venerdì 30 aprile 2010

E, reclinato il capo, spirò


Può capitare che, pur non comprendendone io i motivi, un fornitore chiuda l’anno fiscale il 30 aprile.
E può capitare che lo stesso giorno il fornitore chiami, con accento tra il disperato e il minaccioso, affinché si regolarizzi con un ordine del materiale già consegnato, per la bellezza di 120.000 euro.
E da qui, può capitare di tutto.
Che non si rintracci, nel sistema gestionale, la richiesta e la bolla di consegna.
Che non si sappia assolutamente a quale spesa imputare il tutto, non trovandone traccia da nessuna parte
e nel frattempo, il fornitore chiama, e chiama, e l’affare intero sta diventando epico
Che quando con alcuni taconi pejo del buso, si decida in che modo procedere, ma il programma gestionale non si dica d’accordo, con quella volitività che a volte dimostrano i computer, inattaccabile da qualsiasi moina.
Che quando il programma, blandito come una porcellana antica con dita gentili e tocco serico, la smette di dire che l’associazione linea-sottolinea è inesistente, si cerchi di avviare la stampa, e appaia la finestra: impossibile stampare, sicuri di aver attaccato una stampante, a quel cavolo di filo?, pur con altre parole
e nel frattempo, il fornitore chiama, e chiama, e l’affare intero sta diventando epocale
Che dopo aver stampato in un altro ufficio ci si avvicini al fax per inviare l’ordine, ormai poco fiduciosi nelle potenzialità della giornata nel suo complesso, e che questo atteggiamento rassegnato sia confermato dall’impossibilità di inviare quello stramaledetto fax da quella stramaledetta macchinetta del porcoboia.
Che chiedendo in prestito spazio-fax a altri colleghi fino ad avere tra le mani l’agognata ricevuta di avvenuta spedizione, si torni al tavolo ormai stravolti, e si scopra di aver fatto un errore nell’ordine inviato, dovuto forse alle quindici volte che il sistema aveva costretto a ridigitarlo.
Che si contatti il fornitore, superando le urla con la pura perseveranza della disperazione, si invii di nuovo l’ordine e si cerchi di archiviarlo senza più trovare la pratica.

OK.
Buon fine settimana.

mercoledì 28 aprile 2010

Grido d'aiuto


Quando ho lasciato il vecchio lavoro seduto in mezzo alla pianura Padana, tante sono state le nostalgie: prima di tutto per gli amati colleghi ormai amici; poi per un modo di procedere un tantino più sensato; per una certa innovazione informatica che non guasta in un ufficio, tipo una stampante funzionante o un PC che si accende in meno di 20 minuti; per la possibilità di comunicare con gli altri uffici chiedendo informazioni senza che rappresenti un segno di debolezza fonte di critiche e pettegolezzi; per un modo di pensare un po’ più moderno e utile all’insieme.
Una sola cosa non mi è mancata: la pagellina, ovvero quella conversazione con il Responsabile, una volta all’anno, che mette i voti al tuo rapporto con l’utente, alla tua capacità di lavorare in gruppo, e sulla cui base vengono distribuiti gli incentivi annuali. La odiavo, per la tipica paura del giudizio altrui, e soprattutto perché veniva da una persona di cui mi sarebbe molto dispiaciuto perdere la stima.

Non ci è voluto molto: la pagellina è arrivata anche qui.

Dunque: qui non si tratta di entità degli incentivi, non si tratta di timore di perdere la considerazione di chicchessia o di mettermi davanti alle mie mancanze. Si tratta solo di esser conscia che, se Virgilio venisse a chiedermi come immagino l’inferno prima di varcarne la soglia, ciò che descriverei non si discosterebbe di molto dalla pagellina con il Marchese De Sade.

martedì 27 aprile 2010

Il giallo più giallo


Il nuovo sondaggio si occupa di gialli, e prevede moltissime risposte possibili; spartite tra i votanti consueti, lasceranno a zero molti degli autori, che però credo se ne faranno una ragione. Qui si intrecciano i Paesi, come nei sondaggi precedenti, ma anche le epoche. Scegliere l’ultima risposta comporta necessariamente un commento a questo post, perché voglio assolutamente sapere quale assente intendiate votare. Coraggio!

