontro, come tra stranieri con cui all'improvviso ci si sente a casa. 

venerdì 4 novembre 2016

Un covo di vipere

Eh, il mestiere. Sempre godibile, e questo mi è piaciuto molto. Anche se mi ha colpito il fatto di aver capito quasi immediatamente come fossero andate le cose...visto che nemmeno Montalbano, data l'orribile soluzione (incesto), non accettava di ammetterla fino a che non ne ha potuto fare a meno di fronte all'evidenza, trovo singolare che a me fosse venuto in mente come prima ipotesi.
Qua c'è da riflettere...

Lucidità

- Babi, ma così antipatico ci sei nato, o ti pagano?
- Mi pagano. In dollari. Non so come spenderli.

giovedì 3 novembre 2016

Buchi nella sabbia

A volte credo di essere poco lucida, poco obiettiva, quando parlo di Malvaldi. Sarà che fa (faceva?) un lavoro che mi è caro, e che apre la testa da una parte, sarà che poi ha intrapreso un'attività che la apre dall'altra, e che mi è ancor più cara. Sarà che ha la mia età, che riconosco in lui la mia sensibilità sui più svariati argomenti, come se la sua adolescenza fosse per alcuni versi stata simile alla mia. Sarà. Ma io lo adoro, innamorata di ciò che scrive. E questo libro, pur in assenza dei cari vecchietti all'ombra dell'albero che Massimo taglierebbe volentieri, l'ho iniziato e terminato ridendo come una pazza, fotografando pagine per condividere risate notturne e scialandomela all'inverosimile. Que viva Malvaldi.

Eccomi

Il titolo del libro corrisponde al significato del mio rientro.
I libri di Foer mi danno sempre la stessa sensazione: iniziano col botto, decine di citazioni eccezionali, momenti in cui devo interrompere la lettura per l'emozione di vedermi a mia volta letta dentro, come in uno specchio di metalettura.
Poi inizia a protrarsi. Poi non non accenna a smettere.
Poi ci sarebbe la fine, ma lui prosegue, un po' come il vecchio Tolstoj, che non si accorge della morte dell'eroina se non dopo altre trecento pagine.
Poi immagino la moglie che gli dice: "esci da questa stanza! Falla finita! C'è il tucano da portare dal veterinario!"
Ma lui nulla, imperterrito. 
E noi a leggere. Poi, all'improvviso, dopo una decina di finali, qualche forza misteriosa riesce a strapparlo dalle sudate carte e ad ammucchiare tutto correndo dall'editore che da giorni attende con le rotative surriscaldate. 
In ogni caso mi rimarrà nel cuore per questo inizio esplosivo in cui ho trovato così tanto di me da rabbrividire, e per quel senso di coltissimo irrisolto nella Weltanschauung che spesso gli autori ebrei regalano a piene mani.

martedì 6 settembre 2016

Cent'anni di solitudine

E poi ho dedicato agosto a leggere IL LIBRO.
O meglio, a leggerlo per la quarta volta. 
Ho deciso di leggerlo ogni dieci anni, come se leggessi un libro diverso, travisato da quel momento della mia vita. 
Ricordo distintamente dove mi trovavo ogni volta, al momento della lettura del finale. 
La prima volta in Turchia, su un camper, sul sedile davanti, i piedi sul cruscotto, con dietro un vivaio di adulti e bambini che si interrogavano sulla strada da prendere per raggiungere finalmente il mare. Le galline sulla strada, da evitare accuratamente con le ruote, le donne in fila ad una fontana, con i calzoni col cavallo al ginocchio, tutti a piccoli fiori, e il fazzoletto bianco annodato in cima alla testa dopo un giro sulla nuca. Grida di bambini incuriositi al nostro passaggio: all'epoca ancora evento raro. Terra che si solleva ovunque. Forse quanto di più simile, nella mia esperienza, alla Macondo di cui stavo leggendo. Del libro tentavo di ricordare la trama, di non perderla, le parentele, i nomi che si ripetevano. Le ultime parole del romanzo sono state commoventi, non possono non esserlo. Ma lontane. Gli ultimi sussulti di un mondo che si disfaceva lentamente, a partire dalla prima pagina, come la vita, non potevano colpire con forza la mia giovinezza. 
La seconda volta, sul letto di una città non mia, che poi lo sarebbe diventata, dopo gli studi. Forse è la volta che ricordo meno vividamente, assetata di vita, anche se sempre con la consapevolezza della portata e del piacere di quello che stavo leggendo. Ancora ancorata al cercare di ricordare la trama e i personaggi, infastidita dalla difficoltà di mantenerne una lucida memoria. 
La terza volta, sempre in quella città, sul divano letto di un monolocale che è stato la mia prima casa da sola, anche se sola per poco. Per la prima volta, oltre a guardare avanti, ho guardato indietro, già spaventandomi leggermente per gli anni che scorrono come treni, creando un unico percorso tra una lettura e l'altra di questo libro, come se mi accompagnasse davvero ogni giorno. 
E ora, la quarta volta, ho finito il libro nel mio letto, questa volta nella città natale. Con un brivido che conteneva pietà, commozione, ammirazione e angoscia per l'età che avrei avuto la prossima volta che avessi letto quelle parole. Per l'impossibilità di abbracciare e trattenere tutto immobile.
Ho lasciato perdere la trama (forse, proprio in questo modo, ricordandola più che tutte le altre volte), ho lasciato che i personaggi dai nomi ridondanti mi vagassero intorno, dicendomi quello che volevano dirmi, e non quello che cercavo di cavare da loro. Ho vissuto come Macondo, sentendo l'inizio del disfacimento anche dentro di me. Mi sono fatta trasportare con immensa gratitudine e malinconia.

