lunedì 28 settembre 2009

Scusi, dov'è il Veneto?


Grigliata in montagna, con tanto di mucche frisone e brune alpine, panorami commoventi, fronde autunnali; mancavano solo le tombe cimbre.
Come ad ogni grigliata che si rispetti, il fuoco è stato preparato con considerevole ritardo sull’ambigua tabella di marcia della fame, ma la quantità di cibo ha ampiamente colmato la voragine tra il dire e il fare.
Avevamo però rimosso, nel viaggio di ritorno, lo spettro della segnaletica stradale. Decisi a rimanere su strade statali per percorrere un’astratta ipotenusa invece dei due lati di autostrada, ci siamo infilati nel profondo Veneto, dove i cartelli notoriamente si spostano, ridacchiano, riappaiono, si accoppiano, insomma, tutto fanno tranne che essere utili al viandante.
Treviso di là e Venezia di qua, e tu prosegui fiducioso. Più avanti: Venezia di qua e Padova di là. E Treviso? troppo tardi, rasa al suolo. Minuto di cordoglio. Fino al prossimo incrocio: Treviso riappare, ma ora si oppone a Bassano. Ma tu non venivi da lì? Se, stremato, ti azzardi a chiedere al passante, ti risponderà: vede di là il cartello per Galliera? bene, NON vada di là per andare a Galliera, ci mancherebbe! poco dopo c'è una viuzza dall’altra parte della strada, se la prende e gira sei volte a sinistra trova un paese nel quale può chiedere per Mottinello, due passi da Galliera.
Aggiungo solo che il Castorino, che ormai non è più castoro perché i denti sono diventati sei, è stato un angelo per le tre ore e quarantacinque di viaggio, aiutato da memorabili cori dei genitori: Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo!

venerdì 25 settembre 2009

Ho deciso. Augh.


Ebbene, ieri sera ho esercitato il terzo diritto del lettore: ho eliminato Eggers dal mio comodino a beneficio dei numeri primi di Giordano.
Quel libro mi attraeva a singoli paragrafi, ma mi risultava illeggibile nel complesso, un po' come leggere un libro di poesie tutto d'un fiato.
Avrei voluto averlo scritto io, ma non capivo perchè mai si dovrebbe volerlo leggere.
Le rare volte in cui mi succede di non riuscire a procedere con un romanzo, mi sento osservata con riprovazione dal comodino, come se un moralista bigotto vi soggiornasse in perpetuo, accoccolato intorno alla abat-jour all'unico fine di ricordarmi la mia vergogna. La sola visione della copertina risulta sempre più faticosa, ma questo disagio che cresce resta in parte coperto dal richiamo della razionalità. Io son qui. Quello è un libro che ho messo io lì. Dunque ci vuole un po' di tempo, ad associare il fastidio alla causa, e a liberarmene definitivamente.

Da qualche tempo, tra l'altro, continuo a svegliarmi all'improvviso nel mezzo del sonno, come per un rumore o un richiamo, e a trovarmi perfettamente sveglia a contare pezzi di notte.
Ma non credo che un libro deluso possa arrivare a tanto...Vero?

giovedì 24 settembre 2009

Avanzi


Vorrei ricordare in rete un album ormai credo quasi introvabile, e-bay esclusa, naturalmente: Sopravvoliamo di Rokko e i suoi fratelli, gruppo emerso nel 1992 nel festaiolo ambito dell’intramontabile trasmissione Avanzi, formato da Corrado guzzanti, Pier Francesco Loche, Stefano Masciarelli e Antonello Fassari.
Sopravvoliamo, al pari delle creature migliori della creatività umana, contiene pezzi di tale saggezza da essere passato da una Repubblica all’altra senza mostrare alcun segno del tempo, rendendo necessario il solo accorgimento di sostituire il nome di qualche politico, giornalista, regista con quello di qualche altro. E non in tutti i casi.

La canzone che dà titolo all’album era la sigla del programma, e continua ad essere attuale, esclusivamente perché la classe politica continua ad essere la stessa.
A testa bassa affronti il bus ogni mattina
ma è un mezzo pubblico pure la ghigliottina.
Io per pagarmi la marmitta catalitica
mi son dovuto vendere tutta la macchina.
Tanto sarà tutta corsia preferenziale
per collegare ministeri e trattoriole e
discoteche ed osterie e boutiques e birrerie.
"Onorevole che prende?”
"Salto il primo di secondo cosa c'è?"
Un giorno, ispirata da Michele Serra, mi chiesi quanto grande dovrebbe essere una maglietta per contenere tutto quello che vorremmo far sapere di noi per opporci pubblicamente a quello che secondo alcuni dovremmo pensare: non sogno di essere come il presidente del consiglio – non sogno di passare una notte a palazzo grazioli - e così via.
Ecco, Laico reggae, la mia canzone preferita, contiene un ottimo riassunto di quello che vorrei scrivere su una maglietta come manifesto:
Ma alla mia età
vivo bene anche queste contrarietà
guardo in alto e mi convinco che
Dio è laico come me...
è laico come me...
è laico come me...
Una strofa:
Genetica etica dimmi se passiamo la soglia
se clonando un uomo non si rischia di clonare la noia.
Ma come può evolversi l'uomo se fa l'impegato?
Imparando dei buoni motivi per darsi malato?
Nell'etica come per radersi ci vuole esercizio
la prima lama solleva il pelo la seconda il vizio.
E che dire dell’attualità di Dolore fisico, canzone ispirata dal Mixer di Minoli, ora completamente ripulito dalla sobria conduzione di Rai Storia delle manie sanguinarie che dimostrava apertamente conducendo la trasmissione Mixer:
(…) c’è una ragion per vivere e una per morire,
ma nel secondo caso mi dovete avvertire.
Tutto quello che non vi hanno detto,
tutto quello che non vi hanno fatto,
noi ve lo diciamo!
Noi ve lo facciamo!
Che splendidi dettagli dentro a un corpo umano!!
(…) E poi ancora i cani e i gatti spiaccicati,
scollati dall’asfalto saranno intervistati.
La tv di servizio, ti toglie lo sfizio,
la tv del dolore fa bene all’amore!!
Ma che ne so? Cosa mi prende?
E’ un’euforia! No no, togliete quelle bende!
Vogliamo vedere! Vogliamo sapere!
Qualcosa di più!!! Signore, dacci sempre sangue in tv!!
Cito infine, tralasciando altri pezzi pur degni di nota, l’immortale canzone “Non tradite l’amore”, che abbandona tematiche di attualità per parlare del solo sentimento eterno, che non è l’amore, bensì l’impronta che si vorrebbe lasciare di se stessi nell’amore, perpetuamente e indipendentemente dalle concrete vicende, indipendentemente dai sentimenti provati, solo per il fatto di essersi in qualche modo e in qualche entità (anche minima) donati all’altro, intimamente convinti di essere il bene più prezioso.
Possiamo ritenere di aver perso tempo per anni, con una persona, ma fatichiamo enormemente a sopportare che anche l’altro ammetta di aver perso tempo con noi..
(…)un amico mi racconta
Di aver visto in giro la mia vecchia Marie Helene
Lei che si legò alla porta per non farmi andare via
Teneva al collo un bimbo che non somigliava a me (porc’monn’)
(…)Sì lo so, sono io che vi ho lasciate
Ma vorrei che tutte voi continuaste a amarmi sempre come prima
Si lo so, ne cambio un paio all’anno
Ma vorrei esser per voi l’uomo che fuggì per sempre con l’amore
Sto con lei, ma sono fatti miei
Quindi gradirei che voi mi moriste sempre dietro come prima
Sì lo so, Ero io che vi tradivo
perché non vi ho amate maiMa vorrei che ancora ci piangeste su.
Augurare sinceramente all’altro un futuro radioso è probabilmente solo dei saggi e dei matti.
PS: ho citato a memoria per la scarsità di aiuti in rete, sicuramente ci sono degli errori.

