martedì 21 dicembre 2010

La fantasia al potere, ovvero conflitto generazionale

- Mamma, perchè ti scrivi gli occhi?
- Mi sto truccando, Babi.
- Anch'io voglio, quando sarò grande!
- E' una cosa che abitualmente fanno le donne, amore, tu sei un maschio.
- Anch'io voglio, quando sarò una donna!

lunedì 20 dicembre 2010

Ho sempre amato, astrattamente, alberi di natale estremamente sobri, mono- o bicolori, freddi come argento e azzurro o fintamente caldi come rosso e bianco. Ma quando tentavo di realizzarli, non mi piacevano mai. I miei alberi di natale mi hanno sempre lasciata perplessa. Quest’anno ho preso tutto quanto, in casa, avesse un cordino in cima, e l’ho messo sull’albero per fare felice Babi. Mi ritrovo con babbi natale, pecore, cavalli, renne di panno, e lucine che sono state lasciate libere di lampeggiare in quel modo squillante e inutile. E per la prima volta sono contenta di una mia realizzazione natalizia. E’ un albero parlante, sbracato, non mi soprenderei di trovarlo con una birra che discute amabilmente con Pantacollant. E’ praticamente una bocca in più da sfamare, fino a gennaio.


Qualcosa ha interrotto quell’eterno ciclo sfortunato che mi perseguita, e che quelli che mi stanno vicino prima negano, poi ammettono: la mia presenza ha sempre impedito la caduta della neve. Se mi trovavo nella città in cui studiavo, nevicava nella città dove son nata, e viceversa. Se per caso nevicava in entrambe, io ero in treno tra le due. Se andavo in montagna, mandavo in rovina decine di strutture ricettive, se seguivo una tormenta, quella si spostava oltre le Alpi a tempestare città straniere. La gente mi telefonava: hai visto che oggi finalmente nevica, che la tua maledizione è finita? Sì, peccato che io mi trovi a Algeri. Davanti ad una così crudele evidenza, mi era stato consigliato di offrire i miei servizi ai Comuni per i quali la neve rappresentasse un fenomeno particolarmente nocivo, trasformando la sfiga in business: mi offrono una camera all’Hilton, e io garantisco strade pulite per il weekend.

Venerdì è nevicato di nuovo, per tante e tante ore, senza piogge schifose, senza interruzioni deludenti. Unico oggetto sacrificale, per ottenere tale benedizione, è stato il telefono di Marito, che, scivolato da una tasca durante un lavoro di vanga, verrà rinvenuto in cortile solo al disgelo, tra le mani di un pinguino.

Dalla finestra, notte
Dalla finestra, giorno

venerdì 17 dicembre 2010

Cinecittà


Siamo sopravvissuti.
Siamo reduci dalla visita dei grandi kapi della Premiata Ditta, quelli che vengono da lontano, anticipati da un vento d’angoscia e seguiti da un mare di sussurri.
La paura della bocciatura è uguale a ogni età, e qualunque sia il livello stipendiale raggiunto.

Ho visto il panico negli occhi di diversi dirigenti, godendone con moderazione. Ho visto cambiare sedie rotte da decenni, all’improvviso, da sotto il sedere del rassegnato utilizzatore, mentre si stava accomodando. Ho visto comprare puttanate eccezionali e rifiutare l’acquisto di aggeggi utili, ma poco appariscenti. Ho visto direttori che pulivano ragnatele e se le mostravano l’un l’altro, orgogliosi come bambini; resti di festini d’ufficio sparire dietro ai cartolari; armadi sazi vibrare e promettere frane di carta alla prossima apertura. Gente che schizzava a bere il caffè di nascosto, in un sacchetto di carta come gli americani, per preservare il decoro; merende consumate negli angoli con sguardo diffidente, prati già tristi rasati a zero e sorrisi dimenticati su visi contratti da altri pensieri.

Insomma, ho visto ritinteggiare un villaggio per un film western, fatto di facciate che danno sul deserto.
E soprattutto ho visto la soddisfazione negli occhi dei grandi kapi, che non hanno avuto interesse o voglia di grattare la vernice con una monetina, preferendo godersi il catering al rinfresco.