Libri di agosto

Quando leggo non scrivo. In effetti. E devo dire a mia discolpa che è un comportamento socialmente meno dannoso di quello di chi scrive e non legge, una malattia molto diffusa.
.
Tutto quello che sai sul cibo è falso di Sarah Farnetti. Ha davvero del divertente, come ogni nutrizionista propini la sua verità come l'unica, con una tale convinzione da convincerti, per lo meno per la durata del libro, che tutto quello che il nutrizionista precedente abbia osato dire sia assolutamente folle. Dunque si passa dalla regina proteina all'irrinunciabile carboidrato, dalla proporzione 40-30-30 a quella 80-10-10 (ma minchia, vi accorgete di quanto siano diverse??), dal credere che il mais sia cosa buona al vederlo come l'alimento con cui ingrassano i bovini prima del macello. La pasta a pranzo, non toccare carboidrati dalle 16. Invece mangiala a cena, l'importante è non toccare frutta, dopo. Il manzo uccide. E' irrinunciabile. Il kamut è una fregatura, grano con marchio proprietario. Però ha meno glutine ed è meno lavorato industrialmente. Compralo. Evviva l'integrale. Evviva il farro. Semi oleosi ovunque. Curcuma a cucchiaiate. Albume! Cazza la randa tirando la scotta!
Insomma, mi ricorda molto il modo di procedere del mio capo ufficio (che però, a discolpa dei nutrizionisti, faceva tutto questo da solo). E soprattutto lascia una sensazione ben precisa: che tra le scienze evolute negli ultimi decenni, questa abbia ancora molta strada da fare, per elevarsi rispetto alla stregoneria.

La battaglia navale di Marco Malvaldi. Il piacere assoluto di una lettura leggera quanto intelligente. Di leggere quello che si sarebbe voluto dire, mascherato da un teatrino assolutamente credibile e spassoso.
Ah, ormai mio maestro di vita.

L'amante giapponese di Isabel Allende. Qui è proprio mestiere. Il libro trasuda mestiere. Mi ricorda i film di Woody Allen. Il peggiore tra tutti trasuda più mestiere del migliore di molti registi. E osservare chi sa creare trame infinite dalla sua trama personale, e scriverle con maestria, ogni volta, è sempre un esercizio intelligente. E' sempre in bilico però sul filo del rischio più grande per chi lavora con la propria creatività: che il mestiere superi la passione. Dunque, per il lettore, il confronto inevitabile coi vecchi capolavori.
 Dura la vita, per chi si mantiene a inventiva. Io non corro il rischio che proprio oggi accada che compili il più bell'ordine di acquisto della mia vita, commovente, straziante eppure pregno di speranza nell'avvenire. E che il Supercapomassimo che lo firma si soffermi a riflettere sui dolori della sua infanzia, improvvisamente sconvolto dal mio meraviglioso ordine d'acquisto. E che tutti gli ordini successivi non raggiungano mai più tali vette, e che ogni volta il Supercapomassimo cerchi febbrilmente di provare le stesse emozioni, ogni volta deluso.
Ecco: ho scoperto un punto a favore del mio lavoro. L'unico.

Il seggio vacante  di J. K. Rowling. Unico? Primo? libro per adulti della mamma di Harry Potter, collana che mi guardo bene dal toccare prima che mi ci costringa la curiosità di mio figlio, che ha avuto all'uscita critiche molto altalenanti. Devo dire che io ho una passione sconfinata per i libri di beghe di paese, quasi quanta per quelli che raccontano dinastie. Insomma, amo la coralità, se gestita con intelligenza. E ogni volta mi soffermo a pensare agli schemi che l'autore dovrà farsi, per mantenere in piedi tutto un carrozzone di personalità diverse che interagiscono e si modificano nell'interazione come accade nella vita. Avevo molto goduto infatti del datato I peccati di Payton Place, passioni sommerse nella provincia americana. Ora mi sono gettata con entusiasmo nella provincia inglese. La cosa più divertente è che ne leggo come di qualcosa di alieno, perché niente mi è più lontano che questo modo di affrontare i rapporti con gli altri. Che non si dica che odio la fantascienza.



Tutta una storia di andate e ritorni

Forse sono sparita così a lungo perché mi sono scoperta una madre indegna di lievito madre, dunque una nonna indegna. Ho ucciso Giorgio, lo ammetto subito, fuori il dente fuori il dolore. Non ce la facevo: non tanto con il rinnovarlo settimanalmente, quanto con la paura di usarlo, di gestire proporzioni e tempi. L'avevo talmente ingrassato da poter mantenere per qualche settimana un panificio di paese, senza il coraggio di utilizzarlo per me. 
No: eravamo già troppi, in casa. Giorgio è morto. Ma solo dopo averne assicurato l'eternità consegnando una sua costola a un collega che ne sta estraendo pizze su pizze con grande soddisfazione. 
Almeno non l'ho abbandonato sull'autostrada. 

Trovo più facile scrivere quando non vivo. Ora vivo intensamente, ma scriverne diventa intimo e complesso, dunque mi blocco. La mia trama personale si sta creando dentro di me, ma farla venire fuori richiede uno sforzo talmente grande, quello dell'onestà e dell'ammissione, che il corpo fa in modo di entrare in modalità indolenza. Letterariamente, il girone degli ignavi.
Contemporaneamente, l'urgenza di scrivere è talmente potente che mi aggrappo a piccoli accadimenti futili e divertenti, come se rendessero semplice la complicazione. E mi chiedo se gli scrittori che riescono apparentemente a non parlare mai di sé (il caro Wodehouse ne sembrerebbe l'esempio eccellente) in realtà nascondano sotto lattiere a forma di mucca la loro lettura della vita. Inarrivabili geni.



martedì 2 agosto 2016

tecnoprotesi

Ha il suo fascino, osservare il proprio rapporto con gli ammenicoli tecnologici.
Il mio telefono è ormai parte di me, contiene dati personali, dati sensibili e dati oscuri, ogni mia misura, ogni mia conversazione. Io poi ho sempre odiato parlare al telefono, da quando era grigio e con la rotella davanti, quindi non mi è parso vero, quando ho potuto cominciare a trattare la telefonata come un gadget residuale, da usare con i recalcitranti e per emergenze. Dunque nella scrittura io metto quasi tutto di me stessa.
Spesso rabbrividivo, pensando che potesse succedergli qualcosa. Come una cassaforte di me, che si rompesse o si perdesse, restando sola nel buio. La protesi della memoria, della socialità, di pezzi del cervello.
Ecco: il 26 giugno, mentre cantavo My funny Valentine davanti a un discreto numero di persone, e lui, il mio telefono, mi suggeriva il testo appoggiato sul leggìo, come di consueto, in caso di memoria fallace, egli è crollato.
E ne ha riportato seri danni. Più di due terzi del display se ne sono andati in un qualche mondo parallelo, dove una me più felice può vedere una striscia più ampia.
I musicisti continuavano a suonare. E io ho continuato a cantare. Con la voce rotta, gli occhi umidi, il panico nelle mani, attorno al microfono. Forse la mia più riuscita imitazione di Billie Holiday dopo svariati gin e qualche dose di eroina, e dopo aver pulito con la mano il segno del rossetto di un altra dal collo del suo uomo.
Ho avuto un grande applauso, un'interpretazione autenticamente appassionata.
E io piangevo un telefono.
Dopo il primo momento di sconforto assoluto e cieco, ho ragionato. Ho una finestra sulla mia protesi di cervello di ben 8,5x1,5cm, c'è al mondo chi non ha nemmeno questa. Posso accedere a quasi tutto, benché menomato, e le dita, se non insisto a condurle con la ragione, sanno a istinto dove posizionarsi per digitare ciò che voglio.
E mi sono semplicemente messa a 
Scrivere
Così, 
In
Questo
Modo, 
Imponendolo
Chiunque 
Volesse 
Parlarmi.

