lunedì 27 settembre 2010

Weltanschauungen


- Babi, ti piace la casa nuova?
- Mah…veramente…no.

Stavamo guardando una sorta di colabrodo, comprato a giugno a peso d’oro, e per ora (perché è tutta questione di immensa fiducia nel genere umano) di aspetto estremamente simile a una discarica abusiva a cielo aperto; i muri esibivano ovunque ferite di mattoni e sabbia rossa, o cicatrici grigiastre; tubi di destinazione misteriosa costellavano il pavimento, che, nelle parti ancora intere, era completamente coperto da uno strato di lapilli e lava, di spessore tale che non mi avrebbe stupita trovarci dentro qualche cadavere pompeiano cristallizzato in un’eterna, tragica sorpresa. Il cortile brulicava di vecchi sanitari ingialliti, tubi arrugginiti e pezzi di piastrelle giallo senape. E io ho chiesto: Babi, ti piace la casa nuova?

Questo breve dialogo mi ha aperto gli occhi su un aspetto dell’infanzia che forse non sono l’unica a sottovalutare: i bambini mancano dell’esperienza necessaria a confidare in un futuro che non ha già potuto fornire loro degli esempi. Noi ci aggiriamo tra le rovine con un sorriso ebete, immaginando senza troppo sforzo (particolarmente le donne, credo) le piastrelle rosso fuoco che copriranno presto quell’intonaco, il parquet tirato a lucido dopo la rimozione dei reperti archeologici da post –eruzione, perfino i mobili rigirati col pensiero ad individuare la disposizione migliore; mio figlio vede una cosa informe e grigia, e un sacco di familiari che la guardano con orgoglio indicandogli la sua nuova abitazione, che non può non paragonare al suolettino verde acqua, ai quadri allegri alle pareti, alla cucina munita di cibo e di modi per prepararlo.
Noi, quotidianamente, salutiamo calorosamente, anche con una certa deferenza, degli uomini che arrivano nella nostra casa nuova e si mettono a disfare le pareti con aggeggi rumorosissimi. E più lo fanno, più siamo contenti. Mio figlio osserva, e si chiede perché mai lui venga punito se solo si azzardi a esprimere sulle pareti di casa la sua creatività con una penna biro.

Noi ci preoccupiamo, chiedendoci perché Babi indulga ultimamente a temporanee ma frequenti crisi isteriche: mio figlio crederà di esser rimasto l’unico savio al mondo.

mercoledì 22 settembre 2010

Fiumi di parole


Disarchiviare un archivio mai toccato per anni, al fine di avviarlo ai Pascoli del Cielo nelle condizioni migliori, significa liberarlo di tutto ciò che al macero possa confliggere con l’essere semplice carta - CER200101.
Scopriamo a nostre spese che un ampio settore della premiata ditta fu, per quasi un decennio, teatro d’azione di una setta chiamata “non fidarti del buco”, che della busta di plastica con buchi rinforzati per gli anelli dei raccoglitori fece il suo baluardo, il suo biglietto da visita, il suo oggi, il suo domani, il suo tutto. Ogni quaderno, invece di contenere un centinaio di fogli di niente, in questo archivio tratteneva con vivida forza un centinaio di buste di plastica contenenti ognuna un foglio di niente, che ora è necessario estrarre dalla stessa per buttarlo, o sistemarlo in cartoni con su scritto: da buttare nel 2016, da buttare nel 2017, e così via.

Sospetto che questo scambio illegale di buste di plastica coi buchi prosegua tutt’ora, vista la costante carenza in ufficio dei sopracitati ammennicoli, e avvenga tra i pini, o nei corridoi sotterranei, con finti cordiali saluti e rapide cessioni di pacchetti. D’altra parte, ho imparato ora che, per il futuro dei nostri figli e per la rapida predisposizione delle sudate carte al macero, è consigliabile limitare l’uso di quelle dannatissime buste ad una sola ad impiegato, da usare come meglio aggradi, per esempio per incorniciare la foto degli avi.

Anche i quaderni con anelloni in ferro sono da separare dai documenti, per evitare che schegge di metallo infestino la carta igienica riciclata di domani.