lunedì 26 aprile 2010

Liberazione


Solo due parole sul 25 aprile, perché è difficile non cadere nella retorica in cui in questo Paese la memoria della Resistenza è stata infilata a forza, perdendo la appannando la spinta propulsiva verso il pensiero, l'importanza delle scelte, la democrazia di cui ora saremmo assetati.
Girare per strade e piazze in cui ci si sente a casa, salutare gente delusa nello stesso modo; vedere Babi giocare con al collo il fazzoletto dell’ANPI; ridere con il relatore, che ricorda un uomo inciso in una lapide come può fare solo un amico; incontrare anche quest’anno questi vecchi combattenti, la cui vivacità ci impedisce di sentirci persi; trovare il nostro sindaco in una manifestazione di quartiere, che sfila vicino a una band sgangherata che suona l’Internazionale e Addio Lugano bella, e nonno G. che sussurra: fa male, a venire, è una cosa troppo di sinistra, presta il fianco a critiche infinite…ma sotto sotto è proprio contento; tutte queste cose rendono una giornata degna d’esser vissuta.

Scuole letterarie del Novecento


Finito il sondaggio, tiriamo come sempre le somme: 5+2+1=8.

E qui potrei finirla, però pare giusto commentare.
L’Italia nel precedente sondaggio non si era beccata manco un voto, ed in effetti, nonostante io ritenga che I promessi sposi siano molto meglio di quanto ciascuno studente sia disposto ad ammettere entro i cinque anni dalla fine della scuola, l’onda di creatività romanzesca che travolge l’Europa nell’800 ci lascia fondamentalmente a terra, come capita più o meno con ogni venticello di modernizzazione (a parte la Costituzione).

Invece, nel ‘900, c’è lo scatto d’orgoglio di chi ha votato Calvino, Pasolini, Lussu, Gadda, Morante, Levi, Eco, Fenoglio, Sciascia, Ginzburg, Flaiano, Bufalino, eccetera senza offesa per i fans di qualcuno che ho omesso, e l’Italia si è risollevata con due voti, doppiando gli Stati Uniti di Faulkner, Hamingway, Bowles, Salinger, Capote, Vonnegut, Fitzgerald, Steinbeck, Heller, Carver e ora faccio riprender fiato alla memoria.
Come leggere questo risultato? Boh. Forse dovevano arrivare pari merito.
Gli americani hanno una scrittura affilata, breve, a singhiozzo, che a volte mi turba nel suo non fluire sulla lingua. Parla un po’ come parlano gli uomini. Però bravi, porca miseria, lo ammetto.

E stravince con 5 voti il Sudamerica, immagino quello rappresentato sia dalla lingua spagnola di Marquez, della Allende etc, sia dal portoghese di Amado e così mi faccio altre decine di nemici per colpose mancanze (niente male, con circa cinque assidui lettori del blog). La mia lettura della questione è la seguente, anche se forse non corrisponde a quella degli altri votanti (di cui gradirei conoscere l’opinione): è un po’ come l’opera di Verdi rispetto alla musica chiamata contemporanea. L’Europa, dopo l’epoca delle grandi storie, ha iniziato ad avvolgersi su se stessa, decostruirsi per ricostruirsi, sedersi sul divanetto del Grande Psicoterapeuta vomitando flussi di coscienza, per riconoscere errori e orrori che l’hanno attraversata come orde barbariche, conscia d’esser vecchia e stanca.
Per carità, una stagione necessaria e assolutamente interessante, emotivamente devastante, specchio della vita; intanto, però, il resto del mondo cominciava a spintonare il vecchio carrozzone con le sue, di storie, con le epopee di popoli e famiglie, con credibilissime magie infilate nel quotidiano, e scenari ancora non così popolati da non poter più farci stare un racconto. Forse sarebbe più corretto ritrovarsi nell’Uomo senza qualità, per noi vecchi europei, ma è più facile sognare con le mille generazioni dei Buendìa.