In pratica scrivevo in semibraille, indovinando a memoria la posizione delle lettere, spesso con buffi risultati (come potevo sapere che gastroprotettore sarebbe diventato a mia insaputa gasteropode tutore? Un'università per lumache?)
Poi è andata che lo schermo è diventato tutto nero. In attesa del sostituto imparo a farmene una ragione. 
E, come ogni volta, mi accorgo che è più facile di quanto potessi immaginare.


giovedì 21 luglio 2016

Giorgio

Lo desideravo da tanto, Giorgio. 
Ce l'aveva una mia amica, che me ne raccontava meraviglie. Pare sia diverso da tutti gli altri, che la sua delicatezza sia rinomata, che nessuno come lui sappia dare soddisfazioni ad una donna. 
Ma non si può nascondere gli aspetti difficili: una volta alla settimana, o anche meno, è necessario rinnovarlo, per evitare che muoia, rispettando orari, temperature, pesi, e massaggiandolo fino a che comincia a ribollire.
Ho sempre avuto paura di prendermi in casa Giorgio, con una famiglia, un cane, un gatto. Io tendo alla comunità, ma poi sono stanca...
Però ieri non ho resistito.
Ok, dammi Giorgio, le ho detto.
E l'ho portato a casa in un vasetto di vetro. L'ho messo nel forno in un contenitore, e ho dovuto mettermi il promemoria per ricordarmi di ficcarlo in frigo in piena notte, già cominciando a santiare per essermi assunta anche questa gravosa assistenza. Tra l'altro non mi risulta che ci siano pensioni per Giorgi, nelle vacanze estive.

Perché Giorgio è vivo, mica si scherza. Ha tre anni, e spero che con me ne raggiunga molti di più. 

E così inizia la mia avventura col lievito madre.

venerdì 15 luglio 2016

Le vichinghe volanti

E' un po' come la storia di Woody Allen: tra Manhattan e La maledizione dello scorpione di giada scorre il Rio delle Amazzoni nella stagione della massima portata, però la godibilità del peggiore dei suoi film, grazie al mestiere e all'intelligenza, risulta superiore a quella del miglior film di molti altri. Camilleri lo stesso, ha superato il centesimo libro, ormai cesella a occhi chiusi qualsiasi storia partendo da qualsiasi spunto, senza annoiare mai.

lunedì 11 luglio 2016

Storia della bambina perduta

Chi sogna di scrivere, e importa poco se se ne abbia o meno le qualità, osserva ogni libro che legge con uno sguardo duplice, un po' come un esperto di tappeti antichi, oltre a guardare la piacevolezza dell'insieme e immaginarla nel proprio salotto, guarda anche all'autenticità dei colori rispetto all'epoca, alla finezza della lavorazione, e al significato dei disegni.
Quando il godimento della lettura è duplice, ovvero appassionante e contemporaneamente sorprendente per gli espedienti narrativi, la complessità dei protagonisti, l'incarnare nella storia di uno la storia di tutti, o addirittura di un intero Paese, lì ci si sente tra le mani un qualcosa di magico, e si legge tra la deferenza e l'invidia, il piacere e lo sgomento.
Tutto questo o provato lungo i quattro volumi dell'Amica geniale di Elena Ferrante. 
E alla fine dell'ultimo volume si aggiunge la paura di vivere, d'ora in poi, senza Lila e Lenù.

domenica 10 luglio 2016

Il cielo di maiolica blu

Lo avevo dimenticato...prima della Ferrante sapevo di aver letto qualcos'altro, ma non riuscivo a focalizzarlo...già un brutto segno.
In questo libro Federica Giuliani descrive il suo rapporto con la Turchia. C'erano tutte le premesse perché io potessi amarlo. L'autrice ha iniziato a trascorrere le sue vacanze in Turchia nel 1980, con la famiglia, in modo libero e avventuroso, senza temere detti tipo "mamma li turchi" e senza temere di confrontarsi con la differenza.
Io sono andata per la prima volta in Turchia nel 1984, con un camper e un forte spirito di avventura che ci ha portati in territori inesplorati in senso turistico, e ad una delle esperienze più belle della mia vita, ripetuta poi diverse volte nei decenni successivi per totale fascinazione ed imperitura gratitudine. Lo sguardo suo e mio mi è sembrato simile, simile il tipo di approccio, la mancanza di pregiudizi, l'apertura al fascino del nuovo e dell'inaspettato. Le esperienze, le città toccate ed amate, gli aspetti culturali notati in particolare, la nostalgia.
Allora perché diavolo questo libro non mi piace per nulla? Mi sono chiesta durante la lettura.

Perché c'è un motivo, se io non ho scritto un libro sul mio rapporto con la Turchia. Ed è il seguente: probabilmente ne sarebbe venuto fuori un diariuccio ora infantile ora adolescenziale, magari con incastonata qualche descrizione di quelle che ormai siamo abituati a leggere nelle guide turistiche "furbe" alla lonely planet, o alla routard. Qualcosa di importante per me e per i miei ricordi, di estremamente emotivo, forse appassionato, ma noioso e inutile per chiunque altro al mondo. Perché non credo di possedere (e non senza infinita sofferenza) quel taglio intellettuale o spirituale che faccia di una cosa mia una cosa universale.