Dunque, la cantina dove alacremente lavoravamo muniti di guanti latex free e grembiuli anti trombo (non si possono dire sexy) verde pisello di TNT, risultava infestata di resti di buste, contenitori, cartelline incompatibili col sano macero.

Io, vedete, ho una passione per la cancelleria. Non solo ritengo che sia l’unica cosa al mondo che si possa rubare in qualsiasi ufficio senza incorrere in alcun diverbio con la propria coscienza, ma adoro guardarla, possederla, sfiorarla, usarla, e vederla morire lì, impilata e rifiutata perfino dalla raccolta differenziata, era per me una sofferenza inenarrabile.
Non così per le colleghe avviate con me in questo girone infernale privo di sedie, dunque di requie; esse odiavano l’odore della carta, i grilli che nidificavano tra i documenti per emergerne con storie incredibili, la polvere che pure non stava a noi pulire, cosa per me già di per sé sensazionale. E buttavano tutto, criticando aspramente i miei tentativi di salvare il salvabile, straparlando di chissà quali disinfezioni col napisan, fino a costringermi all’appropriazione furtiva di quello che potevo, quadernoni, fogli, spirali, e naturalmente buste di plastica coi buchi usate, per entrare anch’io a far parte di questo mondo torbido dello spaccio (aziendale).

E non solo: il mio nervosismo per lo spreco inconsulto è cresciuto fino a farmi partorire il piano di attardarmi un momento di più nella stanza senza testimoni, riempirmi di roba ogni indumento e borsa, e in seguito trasferire tutto ciò che non fosse palesemente coperto di cacche di grillo nell’armadio dell’ufficio, così da diffondere il morbo della cancelleria all’insaputa di queste maniache dello spikespan.
Piano, tra l’altro, riuscito perfettamente.

Barbarie e imbarbarimento

Su Baricco scrittore di romanzi, dopo averne mangiati cinque, coltivo una densa arte del dubbio. Di Baricco giornalista/divulgatore sono completamente stregata. Uno di quei pochi che ti mettono per qualche attimo in pace con i pensieri vorticosi che attraversano la mente, proponendo un pavimento temporaneo su cui riposare, sentendosi capiti.
Ne rubo dunque le riflessioni pubblcate su Repubblica e datate 21 settembre, per illudermi che questo barlume di comprensione mi consenta di riflettere in pace un po' più a lungo del solito.


"CARO Eugenio Scalfari, vedo con soddisfazione che tutt'e due, pur di generazioni e radici diverse, abbiamo la stessa istintiva convinzione: è in corso una mutazione che non può essere spiegata con il normale affinarsi di una civiltà, ma sembra essere, più radicalmente, il tramonto di una civiltà e, forse, la nascita di un'altra. Bene. Non tutti hanno la stessa lucida convinzione e, secondo me, su questo abbiamo ragione noi.

Poi però le cose si ingarbugliano. E lo fanno su un punto che è fondamentale, e su cui ho visto molti irrigidirsi, proprio sulla base di quelle osservazioni che tu lucidamente raccogli e sintetizzi. E il punto è: barbarie e imbarbarimento (per usare le due categorie che usi tu, e che mi sembrano chiarissime).

Io quando penso ai barbari penso a gente come Larry Page e Sergey Brin (i due inventori di Google: avevano vent'anni e non avevano mai letto Flaubert) o Steve Jobs (tutto il mondo Apple e la tecnologia touch, tipicamente infantile) o Jimmy Wales (fondatore di Wikipedia, l'enciclopedia on line che ha ufficializzato il primato della velocità sull'esattezza). Quando penso agli imbarbariti penso, a costo di sembrare snob, alle folle che riempiono i centri commerciali o al pubblico dei reality show. Il fatto che i secondi usino abitualmente le tecnologie inventate dai primi non deve confondere le cose. Si tratta di due fenomeni diversi: né l'eventualità che Steve Jobs adori i reality show deve indurci a fare confusione.