mercoledì 23 settembre 2009

In attesa di riscontro


Dopo aver suonato una sorta di Hanon, il pianista virtuoso, tra i tasti F2 e F12 della tastiera al solo fine di cancellare i dati da una maschera e entrare nella funzione query, ho condiviso con la sola collega immersa come me nella completa ignoranza della Ragioneria l'oscuro concetto di riscontro di una fattura. La funzione, l'essenza mi sfuggono, ma ho capito che consiste nel sostituire delle N con delleY in certi posti chiave tra le righe, e confermare il tutto con decisione.

Rapporti tra azienda privata e pubblica amministrazione, impersonati da due rappresentanti e due impiegati in vena di confidenze:
- L’azienda è efficiente, ma nelle procedure più difficili può presentare dei problemi: E’ un’azienda americana, e questo è il tipico modello americano, che organizza organizza l’attività in modo da evitare accordi fraudolenti tra i dipendenti: ognuno è artefice di una piccola parte del procedimento, e nessuno sa quello che fa l’altro.
- Questo accade anche qui, ogni giorno. Ma non per modello aziendale: accade a caso.

martedì 22 settembre 2009

professionisti nel dilettantismo


Le nostre lezioni di tennis non sono finalizzate a Wimbledon, e uno spettatore attento può intuire questa verità dal fatto che non giochiamo sull’erba, e dalla quantità di palle che coprono il terreno, rendendo tra l’altro difficile sapere se giochiamo sull’erba.
Io lotto tutto il tempo con la memoria dell’infanzia, quando un istruttore all’antica deve avermi insegnato degli eleganti movimenti che ora pare non esistano più. E non mi vengano a dire che forse negli anni il ricordo si appanna. Tutto quel mulinare di racchette, il tendere in piede indietro fino a lasciarne solo la punta a contatto col pavimento, lo svitare il manico per tentare un rovescio sono i fondamentali del tennis.
Però, poiché vivo nel mio tempo nel progresso nella performance, tento continuamente di dare ascolto al maestro, e mi arcuo, mi piego, mi giro, mi rovescio; la palla il più delle volte non mi condivide.
Marito, invece, è libero da condizionamenti. Egli vuole buttare la palla di là, egli ci riuscirà, dovesse ingannare, mentire, rubare o uccidere.
L’effetto complessivo è curioso. Tanto da spingere la direzione a farci giocare in campi coperti senza accendere l’impianto di illuminazione per non turbare i soci.

lunedì 21 settembre 2009

perle e ciocche


Fantastico. un amico si chiedeva che problema avesse Berlusconi con un giro di Ford Escort, che, tra l'altro, a diciott'anni gli sembravano piuttosto vecchie.

In questi giorni festeggiamenti alcolici, come ogni anno, coinvolgono l'intera città dove abitiamo, con l'unica modifica dirompente imposta dal Comune, che consiste in un banchetto degli alcolisti anonimi per gli attimi di pentimento tra le decine che vendono vino. Nonna D, che notoriamente vive di notte, quando il silenzio la rilassa, e ronfa di giorno, quando nulla ha particolare rilievo, vive nel centro esatto dei festeggiamenti, e in questo periodo in cui tutti tendono a vivere di notte intorno a casa sua, le converrebbe convertirsi ad orari civili, resterebbe comunque l'unica.
Di notte le sue finestre sono avviluppate da un boato continuo, figlio di migliaia di persone, decine di orchestrine e numerosi rutti che salgono come da un tunnel stretti tra la case della via.
L'altra notte si è vista entrare in casa un caro amico che aveva accuratamente evitato l'anonima alcolisti, limitando la sua attività a censire le osterie del circondario. Ha riconosciuto la casa, è salito, e ha detto che non riusciva a trovare la sua automobile, non ricordandosi assolutamente dove l'avesse parcheggiata. Nonna D ne è stata estremamente felice, poichè limitare i pericoli ambulanti in giorni come questi è dovere civico di ogni cittadino, e gli ho offerto il letto degli ospiti.
La mattina dopo, cercandolo per informarsi sulle sue condizioni e sottoporlo a qualche test acrobatico per valutare se potesse mettersi alla guida, l'ha trovato accartocciato sul tavolo del salotto, che guardava la gatta nerobianca, dicendo: toh, un pinguinetto.