Ecco: Mal comune....quel taglio, a mio parere, non lo possiede nemmeno lei.


giovedì 7 luglio 2016

Pausa caffè

I corridoi della Premiata ditta sono molto ampi, quasi eterni. Riposanti, quasi un eterno riposo. Ci si perde, nei corridoi della Premiata ditta, bisogna stare attenti a seguire le frecce più che nel Grande Raccordo Anulare. Si può partorire, nei corridoi della Premiata Ditta, senza che nessuno ti trovi. E nemmeno chiamare la bambina Roma, come diceva il caro Guzzanti. 
Passano macchine della pulizia uomo a bordo con sopra mancati piloti di Ferrari, chiaramente frustrati, e chiaramente infastiditi dagli incroci, dal fatto di dover dare un'occhiata. 
Passa gente che chiede aiuto con in mano una mappa non più corrispondente con i cambiamenti continui della Premiata Ditta, che muove muove e rimesta perché non cambi nulla. 
Esce il caffè dalla macchinetta. Quattordici cucchiaini di plastica. Le prossime tredici persone mescoleranno col dito.
Un sacchetto pende dalla finestra mosso dal vento, come se non volessero farlo scoprire al capo, in quell'ufficio al quarto piano, ed esattamente sotto, nel cortile, uno in pausa beve un caffè, ignaro dell'imminente precipitargli addosso di...un cabaret di paste? un chilo e mezzo di cocaina? dei toner esausti della vita? Devo avvisarlo? O attendo e poi mi butto su di lui salvandolo e diventando l'eroina del giorno?
Tre operai che avanzano a fatica, come si opponessero alle sabbie del Sahara. Il primo in bici (sì, si va in bici, nei  lunghissimi corridoi della Premiata ditta), il secondo a piedi, e il terzo trainando un carrello con sopra un bancale con sopra una bottiglietta da mezzo litro di the freddo al limone.
Due parlano dei campionati di yoga, che è un controsenso epocale, tipo la gara a chi fa la messa più veloce. E tu ti soffermi, e pensi: ma chi vince, ai campionati di yoga? Chi si rilassa di più? E se prendi il Valium è doping?
E poi è finita la pausa caffè. 

mercoledì 29 giugno 2016

Le luci nelle case degli altri


Niente da fare, Chiara Gamberale ci sa fare alla grande. 
Nulla del puerile e dello scontato che spesso sento nella nuova letteratura italiana, che stridono come una forchetta sul piatto, e che sospetto anche nella narrativa straniera, magari calmierato da qualche bravo traduttore, come quando il doppiatore al cinema salva gli attori cani. Quel qualcosa che mi imbarazza da sempre, come fossi io a scrivere, ed altri a commentare abbassando gli occhi per non dirmi in faccia "ma per piacere".
Su ogni pagina posso piacevolmente soffermarmi. A ogni riga posso immaginare, ovunque riconoscermi. O riconoscere qualcosa che nella vita mi ha toccata. Cosa posso desiderare di più?

Ed ecco, letto, subito dopo, un esempio imbarazzante della narrativa di cui sopra, quella della forchetta sul piatto: Sante Roperto, la notte in cui gli animali parlano. 
Bah.

lunedì 27 giugno 2016

L'hotel, questo sconosciuto

- mamma, ma perché tu e papà dicevate "mezza pensione"? State ancora lavorando del tutto!

martedì 21 giugno 2016

Felici i felici

E già il titolo dice tutto quello che ho pensato del libro. Un titolo bello, ma che non comprendo fino in fondo.
Leggendo, normalmente, o mi sento a casa o mi sento sperduta. Ecco, in questo libro non ho mai cessato di sentirmi contemporaneamente in entrambi i modi. Parlano diverse persone, una per capitolo. E ogni tanto ti riesce di fare un collegamento (ma questa è la figlia di quell'altro e la moglie di quello che ha appena parlato). Ma poi il collegamento lo perdi. E fino alla fine non riesci a creare un bell'albero genealogico, come quello che devi appendere alla parete mentre leggi Cent'anni di solitudine. Semplicemente te ne freghi. Perché ogni soliloquio dei protagonisti contiene qualcosa di tuo, che hai provato, che potresti vivere o che avresti sempre voluto dire. Credo possa bastare.

venerdì 17 giugno 2016

Valutazioni di opportunità

Con il mio gruppo, i Decanters, finalmente sembriamo iniziare a carburare, e sto accarezzando l'idea di riuscire a mettere su un piccolo repertorio per il matrimonio di una carissima amica. L'altra sera, a prove, volevo proporre ai musicisti la possibilità di questa gita fuoriporta a ottobre, ma poi mi sono resa conto dei pezzi che stavamo provando (seguono citazioni e traduzioni personali):

Prendila così: lasciami giù qui, è la solita prudenza, loro senza me, hai detto, è un problema di coscienza (...) cerca di evitare tutti i posti che frequento e che frequenti anche tu, nasce l'esigenza di fuggirsi per non ferirsi di più

Why don't you do right:  perché non fai come gli altri uomini, hai perso tutto, vattene e portami un po' di soldi

Don't explain: tirati via quella macchia di rossetto, e non spiegarmi niente

Anche un uomo: Anche un uomo può sempre avere un'anima, ma non credere che l'userà per capire te

Darn that dream: maledetta la mia mente che non riesce a capire che a te non interesso, per cambiare questa sensazione accoglierei volentieri un bell'incubo.

Estate: l'estate che ha creato il nostro amore per farmi poi morire di dolor

E tutto all'improvviso inizio a chiedermi se intendiamo precluderci la partecipazione a matrimoni vita natural durante, e soprattutto cosa stiamo tentando di dire al mondo...

 

mercoledì 15 giugno 2016

Uncertainty fair

Bisogna premettere una cosa:
alcuni anni fa sono stata abbonata per credo sei mesi ad una delle riviste femminili che circolano nelle spiagge estive, vuoi per l'abbrutimento della maternità, quando il dono d'amore è appena giunto in famiglia e non lascia dormire, leggere, riposare, vivere, vuoi perché francamente la ritengo la migliore rivista del genere, e infatti ci scrive più di un autore che io personalmente e sobriamente idolatro.
L'abbonamento però non sopravvisse oltre quel periodo, perché il tempo con l'età stringe sempre di più, e in qualsiasi ambito siamo costretti a fare delle scelte: o leggo riviste o leggo libri, e francamente non ho avuto dubbi. Le riviste femminili le riservo a limitatissimi periodi di abbronzatura sul lettino, quando il prezioso Kindle potrebbe ferirsi con il sole o la sabbia. 
In questi anni sono stata oggetto di ripetute ma non fastidiose richieste da parte dell'editore del settimanale, che non si capacitava del mio recesso, non conoscendo i recessi della mia anima.