Quando penso ai barbari penso a Diderot e D'Alembert (apparivano come barbari all'élite intellettuale dell'ancien régime) e quando penso agli imbarbariti penso al cascame di aristocratici che mentre nasceva l'Illuminismo ripetevano a vuoto i riti di un privilegio e di una ricchezza che in realtà non avevano più le energie per motivare e difendere. Quando penso ai barbari penso a Mozart (il Don Giovanni sembrò piuttosto barbaro all'Imperatore che lo pagò) e quando penso agli imbarbariti penso alle signorine aristocratiche che strimpellavano ottusamente sonatine di Salieri nei loro saloni cadenti. Voglio dire che una cosa è l'insorgere di modelli radicalmente innovativi e irrispettosi della tradizione, un'altra è il fisiologico disfarsi di una civiltà nell'ignoranza, nell'oblio, nella stanchezza e nel narcotico dei consumi. Di solito le grandi mutazioni scattano esattamente quando scattano simultaneamente i due fenomeni, e in modo spesso inestricabile. Da una parte una certa civiltà marcisce, dall'altra una nuova civiltà insorge (anche nel senso di ribellione). E' lo spettacolo davanti a cui ci troviamo adesso: ma bisogna stare molto attenti a isolare, all'interno di un unico grande movimento, le due forze opposte che stanno lavorando.

L'imbarbarimento, di per sé, a me non risulta così interessante. Mi sembra un decorso fisiologico, già visto innumerevoli volte in passato, e oggi forse solo accelerato o reso più evidente dal moltiplicarsi delle informazioni e dalla abilità dei mercanti. Anche nel piccolo cortiletto della nostra Italia, assisto naturalmente allo sfarinarsi di una certa statura civile, di una certa tensione morale e di una certa tenuta culturale: ma mi chiedo se era poi tanto meglio l'Italia anni Cinquanta-Sessanta, dove una minoranza assoluta di persone coltivava un vivere alto e nobile ma la stragrande maggioranza degli italiani nemmeno aveva accesso ai consumi culturali, era sostanzialmente disinformata e quanto ai principi morali si doveva fare andar bene la predica in parrocchia. Non so. Ma comunque non riesco a preoccuparmi più di tanto.

La barbarie, invece, nel senso di Page, Brin e Jobs, quella mi affascina, e quella sì mi sembra degna di essere compresa. Ti cito loro tre, ma se solo sfogli, ad esempio, Wired ti accorgi che c'è tutto un iceberg sommerso di gente come loro, solo più nascosta, o meno geniale, o semplicemente non americana (per non arrivare, semplicemente, ai nostri figli, che sono in tutto e per tutto barbari).

Lì lo spettacolo è affascinante: sono persone a cui non manca l'intelligenza, che crede sinceramente di costruire un mondo migliore per i propri figli, che coltiva una certa idea di bellezza, che non disprezza affatto il passato, che domina le tecniche e che sostanzialmente ha una matrice umanistico-scientifica: eppure, nel momento di disegnare il futuro, se non addirittura il presente, non fa uso di strumenti che vengono dalla tradizione e fonda il loro ragionare e il loro fare su principi affatto nuovi che, alle volte, ottengono perfino l'effetto collaterale di distruggere, alla radice, interi patrimoni di sapere e di sensibilità che giacciono nel patrimonio condiviso dell'attuale civiltà. Di fronte a questo, io vedo lo sforzo immane di ricostruire un nuovo umanesimo a partire da premesse diverse, evidentemente più adatte al mondo com'è oggi: e cerco di capire: con fatica, ma cerco di capire. Cercando di non spaventarmi.

Quel che mi sembra di aver capito è che quella forma di barbarie genera inevitabilmente imbarbarimento ma anche, e simultaneamente, ricostruzione, e civiltà. Non potrebbe essere diversamente. D'altronde non giudichiamo il romanticismo dall'orrore delle poesiole romantiche che scrivono i quattordicenni, o dalla musica stucchevolmente romantica che decora film penosi, e nemmeno dalle lettere sdolcinate di una ragazzina francese del 1840 che si innamora dell'avvocatucolo del paese: giudichiamo il romanticismo a partire da Chopin, se mai, da Schelling, da una certa collettiva e fantastica iniziazione all'infinito, dalla scoperta collettiva di certi sentimenti, ecc, ecc. E allora perché dovremmo giudicare Steve Jobs dai messaggi sgrammaticati che la gente si scambia sui suoi Iphone? Perché non ci arrendiamo all'idea che l'imbarbarimento è una sorta di scarico chimico che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre? Simili rifiuti li ha prodotti l'Illuminismo, e prima di allora l'Umanesimo, e prima di allora l'idea imperiale di Roma, e prima di allora...