giovedì 17 settembre 2009

livelli di casino


Una casa munita di bebè è qualcosa di indescrivibile.
Il nanerottolo non è l’unico responsabile del tutto, perché i genitori vivono una specie di rassegnazione permanente, o meglio: all’inizio mettono via i giochi, chiudono lo sgabello contenitore da cui la bestiola ha estratto phon, diffusore, spazzolino, anitra wc e 5 stracci, rimettono via scatolette di tonno, vasi di maionese e crackers tirati fuori dalla dispensa, spengono la luce accesa a mezzogiorno, e puliscono perfino le gocce di bava da dentini in crescita che costellano il pavimento di ogni stanza, su cui di solito lo streghetto poi scivola rovinosamente cadendo supino e rimanendo immobile per poi ridere del tuo infarto.
Dopo un po’ ci si limita a spostare il pesce musicale col piede, cacciandolo sotto il divano con un numero imprecisato di mollette e il sellino del fuoristrada del piccolo, a sospirare davanti ai gatti di polvere che contendono i croccantini a Pantacollant, e a obbligare il nanetto alle ciabatte per evitare di incappare nei vetri sparsi del barattolo di maionese che questa volta non ce l’ha fatta.
E la domenica si passa a pulire, cacciati fuori con la scopa Marito e Castoro, per il moto di ribellione che di solito è più frequente nel lato femminile della casa, poiché negli anni ho constatato che la soglia di tolleranza del casino è nel maschio spostata in avanti come il termostato di una sauna, e se lui comincia a notare che forse si sta esagerando, è perché la compagna è scappata di casa da almeno sessanta giorni.
Da tutto questo la decisione: da ben due settimane ci stiamo godendo il lusso sfrenato di una persona che ci fa le pulizie a casa, il nostro nuovo nume tutelare indù, con tanto di bindi in mezzo alla fronte. Solo che ci possiamo permettere solo una visita a settimana, e ieri ho dovuto ammettere a me stessa che è un lusso totalmente inutile. Infatti, la felicità, per un giorno soltanto, di tornare a casa con gli occhi lucidi per il brillio del parquet e per la commozione di vedere un mobile ormai dimenticato sotto le carte, di trovare lenzuola fragranti come pagnotte e vetri che assolvono alla loro funzione non vale la spesa, perché la sera stessa è tutto come prima, né vale l’umiliazione: signora, ho dovuto fare sei ore. Era tanto, tanto sporco.

PS: mi perdonino i miei cinque lettori (Manzoni scherzava, io dico sul serio) per la totale mancanza di discussioni letterarie in questi giorni. Lo studio delle faccette come da post del 15 settembre, l’intrattenermi il resto del tempo con la digital classification, e anche, devo ammettere, lo scarso appeal che il libro sul comodino sta esercitando su di me (dovrei applicare il terzo diritto del lettore, ma il senso di colpa è difficile da tenere a bada) fanno sì che questo sia uno dei periodi meno librivori della mia vita, esattamente in concomitanza con la decisione di scriverne.

mercoledì 16 settembre 2009

la sagra delle effe


Spesso, come si dice dei cani, i programmi informatici di gestione che si usano negli uffici assomigliano ai loro padroni.
Sto imparando a usare un barbaro programma tutto a finestre bige che dovrebbe gestire anagrafiche, magazzini, ordini, giacenze, e sta dimostrando la stessa fantasia e la stessa inaffidabilità dell’attività che si svolge qui.
La maschera ora si cancella con f4, ora con f12, ora con f6. A volte risponde a una domanda se gli dai Invio, a volte con f9. Con f4 puoi fare le cose più varie: da inserire dati a uscire da tutto senza salvare; per scorrere le pagine a volte si usa pagina giù, ma a volte non ti sognare di farlo, potresti perdere le modifiche che hai inserito negli ultimi 4 giorni, e dunque usa le freccette. Se però esageri con le freccette, potresti trovarti dalla modalità ricerca a quella di inserimento, ma basta essere rapidi nel premere f9, seguito dalla combinazione f6 f4, e sei a posto, ha salvato la maschera che hai riempito per sbaglio di puntini l’altro ieri.

martedì 15 settembre 2009

maschere su faccette


Ho cinque giorni esatti per scoprire cosa sono le faccette - e non intendo quegli afidi di parentesi e due punti che infestano gli sms, intendo un innovativo sistema di classificazione – e altri cinque giorni per scriverne una relazione come se fossi sempre vissuta tra le faccette – e non intendo le buffe espressioni di mio figlio quando fa il ruffiano.
Tutto questo per fini che chiarirò più avanti, così da poter negare di averne mai parlato in caso di fallimento.

lunedì 14 settembre 2009

Uomo-uomo-postcoitum


Oggi ho avuto a che fare con una tipologia di collega indispensabile in ogni ufficio: c’era al lavoro che ho lasciato, e sono contenta di ritrovarlo qui. E’ il Post Coitum.
Il Post Coitum è di solito uomo, e si manifesta per lo più telefonicamente. Però egli non chiama mai, è sempre chiamato.
Quando tira su la cornetta, è come possedere un videotelefono: non si può fare a meno di immaginarlo tra le lenzuola, una sigaretta in bocca e l’amante (donna, uomo, cavallo che sia) a fianco, spossati per l’attività, benché i compagni di stanza giurino di non averlo mai visto allontanarsi dalla scrivania.
- mmmmmhhm
- pronto, buongiorno, sono X. Cercavo Y.
- ssono…io…(boccata di fumo negli occhi)
- avevo bisogno di sapere cosa le ha detto la ditta in ordine al preventivo..
- …
- signor Y?
- mmmh. Maaaaa- aaa. Ah. sì.
- dicevo, del preventivo.
- …mmhmh. Vediamo…sa..non ho le carte sottomano (e meno male). Sospiro. Le faccio…sapere (rumore di sforzo intellettuale). Arriveder..(la comunicazione si interrompe).
- si diverta, sig. Y. O ne coltivi l'illusione.