PS. i miei elenchi di autori qui sopra sono stati scritti secondo i capricci della memoria del momento, certo non vogliono essere esaustivi. Mi piacerebbe però che ognuno li continuasse nei commenti secondo i suoi gusti (e anche per altri Paesi), così creiamo insieme un piccolo elenco di autori imperdibili, da appendere sul comodino per le nostre sere.

Il lutto della coscienza

In questi giorni continua a tornarmi in testa, in una sensazione di pura sofferenza fisica, il viso distorto dall’odio di alcune madri intervistate sul caso dei bambini esclusi dal servizio mensa ad Adro perché non pagavano la retta.
Poiché i bambini, per lo più figli di stranieri, non potevano nemmeno accedere agli aiuti economici previsti dal comune solo per i residenti, un imprenditore ha pagato il loro debito per evitare che subissero una discriminazione estremamente dolorosa, tanto più nell’infanzia, in un momento in cui si cercano di acquisire l’orgoglio della propria identità e la assimilazione nella comunità in cui si vive; alcuni genitori residenti, allora, si sono detti indignati da questo atto privato di generosità, e hanno ritenuto legittimo gridare alle telecamere con violenza che allora anche loro non avrebbero più pagato la mensa, per farsela regalare da altri.

Mi lasciano senza fiato:

- quei visi distorti che resteranno per sempre nella mia memoria come il ricordo di un dolore acuto

- il fatto che si possa solo concepire come affronto fatto a se stessi un atto di generosità di un uomo che vuole evitare una ferita inutile a dei bambini, atto che tra l’altro evita la nascita di barriere d’odio, agevolando l’inserimento di questi bambini nel paese in cui gli è toccato vivere;

- il fatto che, anche se probabilmente gente con pensieri come questi è sempre esistita, ci si limitava nell’esprimerli, sicuri di incontrare una ferma riprovazione sociale, nel nome dell’umanità, della pietas, della giustizia, della religione, di tanti e tanti principi che venivano considerati scontati; invece ora questi pensieri sono stati sdoganati come legittimi, come ideali politici da sostenere con orgoglio.

La memoria della povertà, dell’emigrazione, di quel paese del terzo mondo che era questa Italia all’uscita dalla guerra è stata cancellata. La ferita di questi anni alla cultura del mio Paese mi spaventa profondamente, come un panico crescente che faccio sempre più fatica a controllare.
Questi sono i mostri che inseguono il futuro di mio figlio, non la massa di disperati che cercano qui la vita per i loro.

PS: Vauro, alla fine della trasmissione di Santoro in cui tutto questo è stato fatto vedere, ha detto che questa gente non si merita nemmeno una vignetta. Ebbene, nel mio piccolo mi astengo anch'io dalla consueta immagine che colora i miei post. Qui non c'è colore.