Così mi viene istintivo non farmi distrarre dall'imbarbarimento, e di studiare la barbarie. E studiandola ho finito per arrivare a questo crocevia della profondità. Come ho anche scritto nell'articolo, è un punto abbastanza scioccante e non riesco a scriverne senza il timore di colpire a morte qualcosa di preziosissimo. E sono anche sicuro che tra un po' di anni sarò in grado di scriverne meglio, con più precisione e più consapevolezza: ma intanto faccio tesoro di questa certezza intuitiva: il sistema di pensiero dei barbari sopprime il luogo e il mito della profondità.

Non elimina il senso, ma lo ridistribuisce su un campo aperto che solo per comodità definiamo ancora superficialità, ma che in realtà è una dimensione per cui non abbiamo ancora nomi, e che comunque ha poco a che fare con la superficialità intesa come limite, come soglia inattraversata del senso delle cose, come facciata semplicistica del mondo. In un certo senso potrei dire che il mondo di pensiero in cui si muove Steve Jobs (e mio figlio, 11 anni) sta a quello in cui siamo cresciuti noi due come il firmamento di Copernico sta a quello di Tolomeo (peraltro erano inesatti entrambi); o come Emma Bovary sta ad Andromaca.

Non ci sono meno stelle nel cielo di Copernico, né meno amore nella vita di Emma Bovary: ma sono il cielo e l'amore di un'umanità nuova, che lavorava con principi diversi, partiva da premesse inaspettate e andava ad abitare un paesaggio della mente e del cuore fino a quel momento vietato. Non c'erano nemmeno i nomi, in un primo momento, per pronunciare quel mondo nuovo: non abbiamo un nome noi adesso, per pronunciare l'asse su cui il senso è andato a disporsi, una volta sfarinata la dialettica di profondità e superficialità.
Tu dici: non diresti queste cose se tu, ancora, non fossi in grado di pensare e dire la profondità. E' un'obbiezione che mi fanno in molti. Ed è molto logica. Ma a me rivela soprattutto quanto siamo già avanti nella strada, virtuosa, della barbarie. In realtà solo gente molto barbara può giudicare profondo il mio modo di pensare o scrivere: solo trent'anni fa sarebbe parso umiliante che si discettasse di cose del genere con questo livello di approssimazione, con un simile tipo di linguaggio, su uno strumento vile come un giornale, e lasciando parlare uno scrittore di successo. Solo quarant'anni fa questi dibattiti di idee si facevano nelle accademie, e li facevano i filosofi, gli antropologi, i sociologi. Come mai adesso loro tacciono, smarriti, e noi, scrittori-giornalisti, ci troviamo bene o male ad accompagnare la riflessione collettiva su temi così importanti su carta che l'indomani involtola l'insalata o su riviste che ci mettono in copertina tutti belli ritoccati, manco fossimo degli attori? Non lo senti lo stridio di qualcosa che non va? Non ti sembra che qualcosa che era nel profondo è risalito fino in superficie, per diventare domanda pronunciabile, e lì l'abbiamo incontrata noi, perché lì eravamo, già da un sacco di tempo, in superficie, non la superficie degli idioti, la superficie che è il luogo del senso, il luogo scelto da questo mondo per il senso? Non pretendo di convincerti, ma se ti devo dire sinceramente quel che penso è che la tua obbiezione andrebbe rovesciata: più di quanto tu non immagini, tu ti muovi in modo barbaro, hai il talento dei barbari, hai un'istintiva comprensione di dove scorre la corrente forte del senso, e per questo dialoghi con me, e non alzi semplicemente le spalle, pensando che dico cose superficiali. E la gente ti legge, e ti capisce, perché gli racconti la stessa ansia che hanno anche loro, cioè quella di poter essere barbari senza imbarbarire. E' il problema dei più, oggi, il problema della gente di buona volontà. Sentono di essere ormai oltre una certa civiltà, ma non vogliono essere peggiori. In un certo senso, tu, io, e tutti loro, mi sembriamo davvero il Kublai Khan timoroso delle Città Invisibili. Era di stirpe mongola, lui: era esattamente un barbaro che era sceso a distruggere l'altissima ed eterna civiltà cinese e se ne era appropriato. Seduto sul trono, di fronte a un mercante (non a un filosofo), formula la domanda: com'è il mio impero? Non aveva una risposta, e la cercava.
Per cui, certo, la nostra battaglia è contro l'imbarbarimento: non penso di aver fatto una sola cosa, nella mia vita professionale, senza pensare, anche, ad arginare un certo imbarbarimento. Credo che la stessa cosa si possa dire di te. Ma per quanto mi riguarda, altrettanto importante mi pare non scambiare questa battaglia con una dannosa resistenza alla barbarie, intesa come intrusione del radicalmente nuovo, come forza della mutazione, e come metamorfosi ultima dell'intelligenza. Pur con una certa fatica, mi sforzo di non confondere le due cose, e nemmeno la certezza di sbagliarmi spesso riesce a farmi disamorare di questo compito, e di questo piacere".