Poi sono andata a casa, e ho visto in TV tre nomi: Polidori, Catone, Siliquini.
E il cerchio si chiude.

mercoledì 15 dicembre 2010

Il funerale di Gianna

Il 10 dicembre è morta Gianna.
Copio qui le parole con cui al funerale l'ha salutata nonno G, per ricordare una donna dal coraggio e dalla volontà eccezionali. E per ricordare che non" tutti sono uguali e rubano alla stessa maniera".

Gianna era nata a Burana, piccolo centro agricolo in provincia di Ferrara, in una famiglia di braccianti e antifascisti, quindi in un contesto che prometteva povertà, fame e angherie da parte del regime, ma anche, come lei stessa diceva, grande solidarietà umana e reciproco aiuto. Il lavoro era duro, e non solo nei campi del padrone, ma anche nelle risaie del Piemonte, dove poco più che bambina, al momento del trapianto, andava con la madre per accumulare quel poco che poteva permettere acquisti importanti come un paio di scarpe, o un pezzo di stoffa.
Ma aveva un sogno, Gianna, quello di fare l’infermiera, e ci riuscì, ad ottenere quel diploma, superando ogni difficoltà. Quel diploma la portò in XXX, prima all’infermeria del XXX, poi all’Ospedale civile, nel reparto XXX per le malattie tubercolari. Si era in pieno fascismo, e in più in guerra, ma tutto ciò non fermava Gianna se si trattata di combattere le ingiustizie. In ospedale non avevano neanche un giorno di festa e subito lei cominciò la sua lotta con l’ufficio Personale. Da sola naturalmente. Perché le compagne avevano paura. E vinse, perché le leggi lo prevedevano. Alcuni antifascisti, perché ce n’erano in ospedale, si accorsero del temperamento di quella ragazza, e la contattarono: si trattava di sottrarre medicinali e materiale per medicazione, portarli fuori e consegnarli lì, tra il mais, dove qualcuno la aspettava. (...) Quando, all’indomani dell’8 settembre, salirono sui colli i primi partigiani, la sua scelta fu immediata.
Il 9 ottobre 1943, giorno del suo ventitreesimo compleanno, i suoi genitori vennero a trovarla. Passeggiavano, e si sentivano rumori lontani che sembravano spari. Cos’è? Chiede il padre. “Sono partigiani, papà”. Non avrai mica dei grilli per la testa? “Scherzi? Sto così bene in ospedale”. Il giorno dopo Gianna salì in montagna insieme all’amica infermiera Jole De Cillia, la partigiana “Paola”, medaglia d’argento, uccisa nel dicembre ’44 dalla Decima MAS.