venerdì 23 aprile 2010

Se li conosci ti organizzi altrimenti


La specie più interessante con cui si viene in contatto nel cercar casa sono gli agenti immobiliari.
I più giovani sono vestiti come quindicenni che fanno i loro primi passi nel mondo della griffe, con camicie Versace a righe-colletto bianco, completi con tanto di panciotto in agosto, scarpe a punta con cinghiette e capelli incredibili anche collocandoli negli anni ’80.
Le donne sfoggiano tacchi assolutamente incompatibili con le centinaia di scalini che devono fare ogni giorno, cinture ascellari che strizzano camicette due taglie più piccole e pantaloni che non sanno come togliere da due settimane senza strapparli.
I più attempati preferiscono invece l’impermeabile da esibizionista pieno di planimetrie, o il giubbino di pelle e l’aria da volpone, che li segue anche quando tentano di appartarsi con te per sussurrare che anche se offri diecimila in meno la casa è tua, ma che c’è un’offerta di un impresario senza scrupoli, e non puoi offrir di meno, e devi muoverti, perchè sei accerchiato. Unica eccezione a questa aria di cospirazione, l’agente che davanti a tutti ha chiarito che il venditore era in tali ristrettezze da accettare qualsiasi offerta, per poi aggiungere: io e lui ci conosciamo da una vita. Ma io non ho amici, ho solo clienti, soffiando sulla sua colt.
Quello, però, che ci resterà nel cuore per sempre, è l’agente-parassita. Egli è privo di vita autonoma e dipende dall'ospite a cui è intimamente legato. Egli ha una struttura anatomica e morfologica semplificata rispetto all'ospite (il nostro assomigliava a Nicholas della famiglia Bredford). Egli non ha un ufficio, solo un marciapiede. Egli non ha spese di gestione, egli è oltre. Lo chiami perché la città è tappezzata di annunci scritti a mano, la sua agenzia non appare sui consueti giornalini; ti dà l’appuntamento, ma non ci si incontra sul posto, devi andarlo a prendere con la tua macchina, e lo trovi già in strada, appena abbandonato dal precedente cliente. Estrae da una valigetta che contiene tutta la sua vita il consueto modulo con cui le agenzie si assicurano la posizione di mediatori, e ti accorgi che è scritto a mano, per circa quaranta righe, in due copie fatte con la carta carbone. Firma con la tua penna. Poi ti chiama per proporti un altro affare, ma lo fa col metodo tipico dei figli adolescenti squattrinati: un singolo squillo, e poi sarà la tua curiosità a farti richiamare spendendo denaro, altrimenti gli toccherà rinunciare, ma lo sopporterà. Tanto non conosce affitto, benzina, dipendenti o stampanti da comprare. Egli è un uomo libero.

Distruggesi


Un problema affittuario di amici mi fa tornare in mente i tempi in cui, studentessa in una città universitaria, cercavo una stanza.
I padroni di case, in quella città, sono estremamente viziati, abituati da anni a sguazzare nel nero (non mi è mai stato proposto un contratto vero in tutti gli anni di studio) e ormai privi della necessaria lucidità circa le richieste che si possono e non si possono fare ad una persona a cui stai chiedendo un mucchio di soldi per un buco.
Più di una volta, telefonando per informazioni a seguito di annunci che sembravano descrivere manieri, mi rispondeva la classica voce da beghina unisex - che poi, chissà perché quella vocetta con cui si tende a identificare l’appassionato acritico delle pratiche religiose richiama spesso alla mente l’atteggiamento che ha l’entusiasta giardiniere dei propri interessi..sarebbe interessante materia di approfondimento – voce che metteva subito in chiaro che quella cifra, normalmente sbalorditiva per un posto in camera tripla con uso cesso, presupponeva alcune regole: settimana corta, vietato invitare chiunque anche solo a bere il caffè, non circolare di notte per i corridoi del condominio, non parcheggiare biciclette per tutto il quartiere, "perché è una casa per bene".
Allora, ragazzina timida e gentile, tacevo e mi defilavo, immaginando che un tale figuro come padrone di casa fosse peggio di una calamità naturale (mi ha graffiato il linoleum! Questo mobile era 20 millimetri a sinistra!), ma ora vorrei chieder loro:

- perché mai confondi un contratto di locazione con un’ammissione magnanima in una comunità per tossicodipendenti, in cui mi salvi gratuitamente da una vita di stenti, ma mi imponi regole stringenti per evitare di ricaderci?
- in cosa dovrei evitare di ricadere?
-cosa diavolo ci fai, tutti i sabati e le domeniche, di una casa abitata da studenti che costringi alla settimana corta? Annusi calzetti sotto i letti? Mangi gli avanzi della pizza?
-cosa mai ti fa pensare che sia “per bene” una casa arredata con gli scarti della tua vita, in cui stipi ragazzi ad ogni angolo per guadagnare migliaia di euro senza pagare le tasse rendendogli la vita un inferno?

mercoledì 21 aprile 2010

Splendore nell'erba

Credo di aver scoperto la causa dei cerchi nel grano.