Terrore sui campi da tennis


Ho sempre preso in giro le mamme che diffidano di chiunque nel lasciare i loro nanetti per qualche meritato svago; anzi, quasi temevo che la stanchezza, e il bisogno, dopo mesi, di avere un momento per me, mi avrebbero fatto perdere ogni senso critico, facendomi abbandonare il Castoro anche alle cure di una banda armata, purchè mi promettessero di sospendere momentaneamente le azioni più spericolate.
Io e Marito (così chiamava il marito una nostra vicina, e ci ha sempre divertito) abbiamo deciso di chiamare una babysitter per andare insieme a giocare a tennis, fingendo di essere morosi spensierati. Abbiamo scelto spavaldamente, senza nemmeno un colloquio da Mrs. Doubtfire, la cognata di una di cui sapevamo che era stata affidabile con l’amica dell’amica - l’affidabilità è notoriamente una qualità transitiva tra affini fino al terzo grado – e le abbiamo dato appuntamento così, senza preliminari, senza reciproci complimenti.
Ebbene: entrambi abbiamo passato silenziosamente una settimana d’inferno, confessandocelo solo dopo, pur di ostentare sicumera l’uno con l’altra.
Immaginavo furgoncini appostati due vie più in là, pronti a accogliere mio figlio appena noi avessimo svoltato l’angolo, per introdurlo in un traffico di bambini, organi, capelli per parrucche. Ipotizzavo due ore di sottoposizione a tali traumi che a undici anni il Castoro si sarebbe già strafatto di polvere d’angelo, o sarebbe stato assoldato da qualche gruppo pop-melodico a Milano Marittima.
Insomma, tutto, immaginavo, meno che ritrovarlo seduto sul pavimento, la bocca piena di biscotti e l’aria ridanciana, a agitare nell’aria il suo camion – nellavecchiafattoria.
Ci sono momenti, nella vita, di sollievo impagabile, pur con i muscoli annodati dall’attività fisica dopo lunghi mesi di immobilità, salvo il solleva-bebè.
Ciò non toglie che ora io stia iniziando la settimana riflettendo sulla furbizia della babysitter, che ha rimandato al secondo appuntamento le sue losche trame per entrare con comodo nel cuore di questa ingenua famiglia.

giovedì 10 settembre 2009

Amore di ONU


Vorrei spezzare una lancia a favore dei traduttori automatici in internet. Pochi ne rimangono soddisfatti, ma nessuno li ha realmente capiti. Essi non si limitano ad una spoglia attività di traduzione: per quello sarebbe sufficiente un umano qualsiasi. Essi fanno poesia. Essi ascoltano il canto delle parole e lo fanno proprio, con risultati emotivamente forti.
Sconsiglio infatti ai cuori deboli la lettura della traduzione automatica di brani della immortale ONE degli U2.

Did I disappoint you?
Or leave a bad taste in your mouth?
You act like you never had love
And you want me to go without

Deluso di ho del Ti?
L’amaro di rimasto del è del Ti della o in bocca?
Il comporti del Ti viene amata di stata di mai di fossi del Se non
Faccia del Ne di io del che di vuoi di e un meno

Have you come here for forgiveness
Have you come tor raise the dead
Havew you come here to play jesus
To the lepers in your head

Venuta di sei un perdono del chiedere?
Venuta sei un riportare in morto del è del che del ciò di vita?
Il qui di venuta di sei per il comportarti viene Gesù?
Testa di tua di nella del che pensi di avere di lebbrosi del verso i?

You say
One love
One life
When its one need
In the night
Its one love
We get to share it
It leaves you baby
If you dont care for it

Dici del Tu
Amore di ONU
Vita di una
Bisogno solo del è ONU di quando
Notte di nella
Amore del è ONU
Condividere di dobbiamo del che
Lascia del Ti del che
Del Se di tu preoccupi del Ne del te non

mercoledì 9 settembre 2009

Scusate il ritardo


Oggi ho avuto notizia certa che in un grande ospedale del Nord Est si usano correntemente sanguisughe per terapie di salasso, (le ultime sono state acquistate a18,9 € l’una: ma le pescano immergendosi nel Rio delle Amazzoni muniti solo di mutande di lamiera?)
Visto il clima da rievocazione storica, mi chiedo perché si ostinino ad usare anestetizzanti per amputare gli arti, invece di una sana bottiglia di whiskey come ai bei tempi.

Allo spaccio


Ieri ho accompagnato mio padre, nonno G, a comprare una macchina nuova.
Mio padre è impermeabile alle derive del capitalismo, refrattario alle sue lusinghe. Possiede due paia di jeans, una da fuori e una da casa; quando quelli da casa diventano da raccolta differenziata, quelli da fuori diventano da casa e ne vengono acquistati degli altri da fuori. E’ un modo come un altro per non perdersi nel proprio guardaroba. Quando faceva il militare, apprezzava molto la divisa, non certo per ciò che essa rappresenta, bensì esclusivamente perché elimina la necessità di sprecare tempo per decidersi cosa mettersi. Tra l’altro, tra due paia di jeans che già possiedono un loro criterio, essendo denominati “da casa” e “da fuori”. Insomma, non è un tipo che saprebbe cosa fare di una cabina-armadio. A questo si aggiunge che nonno G. in realtà non vorrebbe cambiare auto, è estremamente affezionato alla sua vecchietta, ma una serie di concause lo porta a doversene separare.
Il venditore di auto, però, non era preparato.
O meglio, il primo venditore non ha dovuto nemmeno conoscerlo. Avevamo un appuntamento in una di quelle concessionarie tutte linde, come appartamenti da catalogo, che al posto di poltroncine e tavolini tengono sui tappeti auto e camioncini. L’appuntamento era alle due e mezza. Alle tre meno un quarto, quando il rappresentante ancora non tornava dal pranzo, nonno G ha deciso che aveva aspettato abbastanza, che se un venditore vuole vendere è in anticipo, che deve arrivare, e che perdere tempo in questo modo era enormemente più cretino che mangiare un gelato.
Sono quindi riuscita a trascinarlo in una concessionaria più amichevole, nonché meno cara, e il venditore ha dovuto prendere atto che esiste ancora qualcuno che cerca di ottenere il modello base-base, senza alzacristalli elettrico, senza telecomando, senza fasce laterali paracolpi, senza servosterzo. E scegliendo tra due colori, bianco-bianco e giallo-ottimista (non mi dilungo tra i vari viola-monello e rosso-demente che propone la casa madre, roba da brividi). Abbiamo scoperto che per ottenere una macchina di questo tipo il tempo necessario è infinitamente superiore a quello che serve per farsi consegnare una macchina superaccessoriata. Immagino che tengano in magazzino alcune auto da spogliare del superfluo. Speriamo non si facciano prendere dall’entusiasmo e levino anche il cambio.