Iniziava così l’epopea partigiana: in montagna, fino ai rastrellamenti del novembre ’43; poi in pianura come gappista (tra l’altro fabbricava bombe da introdurre nelle caldaie bollenti dei treni nei depositi della stazione) e come staffetta. Evitò l’arresto per un soffio il giorno di un appuntamento con Oreste Cotterli che sarà impiccato il 29 maggio ’44 a San Giovanni al Natisone. In maggio fu chiamata in montagna, perché si era saputo che era ricercata dalle SS. Era da poco giunta, quando un mattino fu sorpresa in una baita dai tedeschi: si salvò rotolando giù per un pendio in mezzo ai rovi, tra le pallottole che le fischiavano attorno. E in montagna visse l’esaltante epopea della zona libera della Carnia, i grandi rastrellamenti, l’occupazione cosacca, il durissimo ultimo inverno, nascosta in un bunker con i comandanti garibaldini Andrea, il suo futuro marito, Barba Toni, Marco. A febbraio riprese l’attività nei paesi della Carnia, vestita da montanara, tra i cosacchi presenti ovunque, per riannodare i fili, riallacciare i contatti. E poi di nuovo in pianura dove partecipò alla liberazione di XXX. Nel dopoguerra le difficoltà non cessarono, cambiarono natura. Si trattava ora di gestire una famiglia con un figlio, e poi un altro. La situazione diventò durissima quando il marito Andrea fu inviato a Venezia a dirigere la federazione del PCI. Il partito pagava pochissimo i suoi funzionari e allora era necessario far convivere famiglia e lavoro. Trovò impiego all’INAM, ma dovette lottare contro prepotenze di ogni tipo, perché era comunista, perché era partigiana, perché era iscritta alla CGIL. Addirittura la trasferirono a San Donà di Piave, che doveva raggiungere ogni mattina col treno, lasciando il figlio nelle mani di improbabili baby bitter, perché allora era così la vita delle ex partigiane. Ma alla passione politica, all’impegno sociale non rinunciò mai.
Io l’ho conosciuta all’interno della Sezione Gramsci del PCI, in XXX. Nelle riunioni , si sedeva vicino al segretario e ascoltava. Prendeva la parola solo verso la fine e noi aspettavamo un po’ preoccupati il suo intervento, perché sapevamo che con lei si andava subito al sodo: cari compagni, bisogna fare questo, bisogna fare quello. Quando? Domani mattina, e ci incastrava tutti, perché aveva il prestigio e l’autorità per farlo; e perché sapevamo che lei avrebbe lavorato più di tutti noi. E lo stesso succedeva in Circoscrizione; e per la vendita dell’Unità per le case del quartiere la domenica.
Ci reclutava, marito compreso, e prenotava un numero incredibile di copie. Io personalmente odiavo quegli appuntamenti, perché mi vergognavo, e spesso comperavo a me stesso un po’ di copie che poi nascondevo dietro qualche pianta nell’atrio dei condomini. Lei invece vendeva intera la sua parte e si introduceva nelle case con una abilità incredibile: “Ma che bei fiori, signora! Ma come fa?” e piano piano arrivava al punto che voleva, alla vendita con annessa propaganda.

Quando entrò in crisi il PCI, non entrò in crisi Gianna, che riversò tutta la sua attività nel Comitato per la difesa della Costituzione, che dirigeva con determinazione; nell’ANPI, dove condusse la sua battaglia affinché alle donne della Resistenza fossero riconosciuti i meriti che a loro competevano; nell’organizzazione ogni 24 di aprile della manifestazione in memoria dei caduti di XXX, e in ogni occasione si presentasse di lotta per la democrazia e il progresso sociale, e per la memoria della Resistenza. Ancora nel letto d’ospedale, alla vigilia del Congresso provinciale dell’ANPI che si è tenuto due settimane fa, levatosi il boccaglio dell’ossigeno, a me e a Giulia che eravamo andati a trovarla, ha sussurrato con fatica: “Mi raccomando, al Congresso parlate della scuola, perché i giovani devono capire, devono sapere cos’era la Resistenza”.

Questa era Gianna, persona indimenticabile, che io collego ai migliori anni della mia vita, perché ho conosciuto, con lei e accanto a lei, le persone più straordinarie per umanità, moralità, intelligenza e coerenza, quelle per merito delle quali la vita, al di là di delusioni e fallimenti e degli sconsolanti paesaggi odierni, può essere un’avventura che vale la pena di essere vissuta.

venerdì 10 dicembre 2010

Per un pelo cade il palco

- Mamma, perché non c’è più il cavallo, lassù, ma il leone?
- E’ un cartellone pubblicitario; prima c’era il cavallo che invitava tutti ad un natale cowboyo, ora ha finito i soldini per pagarsi la pubblicità, e invece questo leone del digitale terrestre ne ha tanti e allora può stare lì nel cartellone fino a Natale.
- Ma perché ha solo il giubbotto?
- Ti ricordi il lupo dei tre porcellini? Lui ha solo i calzoni, vero? Ecco, il leone ha solo il giubbotto.
- Ma non hanno freddo?
- Forse sì, poverini.
- Non possono comprarsi i vestiti?
- Forse non hanno abbastanza soldini.
- Ma se il leone ha così tanti soldini da poter stare sul cartellone, perché non li usa per comprarsi i calzoni?
- …
- …
- Mamma, Babbo natale mi porta le bolle di sapone?
- Sì, amore santo!!