lunedì 20 settembre 2010

Easter Parade


Letto Easter Parade di Richard Yeats, scrittore dimenticato e riscoperto recentemente da Minimum Fax, lo stesso dell’ottimo Revolutionary Road. Ho letto correndo sulle pagine, costantemente stupita della eccezionale bravura di riuscire a tenere il lettore incollato, come ad un libro avventuroso, allo srotolarsi delle vite mediocri di due sorelle che, segnate da un’infanzia non facile, scelgono due strade opposte che le fanno entrambe scivolare inesorabilmente verso il fallimento, da cui cercano di sollevarsi con tentativi sempre più fiacchi, tra uno sherry e uno scotch, man mano che gli anni le imprigionano nel grigiore dell’inconsistente illusione del sogno americano. Impera il pessimismo assoluto di un autore che ritiene la famiglia la culla di ogni infelicità, e che nel libro riversa la sua vita, la sua incapacità di reagire ad una nascita affrontata col piede sbagliato.

Ah Ah


Davanti alla sbarra dell'ingresso dell'azienda, con la macchina di servizio dopo un'orrida giornata di polvere d'archivio.
Finestrino: - gnec gnec.
Noi: - Buongiorno, ci fa entrare? Siamo dipendenti!
Guardia: - Da cosa?

lunedì 13 settembre 2010

Ultime letture


Dunque, breve riassunto della situazione: ho letto Nell’Harem, di Denise Zintgraff, e Emina Cevro Vukovic. Una copertina da libro Harmony, un titolo da filmetto erotico anni ’70 con evocazioni di odalische velate, monumento alla stupidità delle operazioni di marketing, per un libro in realtà estremamente interessante, che racconta di una donna occidentale assunta da una principessa di Riad per leggere la sera fiabe in francese a suo figlio. Credendo di partire per scoprire un mondo, vedere i mercati, esplorare suk, usi e costumi, parlare con la gente per strada, conoscere citta' antiche, resterà a vivere nell’harem per due anni, in uno spazio modernissimo per sole donne, enorme libertà di riflessione opposta a limiti di movimento, continue presenze e grandissima solitudine, privilegi e agi che trascinano all’inerzia totale, all’incapacità di trovare anche solo la forza di andarsene. L’autrice entra in una voragine di comodità, calore, lusso, abitudini completamente diverse, ricchezze che la stregano in modo sempre diverso, dalla curiosità iniziale all’apatia finale che la fa fuggire da un mondo che tuttavia porterà sempre nel cuore.
Utilissimo a capire una cultura, un mondo, ma anche gli scherzi che può farci il nostro stesso pensiero, se lasciato libero di vagare. Memento alle "casalinghe" agiate.