martedì 8 settembre 2009

non tutte le scelte



Voglio indurre alla riflessione su questa giornata consigliando a me stessa, visto il numero di lettori del blog, di rivedere il film Tutti a casa di Luigi Comencini, il cui finale, sempre commovente, mi rende orgogliosa della scelta di coloro che hanno ridato dignità a questo Paese, e mi fa tenere bene a mente che non tutte le scelte che si possono compiere nella vita hanno lo stesso valore.

E ne approfitto per pubblicare un discorso che ho ascoltato con commozione nel giorno della Giornata della memoria, voluta con la cosiddetta legge Colombo – De Luca, approvata dal Parlamento il 20 luglio del 2000, discorso che rimane anonimo ma la cui pubblicazione qui è autorizzata dall'autore.

Secondo uno storico ebreo, David Bidussa, in un libro pubblicato in questi giorni, la giornata, progettata come commemorazione pubblica, potrebbe essere destinata a consumarsi nel tempo, come tutte le commemorazioni, come quella del 4 novembre, e forse anche quella del 25 aprile, una volta che i testimoni non ci siano più. E identifica questo rischio col rapporto squilibrato che esiste tra memoria e storia.
Cioè si celebra come fatto etico la memoria del massacro, senza ricostruirne la storia.
E la prova ne è che, se sul giorno della memoria esiste una unanimità evidente, in tutti i restanti giorni dell’anno impera nei media il revisionismo storico più sfacciato, che per esempio tende a fare dell’Italia delle leggi razziali un paese senza responsabilità, che tende a spostare il momento discriminante all’8 settembre 1943, alla “morte della patria”, quando inizia la deportazione. Un evento, quello della deportazione, che sarebbe avvenuto senza responsabilità italiana, perché viene attribuito al tedesco occupatore, quindi un evento estraneo allo “spirito italiano”, al mito del bravo italiano.
Non era questa la volontà dei presentatori della legge. Nella seduta del 27 marzo 2000, Furio Colombo così si espresse, riferendosi alle leggi razziali: Esse furono “un delitto culturale, vale a dire un delitto che la cultura ha compiuto contro se stessa: la cultura di scienziati o sedicenti tali, la cultura di accademici o di persone che comunque rappresentavano l’Italia ed avevano microfoni aperti, avevano scolaresche e studenti… Ricordo l’ispettore della razza che arrivava nelle classi per misurare i volti, crani e profili dei bambini. L’ispettore della razza è esistito e ha riguardato un evento della vita italiana: è un fatto che è accaduto nel nostro paese… In quest’aula, in questa stessa aula in cui stiamo parlando, anche dal banco in cui sto parlando io in questo momento, qualcuno si è levato in piedi, gridando, inneggiando alle leggi razziali e alla loro difesa. E 351 su 351 hanno detto “sì” con furore, passione e con un grande applauso…”.

È facile ricordare la Shoah, male assoluto, come fatto metafisico, astratto, attribuendolo sostanzialmente agli “altri”.
Non c’è memoria vera senza storia; la memoria, in questo caso, è vuota celebrazione se non si vuole indagare come, per quanto ci riguarda, la società italiana reagì alle leggi razziali, perché sulle vetrine dei negozi apparvero impunemente scritte antisemite, perché gli speculatori, senza vergogna, fecero incetta dei beni espropriati agli ebrei, perché con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, quando il partito fascista fu dichiarato fuori legge e le sue sedi chiuse, la monarchia e Badoglio si guardarono bene dal dichiarare decadute quelle leggi vergognose.
E’ questo mettere in discussione il nostro passato culturale e politico che la memoria pubblica non vuole fare ( e si potrebbero aggiungere i crimini perpetrati negli anni Trenta durante la riconquista della Libia e l’occupazione dell’Etiopia, con le stragi connesse e l’uso di iprite e fosgene, e si potrebbe aggiungere la deportazione di sloveni e croati nei tanti Lager in Italia). Non lo si vuole fare perché porterebbe a evidenti conclusioni: altro che “8 settembre morte della patria”! L’8 settembre 1943 è la patria che rinasce, attraverso il sacrificio dei caduti della resistenza, dei deportati, degli internati militari che dissero “no” agli inviati della repubblica sociale, dei volontari del Corpo italiano di liberazione che risalirono la penisola insieme agli alleati, di quanti protessero, rivestirono, nutrirono, nascosero: fossero ebrei, soldati sfuggiti al disarmo, ex prigionieri alleati in fuga.
Era il segno, quell’8 settembre, che la coscienza individuale stava rinascendo, che era venuto il momento di scegliere non secondo la convenienza, ma in nome dell’umanità, contro il fascismo che aveva umiliato e disprezzato la persona, contro il nazismo che con scellerata prepotenza aveva ridotto gli esseri umani a numero, a nulla, nella nebbia e nella notte della disumanità. Non sono cose di poco conto, queste! Questo relegare la Shoah come fatto estremo, da considerare con orrore ma che sostanzialmente non ci riguarda, ha delle analogie con i frequenti attacchi alla Resistenza a cui si rifiuta il merito di aver generato l’Italia repubblicana, mentre contemporaneamente si considera con bonomia il fascismo (“che mandava gli oppositori in vacanza”, per intenderci).
La tecnica dell’attuale revisionismo passa attraverso la sacralizzazione di fatti storici che si scelgono come esemplari (Shoah, foibe, gulag, la persecuzione dei “vinti”), contenuti in un passato storico incerto, generalmente grigio, nel quale tutto si uniforma.
Così si liquida la storia.
Ma un passato incerto, senza scelte che abbiano un valore di principi da difendere e su cui costruire, significa un futuro incerto, significa incapacità di identificare valori forti che guidino la politica e che coinvolgano nuove generazioni. Ne va quindi del nostro futuro.