Letture round about


E’ una curiosa coincidenza, leggere tre libri di seguito i cui autori si soffermano insistentemente sulle rotonde tanto di moda nelle nostre strade.
E sembrerebbe curioso che, tra i mali della nostra civiltà, tre autori sentano il bisogno di attaccare proprio i rondò, pozzanghere erbose ormai così profondamente parte dei nostri traffici quotidiani da non lasciarci ricordare com’era prima il percorso per l'ufficio.
Ma un senso c’è, perché il gusto per la sobrietà, per la naturalezza (che non è la naturalità di un formaggino industriale della pubblicità), si vede anche da un prato, da un giardino, da una rotonda.

Il primo è stato Pejrone, del cui libro ho scritto qualche post fa, che condanna la bruttezza di certe rotonde che pretendono di replicare giardini rocciosi alpini, savane africane, steppe di muschi e licheni, senza nessun gusto, senza nessun senso del luogo, della storia, delle cose.

Allo stesso modo si infervora Umberto Pasti, in Giardini e no, libro in cui se la prende con i proprietari dei giardini status-symbol, con i collezionisti fanatici, con le signore leziose, con i garden designer, contrapponendoli alla sorprendente e toccante creazione casuale dell’aiuola di un benzinaio, o dei bidoni riciclati a vasi rigogliosi in un quartiere misero di una città africana. Anche i giardini pubblici, anche la rotonda ha un padrone, la collettività. In centro sarebbe piazza, in campagna le convergenze stradali sono state per lo più eliminate, dunque la rotonda è il marchio della periferia perpetua che è diventata la nostra campagna.
Le rotonde, per la loro natura, sono luoghi di rappresentanza, non potranno mai essere vissuti; sono lo spazio dove politici, architetti, paesaggisti e vivaisti cercano di concentrare quante più bizzarrie possibili: piante anacronistiche, che, fuori dal proprio habitat, non possono che sopravvivere a stento, totalmente incapaci di replicarsi nel normale ciclo della natura. “..così che il viaggiatore capisca immediatamente che tutti gli abitanti della città italiana in cui sta arrivando odiano il loro paese, si vergognano ella sua storia e della sua cultura, e sognano solo di vivere nella perenne estate californiana degli sceneggiati televisivi”. Pasti si sofferma a pensare che ormai è diffusa la tendenza di attribuire un valore esteticamente, e moralmente, positivo a qualsiasi cosa rompa la tradizione, sia individuabile come nuovo, benché urti buon senso e i sensi, purché la rottura sia solo apparente, superficiale, non abbia a che fare con quella sofferta lacerazione che preluda alla creazione di un’opera d’arte, si limiti a soddisfare quel bisogno di stranezza che non è che conformismo.

Anche Francesco Bonami, nel libro Lo potevo fare anch’io, in cui l’autore cerca di spiegare attraverso l’uso del senno e della sensibilità perché l’arte contemporanea è davvero arte, se la prende con le rotonde, che vengono spesso usate, in un paese in cui anche l’arte è pesantemente inquinata dalla politica, come palcoscenico di scultori privi di talento ma pieni d’amicizie, che ci appesantiscono la quotidianità di oscene sculture.
Bonami descrive i collezionisti di un tempo, che non temevano di rischiare il proprio denaro e la propria credibilità sulla base di una personale valutazione del valore di un artista. Non era quello che tutti compravano, l’oggetto del desiderio, ma quello che nessuno voleva, ed era il coraggio di passare per fessi che premiava sopra ogni cosa. E i musei del mondo hanno beneficiato di questo coraggio, non del mercato fatto dalle mode e dall’esibizionismo.
Esplicativa, riguardo al mutamento dei tempi, la metafora: è come se il proprietario di una squadra di calcio non comprasse i giocatori che gli porteranno gloria, ma andasse in cerca di vecchi campioni, a prezzi esorbitanti, che i trofei li hanno vinti da tempo.
Interessante, nel libro, anche il seguente spunto di riflessione, perché a mio parere applicabile anche ad altri campi del pensiero, in cui invece di prendere in considerazione coloro che agiscono con professionalità e serietà, se ne proclama la sparizione, dovuta invece alla pigrizia di noi utenti: Il problema non è dell’arte che deve ritrovare se stessa, come molti dicono, ma della società che deve ritrovare l’arte, al di là dei numeri, dello spettacolo e della fottutissima comunicazione.