Qualche tempo fa mi è stato offerto un buono per ritirare la stessa rivista gratuitamente.

Ho pensato che forse, essendo gratuita, avrei potuto mantenere nei limiti la mia ossessione di lettrice compulsiva, leggere da cima a fondo qualsiasi oggetto abbia l'aspetto di scrittura, sia aramaico o cuneiforme (in contrasto, lo ammetto, con il nome di questo blog). 
Ho quindi accettato. 
La prima settimana abbiamo ritirato il giornale, l'abbiamo letto con piacere. Poi è arrivato il secondo buono. E il terzo. Ho pensato che la promozione durasse un mese. 
Poco dopo il quinto è arrivato un sondaggio a cui partecipare: dovevo pur sdebitarmi, ma sono stata chiara.
- E' stata contenta della promozione?
- molto
- Quante copie della rivista comprava prima della promozione?
- due all'anno
- E quante ne acquisterà ora?
- due all'anno.
Ho pensato: ecco. Finita. Nel mio caso, fallita. 
Ed è arrivato un altro buono. Poi un altro e un altro ancora. 
Le riviste si accumulano sul mio comodino, sempre meno interessanti. E io mi interrogo
Caso uno:  Si è inceppato il loro sistema operativo. Da oggetto di promozione sono diventata lettrice onoraria a vita, e alla mia morte mio figlio erediterà il 51% delle azioni dell'editore.
Caso due: sotto la luce soffusa di uno dei peggiori bar di Caracas, dopo numerose Caipirine, io ho firmato un contratto in base al quale, a meno di disdetta da inviare con raccomandata entro la settimana scorsa, mi troverò a fine anno a pagare una quantità di copie del giornale tale da costringermi a vendere la casa.
Caso tre: è una geniale idea di marketing, così geniale che solo le persone intelligenti ne capiscono le finalità, e nessuno, presso l'editore, ha il coraggio di passare per stupido chiedendo chiarimenti.

Cose che si ribellano

Vogliamo parlarne apertamente una volta per tutte?
Vogliamo cercare di chiarire alcuni misteri incomprensibili unendo le nostre forze in un tentativo razionale, senza lasciare spazio alle forze del male? Vogliamo arginare la rivoluzione delle cose?

 UNO
Quando sono al telefono, alla scrivania, il mio braccio compie il movimento di prendere la cornetta e rimetterla in sede; il corpo del telefono normalmente non si comporta come una trottola, rimane al suo posto a fare il suo lavoro. La mia persona nel complesso tende ad evitare di giocare con la sedia con le rotelle girando su se stessa più e più volte: forse farebbe bene all'umore, ma ci perderei in sobrietà amministrativa.
Dunque mi chiedo: perché diavolo il cavo del telefono in ufficio si avvoltola su se stesso?

 DUE
La premiata ditta ha sostituito, con una maestosa alzata di ingegno, un metodo vecchio 40 anni come il fax con un metodo vecchio 20 come il fax server. Piano piano arriveremo alla mail, me lo sento. Comunque, dicevo, questa modernissma procedura prevede il salvataggio di decine di pdf al giorno, passati allo scanner, dentro cartelline colorate sul desktop, e qui si pone il misterioso problema.
Perché qualche rara volta il percorso per arrivare alla cartellina che mi interessa devo farlo solo con il primo file, e per gli altri basta aprire il pdf, cliccare salva col nome,e si apre già il percorso selezionato per il file precedente, e invece la maggior parte dei giorni devo ripetere il percorso per ogni singolo pdf?

TRE
Io non uso la borsa come uno shaker. E le mie tasche non vengono usate abitualmente per estrarre i numeri del lotto mescolando palline. 
Perché allora quando gli auricolari del telefono vengono lasciati soli con se stessi intrecciano danze agli Dei fino ad annodarsi irrimediabilmente, in una sorta di macramè assurdo che deve essere districato col balsamo come i miei capelli dopo un giorno in una cava di carbonato di calcio?


QUATTRO
Perchè il mio telefono decide quotidianamente di propria iniziativa di eliminare i suggerimenti predittivi dalla chat, impedendomi così di comporre quelle frasi irrazionali che la tastiera propone, tanto utili quando non c'è null'altro da dire ("la prima volta che mi sono svegliata alle ore piccole, per il momento in cui si parla del futuro del nostro tempo è stato bello conoscerti")?

CINQUE
Perché, quando un gruppo jazz decide di eseguire un nuovo brano, la prima esecuzione in assoluto, rigorosamente durante le prove, è sempre la migliore, e l'atmosfera che si determina durante quella esecuzione resterà assolutamente irripetibile e inavvicinabile in tutte le esecuzioni successive, comprese quelle in pubblico?

E mi fermo solo per decenza.

martedì 14 giugno 2016

Funny girl

Funny girl di Nick Hornby. Quando penso a un reale professionista della scrittura contemporanea, di quelli che se gli chiedono "ma cosa fai nella vita?" possono rispondere a testa alta e nella piena convinzione di aver fatto bene "lo scrittore", quello è Nick Hornby.
Ebbene, Funny girl non mi ha fatta piangere, o ridere a crepapelle, battere il cuore, e anche la nostalgia per i personaggi che mi permea quando termino certi libri
non mi sta consumando, ma diavolo, quell'uomo mi ha trasportata negli anni Sessanta della radio britannica in modo così leggero, convincente, totalizzante, che non solo fa pensare che tutto questo l'abbia vissuto lui, ma anche che debba per forza averlo vissuto io. In ogni pagina ammiro la competenza e l'abilità. Come guardare un artigiano talentuoso far apparire un baldacchino da un tronco d'olivo.