Contemplando la rugiada del mattino



Devo dire che io mi ritenevo una dal risveglio veloce. Se a qualcuno veniva in mente di telefonarmi nel mezzo della notte, alla cornetta risultavo la segretaria perfetta, al lavoro da ore e con la mano sul telefono. Lucida, competente, puntuale. Ciò non escludeva che, chiusa la comunicazione, vomitassi i resti della cena per lo spavento, ma nella solitudine del mio bagno. Nessuno doveva sapere.
Ora, questi 17 mesi di super allenamento nell’arte dei risvegli improvvisi e dell’immediata soddisfazione di bisogni primari altrui, invece di accrescere la mia professionalità, mi stanno rendendo uno di quegli esseri letargici che rotolano dal letto proferendo parole irripetibili, balbettano appena per qualche ora, sollevano completamente le palpebre solo a metà pomeriggio, e non riescono a rispondere nemmeno a quiz di semplici serie numeriche.
Si balza dal letto alle 6.10, qualche volta con il gentile aiuto della sveglia, che si sintonizza da sola su balli lisci stile balera perché li ritiene il massimo dello spasso; più spesso grazie ad urla sovraumane del Castoro di là, il cui umore varia tra aahaharghghueeeue e il più simpatico: mamma? Papà? Nonno? Pappa? Latte? Nonna? Pitta? Cacca? Calla? – insomma, una sorta di ripasso linguistico in vista della dura giornata di lavoro.
Se il risveglio è aiutato dalla sveglia, marito e moglie, muniti di 2 provvidenziali bagni in affitto, godono del lusso di scaraventarsi nelle rispettive docce, sempre a turno, perché il Castoro potrebbe stare in silenzio per organizzare l’esilarante scherzetto di chiamare a gran voce due genitori bagnati e carenti di latte caldo. Se invece il ragazzo anticipa la sveglia, niente da fare. Sarà per domani anche lavarsi seriamente.

lunedì 7 settembre 2009

Viaggi nella mente, nel paranormale e a Verona


Leggo solo burocratiche comunicazioni, tra l’altro scritte da me e immediatamente disconosciute nello spirito, e il libro sul comodino, benché sommamente godibile, arranca come De Niro tra le cascate di Mission, ma senza colonna sonora.
Lascio dunque grata traccia della sola bancarella di libri usati che nella vita io abbia trovato munita di un qualche senso: nella gran parte dei casi bisogna immergersi in cassoni di carta da macero per trovare l’unico gioiello; in questo caso, in gita a Verona, ovunque guardassi trovavo una desiderata aggiunta alla pila di libri che stringevo tra le braccia, terrorizzata di vedermi sottrarre il bottino da un passante, anche se nel mondo reale questo accade solo coi vestiti in saldo.
Me ne sono andata con due Wodehouse, un Eggers, una Pippi Calzelunghe per tirar su un figlio femminista, una avvincente storia dell’eterna guerra israelo-palestinese, qualche altro volume che non ricordo e il Viaggio nel mondo del paranormale che Piero Angela aveva scritto negli anni ’70, il tutto per 2 € a libro.
Di Angela avevo letto da poco Da zero a tre anni, e ne avevo ricevato un costante stato di frustrazione, perché mio figlio si trova proprio in mezzo al periodo in cui, secondo la ricerca, deve ricevere stimoli costanti e adeguati per tentare di sviluppare una parte decente delle infinite potenzialità del suo cervello. Mi sono messa a girare per la casa eliminando tutti gli oggetti per lui dannosi per evitare di coprirlo di divieti, e riempiendo armadi e nicchie di roba palpabile, annusabile, utilizzabili senza pericoli. Sembravo una pazza scatenata, finché è arrivato lentamente l’oblio che il mio cervello riserva fondamentalmente a tutto quello che gli passa davanti, e che in questo caso aspettavo ardentemente per potermi riposare, finalmente di nuovo ignara di crescere un figlio potenzialmente imbecille.
Mi sono dedicata al viaggio nel paranormale con relativa tranquillità, perché non possiedo tavolini da seduta spiritica di cui liberarmi, né mi sforzo particolarmente a piegare cucchiai; la mia pratica si limita a guardare Troisi che parla al vaso di fiori o alla lampada: vieni accà, su, a te non costa niente, a me mi fai ricco!
Però ti fa riflettere: chi ci crede fa riferimento a fatti che vengono dati incontrovertibilmente per accaduti, universalmente condivisi e rimasti senza spiegazione. Se ti vengono elencati, tu, che essenzialmente te ne freghi, non hai i mezzi per contraddirli, sospiri, emetti qualche onomatopeico mah, boff, mmgmgh, e tiri dritto, lasciandoli nel loro fanatismo. Ebbene: non esiste un solo caso, nella storia, di evento paranormale che non sia stato riprodotto da illusionisti di professione o che sia stato ripetuto con successo con controlli più stringenti. Ora so come imbarcarmi in violente discussioni, se mai lo desidererò.