Ho incominciato per un grave errore L’uccello del sole di Wilbur Smith, autore mai amato ma a volte divertente nell’intreccio avventuroso dei romanzi che mi era capitato di leggere in momenti di astinenza, rubandoli da comodini altrui. In questo caso ho dovuto interromperlo, non potendo esprimere all’autore con azioni dimostrative di inaudita violenza il mio sconcerto su questo libro allucinante nella scarsissima considerazione delle donne, nel razzismo, nell’arroganza, che costellano la storia attraverso imbarazzanti commenti quasi infantili, non certo appropriati per un romanziere da milioni di copie, che sembra non poter fare a meno di trasudare amore di sé.
Speravo quasi che l’autore stesso avrebbe interrotto il filo del racconto per dire ridacchiando: ok, volevo vedere se stavate attenti.
Non è accaduto, e con gioia ho esercitato il diritto di saltare le pagine, dalla 245 alla fine.

E' la stampa, bellezza!


Due eccezionali monumenti al giornalismo moderno si sono prestati all’analisi delle mie pupille, e non vorrò più dimenticarli.

- il 10% delle persone non sono figlie del padre che ritenevano tale. Il giornalista descrive la moderna ansia da test del DNA, con il quale pare ci si possa mettere il cuore in pace sulla provenienza DOP della metà del proprio patrimonio genetico, necessità, tra l’altro, che, in assenza di malattie genetiche da sondare, mi è così estranea che mi farebbe piacere intervistare chi la sente. Lo scriba prosegue indicando il divorzio come uno dei momenti di crisi in cui, una frase buttata lì, può far sorgere un virgulto di dubbio sull’entità della propria partecipazione alla composizione della famiglia: - e quello lì non è nemmeno figlio tuo. Alla faccia del dubbio.

- E’ stato quasi completato il tram, in una grande città. In fase di collaudo, è stato solo riscontrato qualche problema al plantigrado, che non si abbassa al momento giusto, nei tratti in cui il veicolo prende la sua alimentazione direttamente dalle rotaie. Ora, come abbiano addestrato degli orsi a fare da tramite tra carrozze e filo elettrico, in bilico sul tetto del tram, già non riesco a immaginarlo, ma che debbano anche insegnargli ad abbassarsi (gli forniscono dei seggiolini?) arrivati ad un certo punto mollando l’unica fonte di equilibrio mi sembra francamente eccessivo.

Ma la fame può tutto


Babi - Mamma, andiamo a prendere un biscotto in cucina.
Nef - Vai da solo, c'è il papà che ti aspetta.
Babi - No. Ho paura.
Nef - Ma di cosa, Babi?
Babi - (.....)
Babi - Non ci sono avvocati, vero?
Nef - No.
Babi - Bon. Vado.

lunedì 6 settembre 2010

Chi teme la magistratura, e chi..


Nef: - suvvia, Babi, vai a prenderti l'acqua da solo, non fare alzare la mamma, fuori dalla stanza non è buio, apri la porta e vai in cucina.
Babi: - No, andiamo insieme.
Marito: - Ma perchè non vuoi andare da solo?
Babi: - non posso.
Nef: - Perchè non puoi?
Babi: - Non posso andare, perchè la fuori c'è l'avvocato.

giovedì 2 settembre 2010

Al cantiere


- Signora, le soglie delle finestre le facciamo di cemento o di pietra? Perché le altre sono di cemento, ma come lo troviamo, chi le fa al giorno d’oggi?
- Signora, ma questo buco nel pavimento sotto la nuova porta, come lo copriamo? Con una soglia di pietra? Con le piastrelle è impossibile!
- Signora, ma la finestra la facciamo bianca? Come, la vorreste di un altro colore?? al massimo ve la dipingete voi!
- Signora, ma le controcasse della porta a scrigno le portiamo noi o le procura lei? Ci servono tra sette minuti.

Sorvolando sul fatto che tutte le centinaia di domande che sommergono la sottoscritta nelle ultime due settimane hanno già una risposta, e che qualsiasi altra cosa io possa proporre viene irrimediabilmente schiacciata da evidenze edili a me sconosciute che rendono la scelta dell’impresario l’unica praticabile ora e per sempre;
sorvolando sul fatto che ogni mia gentile e sussurrata obiezione alle scelte stilistiche-operative-tacniche-estetiche del lavoratore viene accolta con sganasciate proverbiali, tutto un maschile darsi di gomito, silenzi ricomposti, occhiate significative ed altre sganasciate, mentre se la stessa obiezione viene posta da un membro maschile della famiglia, ivi compreso Babi, viene presa in seria considerazione prima di venir comunque cestinata per il teorema dell’impresario di cui sopra;
sorvolando sul fatto che, per evitare morti sul lavoro causate dal soffocamento per introduzione in trachea di bocconi e sigarette dovuto all’incontenibile sganasciare, abbiamo deciso che io intervenga sempre in compagna di un uomo della famiglia, che preservi il mio onore e la sicurezza del cantiere,