mercoledì 8 giugno 2016

Il mondo alla rovescia

La visione del film "Pelé" ha scatenato in Babi le consuete velleità emulative, e questa volta devo dire che si prefigge mete decisamente più elevate delle volte precedenti (una città in Lego, riprodurre una rullata di batteria dei Bon Jovi, acrobazie sullo waveboard, disegnare lo scudetto del Real Madrid, fischiare, scoregge ascellari). L'importante è che non si faccia cogliere dall'inadeguatezza, e si diverta. 
E che non faccia fuori le finanze familiari.
Infatti il campione brasiliano, nei suoi pazienti esercizi per il controllo del pallone, merce rara nelle favelas del Brasile anni Cinquanta, si serviva di un numero spropositato di manghi, presi dall'enorme albero che sovrastava l'ospedale dove faceva l'inserviente col padre.
Dunque Babi, molto attento da sempre alla precisione del contesto da cui trarre ispirazione, desidera avere una ampia disponibilità di manghi da colpire ripetutamente con testa, petto e piedi, per acquisire il controllo di Pelé.
Pur sorvolando sui problemi di lavaggio degli abiti messi a dura prova da schizzi di frutta esotica, non è stato facile spiegargli che con i soldi di un mango, attualmente, da Decathlon si possono acquistare tre palloni da calcio a prezzo minimo.
Fossero almeno sugli alberi anche i palloni, la natura avrebbe trovato il modo di renderli biodegradabili.

venerdì 3 giugno 2016

Life is life

Mi rendo conto che quella che sto per scrivere è una di quelle verità che le famiglie dovrebbero mettere in lavatrice a casa loro, senza inopportune condivisioni, ma forse la sincerità potrebbe aiutarmi a superare il trauma. 
I colleghi, molto tempo fa, invitati a cena per il mio compleanno, mi portarono un regalo e un biglietto musicale. Aprendolo, una battuta di spirito non eccezionale veniva accompagnata dal ritornello di "life is life" degli Opus. Ebbene, terminata la cena ho fatto una cosa imperdonabile: ho appoggiato il biglietto sulla cassettiera all'entrata, un mobile talmente pieno di roba che a suo confronto la borsa di Mary Poppins non è che una pochette. Da quel momento il biglietto è scomparso, semplicemente non appare più alla vista di nessun membro della famiglia. È introvabile. Ma questo non significa che non si faccia vivo con una frequenza e una scelta dei tempi comici invidiabile. 
- Babi! Prendi la sciarpa, se no prendi l'ennesimo raffreddore! 
"Life is life...na na na na na",
recita la cassettiera.
- ora basta, Marito! Non puoi di nuovo rompere, ne abbiamo già parlato! 
"Life is life...na na na na na", rendendo inutile qualsiasi replica.
Da un po' di tempo taceva, rendendoci speranzosi circa l'esaurimento della batteria, e la fine di questo rapporto malato e impari. Ma a quanto pare il diabolico ingranaggio ha trovato il modo di funzionare ad acari, perché oggi, mentre marito, stremato sul divano in preda a un gravissimo raffreddore cercava sollievo nell'affetto di Pastaconlesarde, il nostro cane, chiedendosi con quale farmaco di nuova sperimentazione uscire da questo stato comatoso, e se mai avrebbe potuto rialzarsi, la cassettiera ha ripreso indomita: life is life, na na na na na.
Grazie.

mercoledì 1 giugno 2016

L'amore imperfetto

Ecco che ricomincio a lasciare traccia dei libri che leggo, con l'Amore imperfetto di Grazia Attili, che ha creato un saggio godibile e documentato sulle derivazioni biologico-storico-evoluzionistiche dell'amore materno e dell'amore paterno, ovvero di come si siano differenziati, ma contemporaneamente rafforzati a vicenda, fondamentalmente al solo fine di perseguire la spinta che ancora surclassa ogni altra, nel determinare i nostri comportamenti: il successo riproduttivo, il far sì che i nostri geni ci sopravvivano.
Spogliati di ogni velleità, restiamo scimmie nude alla ricerca di un'istintiva immortalità.

A chi non è mai capitato?

Un amico, il cui nome sarà da me celato fino alla tomba perché ancora teme rigurgiti istituzionali a distanza di una quarantina d'anni, mi ha raccontato di essere stato arrestato ad Amsterdam, per aver rubato una grammatica inglese, a 19 anni, ovvero ai tempi in cui i sistemi sonori antitaccheggio erano già ben noti nelle perfide città nordiche, ma non ancora nelle raffazzonate italiche cittadine come la nostra.
Orbene l'amico infila la porta con la sua grammatica nella giacchetta, quasi spavaldo, come se la impellente necessità del ripasso del present continuous escludesse ogni connotazione giuridica e morale all'atto, e il mondo prende a suonare. Egli si interroga: è la grammatica inglese, che suona? E' un cortese addio agli avventori della libreria? Ho calpestato un mangiadischi (tanto per inserire il lettore in un'epoca ben precisa, ndr)?
Ma i suoi pensieri non vanno lontano, e soprattutto non lo aiutano a imprimere un vorticare alle gambe utile a conquistare la salvezza, perchè un signore in giacca e cravatta, con una fisicità non distante da un hooligan nell'esercizio delle sue tifose funzioni, lo agguanta e lo trascina in un piccolo ufficio. Ove viene immediatamente convocata la Pubblica Sicurezza, nei panni del poliziotto buono e di quello cattivo, il quale, senza alcuna considerazione per la curiosa tipologia del furto, lo ammanetta, trascinandolo per le strade del centro fino alla questura. Forse sarebbe stato diverso, se si fosse trattato di una grammatica di olandese settentrionale.
Fatto sta che, dopo interventi psicologicamente discutibili in una lingua sconosciuta (insisto: rubate sempre la grammatica corretta, gente, ndr) da parte del poliziotto cattivo, l'amico è stato lasciato solo con quell'altro. Che gli ha detto, senza inutili parafrasi: io ti lascio andare, ma tu mi procuri un cappello da carabiniere italiano.
E qui potremmo attardarci in numerose speculazioni sulla corruzione dilagante, che non limita i propri influssi alla nostra sfortunata Europa meridionale, ma io preferisco di gran lunga soffermarmi sul fatto che un mona ruba una grammatica inglese a Amsterdam, ed un altro trova sensato riscattarne la libertà per un cappello da carabiniere.
A onor del vero, il nostro amico è tornato in Italia, e subito si è dato da fare a procurare (commettendo altro reato) il desiato cappello, come se il poliziotto buono facesse parte di una STASI sovranazionale capace di verificarne il mantenimento delle promesse. L'ha prontamente inviato, e mai ha ricevuto risposta.