Non sono felice di assumere questo ruolo di distruttrice di sogni altrui circa misteriosi contatti da altri mondi amanti del pane di Altamura, ma la verità deve emergere.
Credo che nei periodi di ferie uno dei giardinieri di questa Azienda, che chiamerò Telespalla Bob per l’inquietante somiglianza con il pluriomicida di Springfield qui sotto rappresentato, si faccia calare da un elicottero in mezzo ai campi del Missouri, o dello Iowa, o dove altro diavolo gli americani lascino crescere del grano, e giochi con il suo inseparabile trattorino go-kart fino all’alba, per poi essere prelevato dall’alto senza lasciar segni d’addio sul selciato.
Sono consapevole di quello che dico: come ogni primavera è cominciato per i nostri giardineri il periodo belligerante denominato “erba, ora sono cazzi tuoi”, costituito da quotidiane rumorosissime incursioni su ogni metro quadro verde con l’aggressività dei camion di Duel e la perseveranza della sposa in nero di Trouffaut.

Ieri ho incrociato il suo folle sguardo durante l’operazione; oggi ne vedo i postumi dalla finestra: Cerchi nel grano tra fili d’erba alti mezzo centimetro.

martedì 20 aprile 2010

Sentimenti vergognosi


Difficile trattenere l’invidia, quando una collega ce la fa: hanno accolto la sua domanda di trasferimento interno.
Da giorni la si vede vagare tra i corridoi, persa in qualche sua fantasia, ormai distaccata da i piccoli giochi terreni che caratterizzano la vita di ogni baraccone burocratico, e la si coglie a prendersi il tempo di riordinare la scrivania, fino quasi a scoprire il truciolare impiallacciato sotto metri di carte.
Se ti rivolgi a lei, non parla più da collega, bensì come un saggio morente, circondato da discepoli sopraffatti dal dolore, poco prima che il dormiveglia che precede il sonno eterno ne cancelli la lucidità: ecco, tieni, questo è il catalogo che devi mostrare a chi ti chiederà di comprare un trappolimetro. Lo affido solo a te, so che ne farai buon uso.
Insomma, un testamento olografo ambulante.
Il senso di colpa che si proverebbe normalmente nei confronti di un Kapo comprensivo e competente, per la consapevolezza del baratro colmo di scartoffie che necessariamente ci si lascerà dietro la schiena partendo, in questo ufficio nemmeno scalfisce la gioiosa vertigine della partenza, visto che la reazione alla notizia del Marchese de Sade, che ha mantenuto immutato il consueto profilo franco-veneto arrogant-mi, è stata quella di guardare la partente come uno scatarro sul selciato, per poi farle ben capire, scandendo le parole, che qualsiasi mansione essa intenda svolgere nella vita, sia fantina, spogliarellista o referente amministrativo, non la eleverà in alcun modo dalla oscura mediocrità che la caratterizza dal risveglio al tramonto, e che solo per pietà tutti fingono di non vedere.

Difficile trattenere l’invidia, quando una collega ce la fa.

lunedì 19 aprile 2010

Pensavo fosse Italia, invece era un ospedale psichiatrico


E’ un po’ che ci penso, e ora voglio scriverne.

Ero molto appassionata di politica; sono nata in una casa in cui non è mai mancata, in cui le conversazioni a cena spesso la comprendevano, in cui una certa politica è sempre stata fonte e luogo di commozione, di speranza, di cammino, di musica, di film, di scelte.
Da qualche anno, invece, fatico sempre di più a pensarci; è come un dolore per un lutto ormai lontano, sordo, ma sempre presente a scalfire la quotidiana ricerca della serenità. D
a qualche anno il Cavalier Banana, professionalmente coadiuvato da molti, da troppi, sta distruggendo sistematicamente, ora a forza di petardi, ora con una lima inesorabile come la goccia di pioggia sulla pietra, quel debole velo di senso dello stato, di amore per l’onestà, per la collettività, che rivestiva la gente di questo paese.
E in questi strappi, ormai incontrollabili, si crogiolano in tanti, in troppi, che preferiscono veder legittimato qualsiasi comportamento, identica qualsiasi scelta, priva di valore qualunque parola, perfino insensato qualsiasi numero, piuttosto che fare la fatica di guardare un poco oltre, che questo vada a loro interesse o meno.
All’inizio provavo a discutere sui singoli accadimenti, ma ora mi sento circondata da un tale incantesimo collettivo da non sapere quale angolo attaccare, quale danno tentare di ricucire. Non sono nemmeno capace di descrivere perfettamente come mi sento, perché qualsiasi intervento di questa gente mi sembra così folle da non trovare un sentiero comune da cui partire.