venerdì 4 settembre 2009

Routine


“Venga da me, devo parlarle”, dice il Kapo al telefono. Poi mette giù, come fanno nelle soap opera, senza salutare e senza dirmi caritatevolmente su che cavolo di pratica intenda disquisire.
Do’h.
Questo suono rappresenta l’apoteosi del terrore, la scalata dell’angoscia, la concretizzazione dell’incubo. La sensazione nelle viscere ricorda quella che si prova all’università, dopo aver sentito chiamare il proprio nome, mentre si scosta la sedia dalla scrivania e ci si siede su un mucchietto di spine, e si attende la prima domanda, dalla quale pare che dipenda l’intera propria esistenza. Poi, è la solita scena. Chiede il perché di questo e di quello con fare minaccioso, non attende risposta, urla, finalmente capisce le spiegazioni sempre più balbettate, però non intende recedere dalla sua posizione, cerca, frugando con gli occhi tra i bruttissimi quadri appesi alle pareti, qualche cavillo che giustifichi l’esplosione, e trova il modo di far riscrivere il documento, decreto, lettera, di cui si parlava, incurante delle decine di alberi sacrificati ai suoi sfoghi. Immagino la scena, nella foresta amazzonica: ”il Kapo ha parlato, vai di sega”.
Dovrei sapere che va sempre così, tanto più quando il Kapo è stato ripreso dai kapi suoi, e deve sfogarsi con il rodato sistema “debole coi forti e forte coi deboli”. Eppure spreco numerosi neuroni e diffuse connessioni neurologiche per disperarmi prima, e sentirmi umiliata dopo. I colleghi hanno trovato un proprio modo di vivere tutto questo: chi minacciando di ricorrere ad avvocati, e viene di conseguenza lasciato in pace, chi spostando il cervello dall’abituale posizione tra le orecchie (per metterlo dove, non è dato sapere), per permettere alle urla di entrare di qua ed uscire di là senza ostacoli, chi passando la gran parte del suo tempo a blandire il kapo, ridacchiare col kapo, soffrire con la testa del kapo sulla spalla. Devo scoprire quale modalità mi assomigli di più.
Forse skappare.

giovedì 3 settembre 2009

Remar tra vita e libri

Oggi, mentre alle sei del mattino azionavo freneticamente il pesce di plastica di mio figlio, che ci perfora le orecchie con la melodia barbaramente modificata di Braccio di Ferro da circa 15 mesi, e che ha come passatempo principale quello di infilarsi tra i cuscini del divano, o sotto il letto, per poi suonare a tradimento nei momenti meno adatti – dicevo, mentre lo azionavo per vedere se una notte sotto la pioggia in terrazzo avesse finalmente fiaccato le sue ripetitive iniziative sonore, la gatta mi ha guardata come si guarda una pazza. Una pazza completa. E mi sono molto preoccupata. C’è da dire che la gatta, che chiamerò Pantacollant per tutelare la sua notoria riservatezza, ultimamente è in crisi. Figlia adottiva felice e coccolata, si è trovata all’improvviso inseguita per tutta la casa da un’urlante carro armato poco più alto di lei ma estremamente più rumoroso, che le rovescia addosso i divieti che gli vengono imposti, gridando no! No! Nooo! a qualsiasi suo movimento e tentando di accarezzarla con la delicatezza di una betoniera. Forse il suo sguardo era di complessivo rimprovero, di totale incomprensione per la virata della nostra vita, non riguardava il mio insano rapporto con il pesce di plastica.

Non so esattamente quando, ma ho finito Tom Jones di Fielding. Il ‘700 ha una magnifica abitudine di umanità, di non condannare le cattive azioni di poca importanza. Tom è pieno di difetti, assolutamente realistici e piuttosto fastidiosi, ha una straordinaria capacità di mettersi nei guai, ma le sue sono azioni che danneggiano lui e lui solo, benché fortemente condannate dalla gran parte degli ottusi personaggi che lo circondano. Fielding, invece, ne descrive le debolezze, dando però loro un peso molto inferiore a quello delle azioni realmente cattive che vengono compiute nel romanzo, quelle che fanno veramente male agli altri, quelle spinte da avidità, crudeltà, bassezza d’animo.
Ancora oggi sembra universalmente più grave avere una promiscua vita sessuale che far soldi e mantenerli con disonestà. Un po’come arrestare Al Capone per debiti.
Così, è un po’ più chiaro cosa si intenda citando frasi fatte per cui il romanzo descrive l’universale, è senza tempo.
Infine, è sempre chiaro Pennac:
"L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale…la lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun altro, ma che nessun altro potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva sul suo destino ma intreccia una fitta rete di connivenze tra la vita e lui. Piccolissime, segrete connivenze che dicono la paradossale felicità di vivere, nel momento stesso in cui illuminano la tragica assurdità della vita. Cosicché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere…”

mercoledì 2 settembre 2009

Incursione nel tema


Ho riflettuto sulla necessità di entrare nel tema principale del blog almeno una volta, nonostante questo periodo forzatamente infruttuoso per le mie letture, e lo faccio citando proprio il Pennac di Come un romanzo, dono d’amore sconsiderato per la lettura, che ha ispirato il nome del blog. Prendo in prestito i diritti del lettore, e li elaboro per i miei loschi fini. Chiunque incontrasse questo blog e volesse accompagnarmi nel gioco, è il benvenuto.

1. il diritto di non leggere: Il signore degli anelli di J. R. R. Tolkien. Non commento perché i miliardi di appassionati mi accuserebbero di straparlare senza conoscere, ed hanno assolutamente ragione. Mi limito a esercitarlo, ostentando sicumera.

2. il diritto di saltare le pagine: Guerra e Pace di L. Tolstoj; sono ancora poco matura per le eterne disposizioni degli eserciti in battaglia. Credo che le amerò intorno ai cinquanta, quando mi sembrerà irrilevante l’amorazzo tra Andrej e Natasha.

3. il diritto di non finire un libro: Angeli della desolazione di J. Kerouac; gran diritto, questo. Fondamentalmente, il Telefono Amico di chi legge. Quanti lettori ho visto annodarsi nel senso di colpa: “non riesco a sopportarlo, ma non lo mollo perché sarò io che non capisco, e non ne inizio un altro se no è una tentazione, e non continuo quello perché è un incubo, e mi addormento la sera cullata da Donna Moderna pur di non far torto all’autore”, che magari è bell’e morto e comunque se ne frega.