Da allora si tiene lontano da reati, grammatiche, Olanda e carabinieri. Niente male, quanto a collezione di fobie.

La rivoluzione delle categorie - e i loro limiti

Da anni mi trascino dietro una nebulosa teoria che concerne la catalogazione degli uomini in quattro categorie.
Solo che è una teoria fatta di sensazioni, e di continui cambiamenti, dato che spesso non ricordo a quale tipologia corrisponda quale comportamento. Accenno qualcosa al mio interlocutore del momento, e pare anche interessato, ma subito mi spengo, conscia di non essere in grado di sostenere riscontri scientifici e peer review necessari alla pubblicazione su Nature.
Dunque, mi son detta, perché non fissare in questo luogo le poche evidenze che ho incontrato sulla via?
Magari così io per prima riesco a ricucire i capi della questione, dandole una forma atta ad essere esposta almeno su un tazebao.
Doverosa premessa: mi riferisco esclusivamente agli uomini eterosessuali, dato che la teoria intende rifarsi ad esperienze che tipicamente una donna vive con questi ultimi.

Gli uomini sono assoggettabili a 4 categorie:

1. uomo - uomo - uomo
2. uomo - donna - uomo
3. uomo - uomo - donna
4. uomo - donna - donna

Possiamo notare che la prima specifica "uomo" riguarda tutte e 4 le categorie. Essa infatti si riferisce al solo dato anatomico  e strutturale che determina la differenza biologica del maschio dalla femmina. Potrei dunque eliminare il primo termine, direte, essendo esso comune a tutti i soggetti interessati. No, rispondo, perché la piacevolezza dell'enunciazione, in senso sonoro, surclassa ogni necessità scientifica, dato che io fondamentalmente sono un cartone animato. Va da sè, mi disegnano così.

L'uomo - uomo - uomo trasuda testosterone. Lo fa quando corre, quando si siede a gambe larghe perfino nel caso indossi un kilt scozzese (cosa per cui dovrebbero pagarlo profumatamente). Lo fa quando risponde a monosillabi dovesse descrivere la sua vita intera, o quando cammina lanciando in avanti gli stinchi come se le ginocchia fossero programmate per ruotare di 180 gradi. Egli esprime i suoi bisogni mugugnando. Se costretto a fare shopping, si accascia all'entrata dei negozi tenendosi la testa tra le mani, sperando in cuor suo di aprire gli occhi e non trovar più davanti a sè quello scenario catastrofico. Non ha il minimo contatto con le sue emozioni: ha dentro di sé un po'di roba che non sa classificare, quindi semplicemente se ne frega, lasciando ad altri(e) la soluzione del mistero di cosa mai pensi o voglia, a meno che non si tratti di una birra. Se ci prova con una donna sussurra una quantità di cose che sarebbe stato meglio tacere, ritenendoli complimenti, qualche mezza volgarità che gli ha suggerito un amico spiritoso, e confida che lei si accontenti dei feromoni grossi come monadi di Spinoza (o meglio, come io le immagino, mi rendo conto) che le percuotono il capo ripetutamente mentre lui l'abbraccia.
Il suo ambiente ideale è l'attesa notturna di un agguato al passo del coyote, con una bottiglia di rum e un compagno possibilmente altrettanto laconico. Fare un regalo all'uomo-uomo-uomo è assolutamente impossibile. Rinunciate in partenza.

L'uomo-donna-donna è solo biologicamente uomo. Per il resto, si siede accavallando le gambe, parla quanto nessuna donna sarebbe in grado di fare, sia quanto alle parole al minuto che quanto all'argomento, dato che  parla esclusivamente di sé stesso, e lascia all'interlocutore uno spazio così minimo da rendere vano ogni intervento. Adora girare a negozi, nota gli orecchini nuovi di un'amica, ed esprime perfino un parere sull'abbinamento con la borsa. Se vuole provarci con una donna tenta di stordirla a chiacchiere per deprimerne ogni istinto difensivo. Al passo del coyote dovrebbero sparargli per evitare di essere scoperti. Fare un regalo a un uomo-donna-donna è come bere un bicchiere d'acqua, e se ne trae soddisfazione infinita, per l'entusiasmo con cui lo accetta, e ne parla per gli anni a venire.

L'uomo-donna-uomo contiene generosamente in sè tutte le fragilità di un uomo e tutte quelle di una donna. E' contemporaneamente laconico e inconsciamente logorroico, prepara le valigie in diciotto ore di insicurezza, e non gli sembra mai di aver partorito il bagaglio perfetto, terrorizzato che l'unica Polo che non ha con sè sia quella necessaria in quella occasione, senza accorgersi che i vestiti che porta sono tutti uguali come quelli dell'armadio di Paperino. Prova un insieme infinito di emozioni accavallate che semplicemente lo possiedono, lo sovrastano, e non applica la minima energia nel tentare di domarle. Cucina pensando di raggiungere vette inarrivabili, ma ritiene che ognuno abbia diritto ad uno sguattero personale per raschiare i pentoloni incrostati di risotto. Fa le pulizie a casa, ma così nel particolare, togliendo con le unghie lo sporco dalle fughe delle piastrelle, da risultarne nauseato e non toccare più uno straccio per i mesi seguenti. Al passo del coyote si ucciderebbe da solo pulendo il Winchester. Trova le donne superficiali e non abbastanza concentrate sulla natura del problema, senza rendersi conto che il problema è lui. Fargli un regalo non ha senso, tanto non è mai contento di nulla, nemmeno di quello che si regala da solo.