E allora mi è venuto in mente Troisi, e il suo Pensavo fosse amore, invece era un calesse. Una delle scene di quel film costituisce a mio parere la metafora più vicina in assoluto al mio stato d’animo. E quindi, poiché le metafore sono di chi gli serve, non di chi le fa, ne faccio il mio uso.

A un certo punto Francesca Neri e Troisi, alla vigilia del matrimonio, si lasciano, e lei trova un altro uomo, che gli amici comuni conoscono e che Troisi non ha mai visto. In preda alla gelosia ascolta coloro che ne sanno di più, e si trova circondato da un girotondo di pietà dei conoscenti, perché l’uomo che ha trovato la sua donna non gli lascia alcuna speranza, è quanto di meglio si possa concepire: bello come Ulisse (ma Enea di nome), intelligente, simpatico, dalle maniere perfette, con un lavoro di eccezionale importanza, perfetto amante, sicuro di sé. Troisi è distrutto. Decide che vuole vederlo, per ingoiare il veleno fino in fondo. E si trova davanti Enea, che l’attore Marco Messeri delinea perfettamente: fisicamente rivoltante, voce stridula, vanesio e inconsistente, volgare. Troisi dovrebbe sentirsi subito meglio, davanti a questo avversario ridicolo in ogni senso. Invece si trova circondato da gente che crede fermamente nelle qualità che di quest'uomo, e pensano che Troisi, che cerca conferme a ciò che vede ad occhio nudo, parli per gelosia, per impotenza, per incapacità di accettare il successo altrui. E questo gli dà un senso vertiginoso di solitudine.

Anch’io non vedo più uscita. Ad ogni alzata di ingegno del Cavalier Banana e della sua corte la speranza che la gente dica: vabbè, ora basta, però si affievolisce sempre più.

Deus ex brumbrum


Ebbene sì: ho taciuto per una sorta di “scaramanzia per iscritto”, fino ad ora, ma venerdì il preliminare è stato firmato.
Abbiamo trovato una casa.
Ne avevo viste tante, da così tanti mesi che cominciavo a darmi arie da agente immobiliare: ormai conoscevo i prezzi del vecchio, del nuovo, delle terrazze e dei paesi della cintura cittadina. Ho visto soggiorni che voi umani non avreste potuto immaginare, cucine con piastrelle da scalzare con la forza del pensiero anche senza acquistare la casa, solo per amor del bello; appartamenti nuovi con strani prezzi bassi in cui le camere erano scarpiere, e al prezzo pubblicizzato si doveva aggiungere il costo del diritto di parcheggiare, la cantina, l’eventuale garage, per arrivare a un valore più in linea con la follia che ci attanaglia.
Dopo vani tentativi di cercare qualcosa a risparmio energetico, potendoci permettere al massimo un box auto con portone predisposto al fotovoltaico, ci siamo convinti a privilegiare lo spazio, rivolgendoci dunque a appartamentiti anni ’60-‘70, con tutto quanto di brutto trascinano con sé, ma con la speranza di non trovarci a breve in tribunale contro il costruttore per il fastidioso effetto collaterale dell’uscita di acque reflue da ogni pertugio, cosa che accade con allarmante frequenza nelle case di nuova costruzione.
Ormai stremati, stavamo per adagiarci su mezza bifamiliare di fronte a una scuola elementare, ma un’inquietudine mi martellava la mente, sempre più insistente: nella nostra vita manca lo scoperto, ovvero, in gergo umano, il cortile (non osando sperare in un giardino).