4. il diritto di rileggere: Cent’anni di solitudine di G. G. Marquez. L’ho scelto a modello perché casualmente l’ho letto ogni dieci anni partendo dai 13, e ora continuerò per scelta. A ogni età scopro qualcosa di nuovo, e mi illudo che continui così, anche perché non credo supererò il primo centinaio d’anni e le pagine sono almeno quattrocento.

5. il diritto di leggere qualsiasi cosa: I Pilastri della terra di K. Follett. Quello che resta nel cuore sono i “compagni di essere”, citando Pennac, ma a volte, giuro, servono compagni di giochi, che con la levità della superficialità svuotano la testa che è una bellezza.

6. il diritto al bovarismo: Il romanzo dell’800 in genere. E non solo per i pizzi e le trine che, ammetto, vorrei che mi ammantassero al posto dei jeans.
Quanta nostalgia, dopo, per famiglie e personaggi che pare di conoscere nell’intimo. Finire alcuni libri rappresenta nel mio cuore un ingiustizia, perché mi impedisce di frequentare quelle persone oltre i limiti imposti dall’autore, quell’arrogante. Credo di non esser sola, ed ecco il motivo del successo dei (di solito deludenti) sequel.

7. il diritto di leggere ovunque: I Buddenbrook di T. Mann, immersa nell’acqua con i gomiti appoggiati a uno scoglio. Dicono gli amici che per m la lettura è come una dipendenza, caratterizzata da vere e proprie crisi di astinenza. Essere seduta in qualsiasi posto senza qualcosa da leggere, con l’esclusione dei momenti della vita in cui si praticano azioni necessarie, utili o piacevoli per l’esistenza (come dormire, mangiare, fare l’amore), mi mette in uno stato d’agitazione tale da farmi dilatare le pupille e da portarmi a tragiche riflessioni circa l’incapacità di stare sola con me stessa, che degenerano sempre in stati depressivi che…insomma, meglio un libro in borsa.

8. il diritto di spizzicare: le sere di Mulliner, di P.G. Wodehouse. Quando si ha assoluto bisogno di ridere, ma non nel senso di bofonchiare o sorridere appena, proprio nel senso di ah ah ah battendosi le mani sulle cosce, ecco che spunta Wodehouse, e bastano poche righe ogni tanto per mantenere un sorriso ebete l’intera giornata.

9. il diritto di leggere a voce alta: le fiabe. Questo diritto non lo eserciterei per me stessa: stupidamente mi vergogno a leggere a voce alta, come se mi ordinassero di prendere tutti per mano per cantare il saluto al fratello sole. Leggere a voce alta per me significa leggere ad altri, le fiabe a mio figlio, ma anche righe esilaranti a chi ti sta vicino (vedo però che non è generalmente apprezzato, nonostante lo limiti all’imperdibile)

10. il diritto di tacere: Paula di I. Allende

Dopo aver dormito


Da quando ho iniziato questo blog, manco a farlo apposta, non tocco più un libro, perchè il furetto le scorse notti non ha mai dormito come ogni madre vorrebbe, ossia acriticamente e totalmente immobile per almeno dieci ore di fila.
Di conseguenza non ho nulla da dire che arricchisca il panorama letterario contemporaneo, e i libri sul mio comodino, e ai piedi di questa pagina, si impolverano vergognosamente guardandomi con severità.
Ma spendo due parole, per piantare a gioiose badilate una pietra miliare su questi mesi di fatiche, riguardo a questa notte, in cui ho dormito dalle nove e mezza alle sei e dieci, grazie a un caritatevole marito lavapiatti e cambiapannolini e a una piccola bestia sprofondata come si deve tra la gallina e gli orsetti che accompagnano le sue notti.
Magnifico, quasi mi pare di esser più intelligente.
Al lavoro, sorrido bonaria alla collega T, che parla quasi esclusivamente a luoghi comuni, e che di solito vorrei strozzare: penso che anche a far questo ci vuole una certa abilità, e buonanotte al secchio. Festa finita. Avanti, Savoia.

martedì 1 settembre 2009

Spazi bianchi


Dopo l'angoscia da madre inadeguata, da impiegata frustrata, da lettrice rallentata, da donna di casa pressapochista, proprio non mi immaginavo di introdurre nella mia vita anche l'angoscia da post vuoto. Dunque rifiuto l'addebito, e vado a riempire.

Forse il fatto di creare un blog per lasciare traccia di ciò che leggo proprio quando un piccolo vortice di 17 mesi mi risucchia ogni energia, e riduce le pagine lette dell'80% rispetto ai bei tempi, non è proprio un'idea di quelle che emanano luce propria. Però mi fa pensare a qualcosa di positivo, e fa in modo che così io possa lasciare qualcosa da qualche parte dei giorni che vanno e vanno, lasciando solo tanto sonno. Poi, magari, un giorno, tornerò a prendere possesso del mio Libro, senza che mi venga strappato di mano in impeti di gelosia, sempre dal piccolo vortice. E potrò ricordare ciò che mi è passato tra le mani per più di qualche mese.
Forse in questo periodo la vita, un diario forse banale dei tanti via blog, avrà il sopravvento sulla letteratura, ma almeno la cosa rispecchia i miei giorni. E almeno, così, me ne ricorderò.

La prima sera di questo blog c'è stata una magnifica festa di amici cari, con un fisarmonicista le cui note sono emerse a sorpresa dai fitti cespugli del giardino, mentre tutti mangiavano guardandosi intorno per capire.
Ho scoperto che il vociare di venti persone che tentano di sovrapporsi ai tanghi di Piazzolla rappresentano per mio figlio la ninna nanna perfetta. Certo che organizzare il tutto a casa ogni sera impegnerebbe un budget di una certa rilevanza.
Ho infine ascoltato una pubblicità secondo la quale se ti fai fare il fotoalbum delle vacanze te ne regalano un altro: ma di chi? Ma perché?