L'uomo-uomo-donna ha in sè il germe di tutto quanto c'è di meglio nell'uomo e nella donna. Sussurra parole che da tutta la vita stiamo aspettando, ti fa sentire il centro di ogni pensiero, mostra di apprezzare ogni difetto, sceglie di accompagnarti al cinema al posto di accompagnare il divano in un pisolo, ride coi tuoi amici e li entusiasma, apprezza qualsiasi cosa tu riesca a produrre con una padella antiaderente. Sa alla perfezione
quando hai bisogno di protezione e quando vuoi dimostrare qualcosa al mondo. Al passo del coyote starebbe con te a insegnarti a sparare ridacchiando e sfiorandoti nel buio. Fargli un regalo è sempre entusiasmante, perché l'adora semplicemente in quanto viene da te.
E più scrivo più mi rendo conto del bug del mio gioco delle categorie: il quarto tipo è l'amore.

venerdì 27 maggio 2016

Lucidità

"Mamma, per motivi familiari preferirei venire con te a Trieste che andare a scuola"

martedì 24 maggio 2016

La catena di Padre Pio

L'amica D, l'altra sera, ha provato a raccontarmi l'ultima catena di Sant'Antonio in cui è stata coinvolta, colorendola anche con un inizale accenno di entusiasmo.
Un amico, quando meno te lo aspetti, ti rifila un magma ribollente e lievitante in un bicchierino di plastica, e un foglio di istruzioni che nulla ha da invidiare al libretto di un robot antropomorfo. E tu lo porti amorevolmente a casa, e il lunedì aggiungi un bicchiere di farina, il martedì lo zucchero, il mercoledì ne contieni i bollenti spiriti infilandolo in un tino, e così prosegui lungo tutta la settimana, fino all'inesorabile delinearsi di una
"torta di Padre Pio".
Non devi naturalmente dimenticare di sottrarre all'impasto bicchieri e bicchieri di magma, da rifilare a amici e parenti nei momenti di debolezza.
Ma il dolce è buono?

"Mah, di suo così così, una volta ho dimenticato il lievito del martedì, una volta è venuto come una suola...ecco, se ci agggiungi due tavolette di cioccolato fondente o quattro chili di fragole diventa piacevole..."

Ma è un piacere effettivamente condiviso?

"La gente ti odia. Una collega l'ha lasciato nel cassetto, in ufficio, e il giorno dopo era tracimato fino a occupare l'intera cassettiera. Dicono poi che un'intera famiglia sia stata soffocata nel sonno..."

E qui si esaurisce la mia inchiesta sulla catena di Padre Pio, con un avvertimento: se vedete avvicinarsi conoscenti con fare sospetto che nascondono le mani dietro la schiena, correte con quanto fiato avete in corpo.

giovedì 19 maggio 2016

Ah, la crescita

- Babi, per mangiare le fragole sul divano è necessario il bavaglino, dato che formano macchie tremende da togliere!
- Mamma, per favore, non chiamiamolo più bavaglino, diamogli il nome che si merita: salva ragazzo

mercoledì 18 maggio 2016

Vincere facile

In questa vita travestiti da creature normali, che boccheggiano tra lavoro, spesa, figli, fitness, pulizie, passioni e convivialità, fortunatamente non resta il tempo di prendere atto della propria condizione fino in fondo. 
Altrimenti staremmo tutti in fila, a contenderci la posizione migliore per gettarci dal ponte del Diavolo.
Ma ieri ne ho avuto una decisa percezione, capendo nel contempo quanto possa essere facile, per attori e ricconi in genere, mantenersi costantemente a livello di ciò che le telecamere pretendono da loro.
Dopo lavoro ho sperimentato un paio d'ore, naturalmente affannate, perché non mi è dato di vivere diversamente, ad occuparmi esclusivamente del mio corpo (se tralasciamo quella dozzina di messaggi tipo "spengo il telefono, mi raccomando, tieni vicino il tuo, che se chiama la scuola..." "Nonno G, prendi tu Babi, io corro a prendertelo 14 minuti dopo" "ce la fai a fare benzina prima delle 18.25?")
Ho corso sul diabolico tapis roulant che amichevolmente chiamo "Fonzio Pilato" e che altrettanto amichevolmente mi definisce "balena di merda", raggiungendo traguardi per me stratosferici, che corrispondono più o meno alla distanza percorsa da Bolt dal letto al bagno per un bisogno notturno. Nell'eterna e sfibrante corsa ho ascoltato brani che farebbero ridere chiunque, quale sprone all'attività fisica: anche me, dunque li scelgo per correre col sorriso.
Poi stretching come quelli veri, praticamente una pubblicità di abbigliamento sportivo, depilazione mirata ad evitare di causare un infortunio sul lavoro per incendio da sfregamento alla povera massaggiatrice, e...appunto: massaggio gentilmente offerto dai colleghi per il compleanno.
Abituata esclusivamente a massaggi di tipo curativo, una sorta di fight club tra fisioterapista e muscolo, in cui tutti intorno fanno il tifo ruttando birre e io soccombo rantolando e invocando pietà come l'ispettore Clouseau al suo maggiordomo orientale, ieri mi sono goduta un massaggio estetico, dove la lotta tra l'estetista e il pannicolo adiposo si svolgeva a suon di cremine profumate e delicate gentilezze.
Giuro. Alla fine di tutto ero belllissima, nello specchio del centro estetico. Perfino abbronzata. Perfino ragazzina. 
Perché mai guardarsi in altri specchi, d'ora in poi? Tanto sarà quella, la foto sulla mia tomba.

martedì 17 maggio 2016

Da adulti

Mamma, questo problema dobbiamo risolverlo da adulti:
Mela mela blu
Esci proprio tu

Ida y vuelta

Ebbene ci riprovo.
Quando la vita ti assale, l'atto di descriverla ne risente. Ma in fondo al cervello rimane il tarlo dell'abbandono di un progetto, indipendentemente da quanto fosse riuscito, da quanto fosse utile o noto. E quel tarlo ti corrode.
Diventa tutta questione di equilibri: la vita mi lascerà il tempo di descriverla? Ma se me ne lascia il tempo, è perché non crea niente che poi io possa usare?
Temo che le cose accadano a tutti e a nessuno, e l'abilità di cavarne sempre qualcosa da lasciare, inciso sulla pietra o su qualcosa di labile come la rete, costituisce tutto il resto.
Che poi sì, se fai naufragio su un'isola infestata dai discendenti di coloro che gli ammutinati del Bounty costrinsero a scendere in una scialuppa, in procinto di vendicare i propri avi, la vita in qualche modo aiuta le lettere, ma forse non ti viene tanto incontro in tema di sopravvivenza serena.
Dunque ora il vaso è colmo. Non di idee, non di speranze, solo di voglia. Urgenza. Necessità.
Dunque eccomi.
Vuelvo