Quanto al mio modo di pormi rispetto alle tesi di Bonami, devo dire che ho vissuto il libro con sensazioni contrastanti, in certi momenti in totale accordo con le tesi dell’autore, in altri con palese fastidio e con la sensazione che anche lui si stesse un po’ arrampicando sugli specchi.
L’arte contemporanea non mi è mai stata indifferente, sulla base di due pulsioni con cui cerco di di ovviare all’ignoranza:
- una confusa emozione, assolutamente non spiegabile in termini razionali, che mi coglie davanti a certe opere, e di cui sono grata, sentendomi quasi inconsciamente parte di qualcosa di serio;
- il fastidio che mi ha sempre creato la qualunquistica frase: potevo farlo anch’io, che mi causa una pesante orticaria e la voglia di celebrare acriticamente merde d’artista, ruote capovolte, ferite nella tela, centrini di macchie di colore.

E’ però un dato di fatto che davanti ad un’arte in cui la tecnica non serve più (almeno in apparenza, perché magari dietro ci sono difficoltà di realizzazione che non si percepiscono al primo sguardo) è più facile diventare preda di un imbroglio, di ciò che ti raccontano, come se dovessi imparare ad amare un libro solo avendone ascoltato il riassunto da più parti.
Dunque, non resta che fingersi nel proprio intimo collezionisti di un tempo, rischiare con se stessi, e apprezzare quello che farebbe piacere vedere a casa propria, non solo perché “carino”, ma perché emozionante, intelligente, o pazzesco.

PS: due ultime annotazioni in questo logorroico post
1. Bonami, capisco che un libro illustrato costerebbe moolto di più, ma francamente non puoi parlarmi di decine di artisti semi sconosciuti alle folle senza uno straccio di fotografia di ciò che descrivi. L’intento pedagogico subisce un danno non da poco!
2. Ho riportato alcuni brani degli autori, qualche volta senza virgolette, se decidevo di cambiare o omettere qualche parola per brevità. Che dire, atteggiamento poco serio, ma è il privilegio di un blog letto da pochissimi, fregarsene del copyright.

giovedì 9 dicembre 2010

No, non è normale


Se c'è una cosa che nell'infanzia sembra non avere la minima importanza, a meno che non influisca sugli eventi della giornata (piove, niente piscina!), è il tempo, in senso meteorologico - weahter-Wetter, anche se a ben pensarci pure il tempo - time - Zeit non viene trattato con gran considerazione fino a che non comincia inspiegabilmente a correre, verso i trenta.
Dunque, che un bambino di due anni e mezzo, durante la lettura di Pimpa e Olivia Paperina - tu sei gialla, Olivia - anche il sole è giallo - mi guardi e dica: Mamma, ma dov'è andato il sole? Non lo vedo da molto tempo, è qualcosa di molto diverso dalle consuete lamentele da conversazione da marciapiede, alla ah, signora, questa pioggia/sole/nebbia/siccità/neve.
E' qualcosa da prendere sinceramente in considerazione, per opporsi con forza al cielo-colabrodo che ci sta angustiando da troppo tempo. Ok, ora basta.

martedì 7 dicembre 2010

Celere?


Affascinata da sempre dall’illusione di libertà dell’acquisto in internet, mi ci sto dedicando da qualche tempo, con, finora, soddisfacenti risultati.
L’esperienza in corso riguarda l’acquisto di materie prime per fabbricarmi cosmetici e detersivi privi di petrolio, per evitare di lavare mio figlio a mo’ di pellicano della Louisiana, con la formula alla provitamina BP.

