mercoledì 15 dicembre 2010

Il funerale di Gianna

Il 10 dicembre è morta Gianna.
Copio qui le parole con cui al funerale l'ha salutata nonno G, per ricordare una donna dal coraggio e dalla volontà eccezionali. E per ricordare che non" tutti sono uguali e rubano alla stessa maniera".

Gianna era nata a Burana, piccolo centro agricolo in provincia di Ferrara, in una famiglia di braccianti e antifascisti, quindi in un contesto che prometteva povertà, fame e angherie da parte del regime, ma anche, come lei stessa diceva, grande solidarietà umana e reciproco aiuto. Il lavoro era duro, e non solo nei campi del padrone, ma anche nelle risaie del Piemonte, dove poco più che bambina, al momento del trapianto, andava con la madre per accumulare quel poco che poteva permettere acquisti importanti come un paio di scarpe, o un pezzo di stoffa.
Ma aveva un sogno, Gianna, quello di fare l’infermiera, e ci riuscì, ad ottenere quel diploma, superando ogni difficoltà. Quel diploma la portò in XXX, prima all’infermeria del XXX, poi all’Ospedale civile, nel reparto XXX per le malattie tubercolari. Si era in pieno fascismo, e in più in guerra, ma tutto ciò non fermava Gianna se si trattata di combattere le ingiustizie. In ospedale non avevano neanche un giorno di festa e subito lei cominciò la sua lotta con l’ufficio Personale. Da sola naturalmente. Perché le compagne avevano paura. E vinse, perché le leggi lo prevedevano. Alcuni antifascisti, perché ce n’erano in ospedale, si accorsero del temperamento di quella ragazza, e la contattarono: si trattava di sottrarre medicinali e materiale per medicazione, portarli fuori e consegnarli lì, tra il mais, dove qualcuno la aspettava. (...) Quando, all’indomani dell’8 settembre, salirono sui colli i primi partigiani, la sua scelta fu immediata.
Il 9 ottobre 1943, giorno del suo ventitreesimo compleanno, i suoi genitori vennero a trovarla. Passeggiavano, e si sentivano rumori lontani che sembravano spari. Cos’è? Chiede il padre. “Sono partigiani, papà”. Non avrai mica dei grilli per la testa? “Scherzi? Sto così bene in ospedale”. Il giorno dopo Gianna salì in montagna insieme all’amica infermiera Jole De Cillia, la partigiana “Paola”, medaglia d’argento, uccisa nel dicembre ’44 dalla Decima MAS.

Iniziava così l’epopea partigiana: in montagna, fino ai rastrellamenti del novembre ’43; poi in pianura come gappista (tra l’altro fabbricava bombe da introdurre nelle caldaie bollenti dei treni nei depositi della stazione) e come staffetta. Evitò l’arresto per un soffio il giorno di un appuntamento con Oreste Cotterli che sarà impiccato il 29 maggio ’44 a San Giovanni al Natisone. In maggio fu chiamata in montagna, perché si era saputo che era ricercata dalle SS. Era da poco giunta, quando un mattino fu sorpresa in una baita dai tedeschi: si salvò rotolando giù per un pendio in mezzo ai rovi, tra le pallottole che le fischiavano attorno. E in montagna visse l’esaltante epopea della zona libera della Carnia, i grandi rastrellamenti, l’occupazione cosacca, il durissimo ultimo inverno, nascosta in un bunker con i comandanti garibaldini Andrea, il suo futuro marito, Barba Toni, Marco. A febbraio riprese l’attività nei paesi della Carnia, vestita da montanara, tra i cosacchi presenti ovunque, per riannodare i fili, riallacciare i contatti. E poi di nuovo in pianura dove partecipò alla liberazione di XXX. Nel dopoguerra le difficoltà non cessarono, cambiarono natura. Si trattava ora di gestire una famiglia con un figlio, e poi un altro. La situazione diventò durissima quando il marito Andrea fu inviato a Venezia a dirigere la federazione del PCI. Il partito pagava pochissimo i suoi funzionari e allora era necessario far convivere famiglia e lavoro. Trovò impiego all’INAM, ma dovette lottare contro prepotenze di ogni tipo, perché era comunista, perché era partigiana, perché era iscritta alla CGIL. Addirittura la trasferirono a San Donà di Piave, che doveva raggiungere ogni mattina col treno, lasciando il figlio nelle mani di improbabili baby bitter, perché allora era così la vita delle ex partigiane. Ma alla passione politica, all’impegno sociale non rinunciò mai.
Io l’ho conosciuta all’interno della Sezione Gramsci del PCI, in XXX. Nelle riunioni , si sedeva vicino al segretario e ascoltava. Prendeva la parola solo verso la fine e noi aspettavamo un po’ preoccupati il suo intervento, perché sapevamo che con lei si andava subito al sodo: cari compagni, bisogna fare questo, bisogna fare quello. Quando? Domani mattina, e ci incastrava tutti, perché aveva il prestigio e l’autorità per farlo; e perché sapevamo che lei avrebbe lavorato più di tutti noi. E lo stesso succedeva in Circoscrizione; e per la vendita dell’Unità per le case del quartiere la domenica.
Ci reclutava, marito compreso, e prenotava un numero incredibile di copie. Io personalmente odiavo quegli appuntamenti, perché mi vergognavo, e spesso comperavo a me stesso un po’ di copie che poi nascondevo dietro qualche pianta nell’atrio dei condomini. Lei invece vendeva intera la sua parte e si introduceva nelle case con una abilità incredibile: “Ma che bei fiori, signora! Ma come fa?” e piano piano arrivava al punto che voleva, alla vendita con annessa propaganda.

Quando entrò in crisi il PCI, non entrò in crisi Gianna, che riversò tutta la sua attività nel Comitato per la difesa della Costituzione, che dirigeva con determinazione; nell’ANPI, dove condusse la sua battaglia affinché alle donne della Resistenza fossero riconosciuti i meriti che a loro competevano; nell’organizzazione ogni 24 di aprile della manifestazione in memoria dei caduti di XXX, e in ogni occasione si presentasse di lotta per la democrazia e il progresso sociale, e per la memoria della Resistenza. Ancora nel letto d’ospedale, alla vigilia del Congresso provinciale dell’ANPI che si è tenuto due settimane fa, levatosi il boccaglio dell’ossigeno, a me e a Giulia che eravamo andati a trovarla, ha sussurrato con fatica: “Mi raccomando, al Congresso parlate della scuola, perché i giovani devono capire, devono sapere cos’era la Resistenza”.

Questa era Gianna, persona indimenticabile, che io collego ai migliori anni della mia vita, perché ho conosciuto, con lei e accanto a lei, le persone più straordinarie per umanità, moralità, intelligenza e coerenza, quelle per merito delle quali la vita, al di là di delusioni e fallimenti e degli sconsolanti paesaggi odierni, può essere un’avventura che vale la pena di essere vissuta.

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