Quindi, approfittando della apparente stasi del mercato immobiliare, ostentando i nervi saldi di coloro che non temono di perdere l’affare, abbiamo atteso ancora, e ho continuato a cercare, scrivendo schede su schede, telefonando fino a non avere la più pallida idea di quale casa stavo andando a visitare.

Siamo entrati in questo cortile, con piastrelle di cemento, un pezzetto d’erba incolta con uno di quegli alberi scemi che usano mettere sul ciglio delle strade cittadine, che sembrano gelsi travestiti da ibischi, e nessuno sa come si chiamano; ortensie secche all’entrata, e una casa curiosamente alta e stretta, colore maron.
Pronta ad accettare le consuete porzioni da nouvelle cousine applicata al Catasto, ho chiesto come fosse diviso quel cortile tra i condomini. E i presenti, strammati, mi guardavano con facce interrogative. “Ma il cortile è della casa”. “Vabbè, ma di quale appartamento?”, preventivamente infastidita dalla risposta inesorabile che mi aspettavo. “La casa è una, non ci sono appartamenti!”. Insomma, per farla breve, ci ritroviamo con una casa intera, di quelle che se vuoi parti correndo, ci fai il giro intorno, e torni al punto di partenza, senza aver toccato millesimi altrui. Dove se a Babi cadono le palle di legno che usa martellare per scaricare energia, nessuno si attacca al campanello con violenza pretendendo silenzio assoluto alle sei di sera. Dove si può leggere sotto il caco nell’ombra incipiente del tramonto, e montare una canna fumaria senza chiedere il permesso a 56 persone.

Solo di notte, con gli occhi a palla per l’ansia, arrivano i dubbi: ce la faremo a fare tutti i lavori? e se il tetto ci cade sulla testa? E se scopriamo che i tubi sono fatti di cartone pressato? E se le cacche dei canarini che risiedevano in una stanza in cortile non se ne vanno nemmeno con l’idropulitrice?
Di giorno riesco a controllarmi, e a far ridere alle lacrime Marito per la serietà con cui leggo i miei cinque volumi dell’opera di giardinaggio, complessive 2000 pagine, i cui insegnamenti intendo applicare pedissequamente ai miei 10 metri quadrati d’erba incolta.

venerdì 16 aprile 2010

Padri in guardia


- MARITO: Dobbiamo misurarlo di nuovo. Secondo me Babi è cresciuto, lo vedo più slanciato, dopo mesi di stasi si alza a vista d'occhio.
- NEF: Non puoi misurarlo così spesso, Marito, cosa credi che possa essere cambiato?
- MARITO: Io lo misuro di nuovo. Fermo, Babi, appoggiati al muro, stai fermo..è identico all'ultima volta...
- NEF: Oh. dobbiamo immediatamente chiamare il pediatra.
- MARITO: Non mi prendere in giro, non cresce, non cresce.
- NEF. Fammi un piacere. Guarda la data dell'ultima tacca.
- MARITO: 11 aprile.
- MARITO: ...

lunedì 12 aprile 2010

Kello Giallo


In questi giorni, in cui Babi cresce come i fiori nei documentari, fotografati per mesi e riprodotti in pochi secondi, scuserete il mio lasciarmi andare a frequenti post di stupore infantile.