sorvolando su tutto questo, resto al mio posto, mi aggrappo ad un aspetto femminile e su questo non transigo: perchè mai una porta scorrevole viene definita “a scrigno”?
Chiamatela “a apriti sesamo”, chiamatela “ a astuccio di legno”, ma quando mai uno scrigno si apre a scorrimento? Eh? Eh? Come la mettiamo?

mercoledì 1 settembre 2010

La velina islamica


Questa volta, per imprimermi nella mente l'indicibilmente triste periodo che stiamo vivendo, rubo le parole di Gad Lerner sulla Repubblica odierna.
CI MANCAVA la velina islamica, dopo la donna tangente. Degna commistione fra due paesi mediterranei diversamente retrogradi, ma entrambi contraddistinti dall´abitudine a trattare la femminilità come ornamento del potere. Naturale quindi che anche la velina islamica sia vincolata alla consegna del silenzio, come il suo corrispettivo che va in onda a ogni ora del giorno e della notte sulle tv del belpaese. Il silenzio è requisito della sottomissione, e come tale lo impone la zelante agenzia Hostessweb, pena il mancato pagamento delle centinaia di ragazze scritturate a modica tariffa, confidando sul loro bisogno di lavorare.
La religione, com'è ovvio, non c'entra nulla. Nessun buon musulmano prende sul serio Gheddafi, né il suo appello alla conversione islamica dell'Europa. Se davvero la suprema Guida della Jamahiriyya fosse mosso da intenti di proselitismo, avrebbe convocato intorno a sé un pubblico misto di interlocutori, non si sarebbe rivolto a un'agenzia di hostess precisando che servivano signorine bella presenza, provocanti ma non troppo, secondo il gusto maghrebino.

C'entra invece, eccome, il bisogno di dimostrare che la grazia e la sensualità possono essere comprate col denaro. Il dittatore libico si rivolge al suo popolo prospettandogli la meraviglia delle belle donne da marito di cui l'Italia è percepita anche laggiù come il giacimento. Lui può permettersele, i suoi sudditi vedremo.
Nessuna altra capitale europea avrebbe tollerato il ripetersi, per tre volte in un anno, di una simile esibizione. Ma l'Italia è la patria delle veline, dove d'estate è normale che un sedicente rivoluzionario autore televisivo impieghi pure anziane signore nella parodia ossessiva dell'avanspettacolo, e dove perfino il capo del governo rincorre il mito dello sciupafemmine per sentirsi amato. Perché negarci dunque l'eccesso fantasioso della velina islamica?

Nonostante gli oltre quarant'anni ininterrotti al potere, in fondo Muammar Gheddafi resta pur sempre meno anziano rispetto al nostro presidente del consiglio. Hanno in comune la maschera patetica di chi insegue la longevità con camuffamenti giovanilistici. Da questo punto di vista, sono leader intercambiabili.
Se oggi Berlusconi minimizza di fronte allo squallore dei raduni di giovani femmine italiane sottomesse, che Gheddafi non oserebbe mai convocare in un santuario di preghiera islamica, e si limita a definirli "folklore", non è solo per imbarazzo diplomatico. Lui che per anni ha esercitato un indubbio potere seduttivo sulla maggioranza delle donne italiane, soffre di una vera e propria mutilazione culturale: vittima del suo stesso anacronismo, gli è preclusa la sensibilità necessaria anche solo a figurarsi le donne al di fuori di una dimensione subalterna. Gli verrebbe più facile parlare arabo che notare un evidente problema nazionale come la dignità femminile calpestata.

Ora Gheddafi, aspirante colonizzatore di Roma, viene a dirci che in Libia le donne sono più libere che in Occidente. Immagino che lui e il nostro premier scherzeranno, in privato, di tale fandonia. Per quanto tempo ancora?