Mi sono rivolta a una di quelle farmacie che hanno annusato l’affare, e hanno sviluppato un potente negozio online in cui illustrano una serie di materiali che da anni erano scomparsi dalla libera vendita (parlo di ossido di zinco, glicerina, oli e burri) insieme a conservanti, emulsionanti, tensioattivi il cui uso, con la lentezza dell’ignorante e la volontà del fanatico, cerco di imparare.
Ebbene: non avevo preso in considerazione il fenomeno “paccocelere 3”.
Il 29 novembre la farmacia mi scrive che il pacco è partito, e me ne fornisce il codice per controllare il percorso sul sito delle Poste. Prendo atto che la merce non è più in mano loro. Ed è un peccato, almeno sapevo dove si trovava.
Per quasi una settimana il sito “trova il pacco” o qualcosa di simile riconosce la paternità del codice, ma si rifiuta di fornire informazioni ulteriori. All’improvviso, il 3 dicembre, il pacco compare in un paesino sconosciuto del basso Lazio, non senza provocarmi nostalgie, studiando google maps, nel rammentare piacevoli vacanze a Sabaudia. Comprensibilmente, anche il pacco celere decide di lasciarsi cullare dalla mitezza di quelle campagne, concedendosi, immagino, anche qualche mozzarella di bufala che spero non dovrò pagare in contrassegno, e laggiù trascorre il weekend.
Ma si sa, l’ospite puzza come il pesce, dunque il 6 dicembre lo vedo costretto a sloggiare; non essendo molto avventuroso, sceglie la direzione in cui portano tutte le strade: Roma.
Ora abita lì, e forse solo l’insidiosa disoccupazione lo costringerà un giorno ad emigrare verso il nord, sperando che mi permetta di intercettarlo prima che passi il confine.

Non avevo capito che il pacco celere 3 viaggiasse ad autopropulsione, probabilmente a piedi e senza scarpe. Se lo vedete, vi prego di ospitarlo e di dargli due soldi per la corriera, che rimborserò in contrassegno.

mercoledì 1 dicembre 2010

La luna e il dito


Mi frulla in testa da qualche giorno una considerazione del magistrato Raffaele Cantone, che da Fazio presentava il suo libro.
Ha parlato tra l’altro di un’inchiesta che ha condotto all’arresto di veterinari compiacenti che celavano le malattie delle bufale da latte per permetterne lo stesso la vendita. La reazione più diffusa, però, non è stata di sollievo, in quanto liberati da almeno questa banda di delinquenti che giocano con la nostra salute.
La reazione generalizzata è stata quella di condannare l’inchiesta, che si rivolgeva a un settore produttivo funzionante, e dunque finiva per danneggiare la crescita economica di un settore importante.

Cantone ha detto: la gente non guarda la luna, guarda il dito che la indica.

Ecco: questa, per me, è uno dei più pericolosi baratri in cui il Berlusconismo (in senso lato, composto da tutto il carrozzone di affarismo e malafede che si trascina dietro da sempre) ha portato a questo Paese. Non è più possibile guardare al fatto, ed alla sua incontestabile gravità. Non si pensa alle parole dei criminali intercettati, ma esclusivamente all’opportunità dell’intercettazione. Non ci si sofferma un attimo sui commenti che i diplomatici americani hanno dedicato al nostro presidente del consiglio, si esecra il terrorismo cosmico di Assange. Non si prova gratitudine e aspettativa di fronte alle inchieste sulla corruzione nei grandi colossi economici, ma si biasima gli effetti che ciò potrà avere sull’economia del Paese.
E’ uno degli aspetti di cui dicevo, scrivendo che non c’è più un sentiero comune su cui discutere.
Non potremo mai immaginare un’uscita da questo pantano, se la legalità non diventerà per tutti la prima cosa da difendere – anche contro interessi economici, che poi, ed è la cosa più inconcepibile, pare vengano difesi strenuamente da una moltitudine di persone al solo fine di favorire il privilegio di pochi.

In giardino a cercare aiuto

Letto “in giardino non si è mai soli” di Paolo Pejrone.
Di questi tempi mi rendo conto di leggere appassionati giardinieri per scovare idee eccezionali e consigli puntuali. E mi rendo conto che Pejrone qui intendeva semplicemente trasmettere la passione e la curiosità che rendono tale un giardiniere, e raccontare le piante e le atmosfere amiche dei suoi giorni.
Io, affamata di utili indicazioni, girovagavo stancamente attraverso lezioni di vita, dimostrando di non capire una mazza. Colpa mia, e dell'ansia d’aiuola.