Babi ha scordato BrrrTato, e l’ha sostituito con un feticcio più leggero e trasportabile, utile in diverse occasioni nonché neutro quanto alla possibilità che si scatenino dubbi sulla sua mascolinità incipiente: un cucchiaino a quadretti verde lime che lui chiama testardo: kello giallo.
Con Kello giallo si addormenta, gira per la casa, compie faticosi trasporti di diecimila oggetti tenendolo tra i denti come un machete, mangia, convinto a fatica a dargli una sciacquata, gioca a nascondino, cerca di bere l’acqua come un disperato nel deserto con il fondo della borraccia; kello giallo è un’ottima arma di difesa, con la sua componente metallica piuttosto pesante, e di offesa, come ben sa nonna D., che anni addietro, leggendo in lingua originale un libro sulla storia dei regnanti spagnoli, si scandalizzava dei numerosi spargimenti di sangue provocati da cucchiaiate violente, prima di scoprire che cuchillo è coltello, non cucchiaio.
Quando l’urlo dal vago sapore francofono: ‘u è kello giallo? si spande per casa con un’eco minacciosa, qualsiasi abitante degli appartamenti del palazzo, e lo stesso Pantacollant, si sperticano in ricerche terrorizzate, sperando di trovarlo prima dell’ira che, invariabilmente, arriva.
Finora eravamo riusciti a mantenere kello giallo a casa, terrorizzati di doverlo poi cercare per strade e tombini in un momento di crisi, ma oggi, da madre di un bambino che odia l’asilo nido quanto un’interrogazione al liceo, e ha pianto dal risveglio all’entrata a scuola, ho dovuto cedere. Mi sono dovuta affidare, con sguardo implorante, all’acume delle maestre.

Quindi: care maestre, abbiatene cura; questo non è un cucchiaino, questo è il suo feticcio, la protesi della sua mano, la prolunga del suo ego. Questo è Kello Giallo.

Il tempo dei cartoni eterni


Mi avevano avvertita, e dovevo saperlo, che sarebbe successo, anche se lo scarso interesse che per lungo tempo Babi aveva dimostrato per la televisione mi faceva sperare che questo stato divino sarebbe durato all’infinito.

E’ iniziato il tempo del cartone animato eterno.
Tutti i genitori occidentali, credo, sanno di cosa parlo.
Tutta colpa dell’Aerosol, ma provate a convincere un bambino dell’opportunità di stare seduto un quarto d’ora con davanti alla bocca una sorta di proboscide sbuffante che sputa aria umida e insapore, senza ricorrere a offerte pericolose per l’equilibrio familiare.

Il primo dei cartoni eterni, virus tutt’ora in corso, è “Gli Aristogatti”, e ringrazio il cielo, perché sorbirmi per 50 volte un cartone animato giapponese mi avrebbe ridotta a tale prostrazione da farmi attaccare a mia volta al respiratore.
All’inizio Babi si è appassionato alle canzoncine Scale e Arpeggi e Tutti quanti voglion fare il jazz, innamorandosi della tromba di Scat-cat fino a desiderarne una intensamente, forse sperando che note celestiali sarebbero emerse fin dalla prima soffiata. Cocente delusione, quando il nonno, amante del jazz e del nipotino, gliene ha regalata una al compleanno.
Quindi, passando per una breve passione per Adelina e Guendalina, le oche britanniche con lo zio alcolizzato, Babi alla fine si è stabilizzato con le avventure dell’infame maggiordomo Edgar, per il quale coltiva una preoccupante e duratura passione, non sappiamo bene se per elaborare il concetto di sdegno etico e morale o per averlo eletto a modello di vita. Il fatto che squadri il gatto Pantacollant come i falegnami dei film western usavano fare con i pistoleri perdenti prima dei duelli, misurando a spanne la lunghezza della bara da costruire, dovrebbe farci intuire la soluzione del quesito, ma mi rifiuto di accettarla. Interessante la reazione mia e di Marito, che, sottomessi con docilità alla dura prova delle ripetute visioni, abbiamo preso a perderci nei particolari del racconto, fino a chiederci oziosamente, durante, MA ANCHE OLTRE, lo spettacolo: Ma Romeo, secondo te rimpiangerà la vita libera da gatto randagio? Ma quanto male deve fare, a un topo, ricevere un tappo di chamagne sparato in pieno stomaco? Ma il verbo sgamare non è solo transitivo? Ma di cosa saprà la Crema di crema alla Edgar con cui il laido figuro droga la famiglia di gatti? Ma come fa quel gatto obeso a suonare il contrabbasso? Ma sai che nel 1927 saranno tutti morti (compreso Edgar che probabilmente morirà in giornata, se il baule in cui lo rinchiudono per spedirlo a Timbuctu non ha sufficienti prese d’aria)?