lunedì 31 maggio 2010

La follia di una donna innamorata, ovvero psicanalisi del lettore


Lo ammetto: ho interrotto per un mese la lenta e gustosa rilettura di Memorie di Adriano, nonostante l’imperatore non lo meritasse; libro sempre sorprendente (con assoluta ripetitività ad ogni pagina , il cervello le membra, le velleità di scrittura si pongono il quesito: ma come cavolo ha fatto, la Yourcenar?). In ogni caso ora l’ho ripreso.
Devo invece recensire il libro reo dell’interruzione, iniziato nel weekend alle terme (non è Memorie di Caracalla) e terminato venerdì scorso, La follia di una donna innamorata di Susan Fromberg.
Seicentosessanta pagine, scritte da una donna, ambientate alla fine dell’800, insomma, tutte caratteristiche che corrispondono alla mia definizione di libro perfetto. La storia di Agnes, che passa 17 anni a imbastire e realizzare la sua follia di donna innamorata (il titolo richiama una sindrome che il direttore del manicomio conia per incasellare il tipo di pazzia della protagonista), e i successivi sessanta a espiarne le conseguenze tra manicomio e vita, è assolutamente originale. Lo straniamento di leggere pensieri comunque novecenteschi in un libro di ambientazione da romanzo classico è per me piacevole, come lo è stato leggendo Il petalo cremisi e il bianco (nel quale ancora più spesso mi dimenticavo della reale età del libro, salvo sobbalzare alla prima descrizione cruda ricordandomi di leggere un contemporaneo); è un gioco nel tempo che ho sempre amato fare, immaginando commistioni tra ora, passato e futuro, vagando come Topolino e il professor Zapotek nella macchina del tempo.
Ma qualcosa non tornava. Ho pensato per molte pagine che non mi convincesse la scrittura, perché sentivo zoppicare un particolare che non riuscivo ad afferrare. Poi, con la descrizione del processo, una volta allentata la tensione dell’innamoramento e della tragedia, mi sono riconciliata anche con lo stile, e ho ripreso a chiedermi cosa mai mi infastidisse (non nel senso di annoiarmi, semplicemente cosa mi impedisse di essere totalmente entusiasta).

E alla fine credo di dover ammettere che, come per la letteratura russa di un precedente post, il problema sia mio, e riguardi l’incapacità di accettare la descrizione di temperamenti così totalmente passionali, irrazionali, folli da rovinare le proprie esistenze e da risultare insopportabili agli altri. Il mio annoso problema ad accettare la frattura tra ragione e sentimento, nella vita e nella letteratura, che sia causata dalla natura, dal gin o da un colpo in testa.
Ovvio, dunque, che ami Dickens.
Ovvio che soffra troppo con Raskolnikov.
Ovvio che devo andare dallo psicanalista per chissà quale trauma infantile.

Definitivamente rovinati


Marito: - hanno rubato diverse opere al Museo di Arte Moderna a Parigi..
Nef: - Oh, no! Di quali autori?
Marito: - un Braque, un Minou, un Bizet, un Matisse...

venerdì 28 maggio 2010

Iniqua irresponsabilità


Come ho già fatto ogni volta che trovo un articolo che esprime quello che vorrei dire io, ma con molta più chiarezza, lo riporto, facendolo mio ma citando la fonte: dalla Repubblica di oggi, L'iniquità irresponsabile di Massimo Giannini.

"Più di così non si poteva fare", dice Berlusconi della manovra approvata dal governo "salvo intese", con una formula da vecchio pentapartito della Prima Repubblica. Almeno su questo il presidente del Consiglio ha ragione: 24 miliardi sono tanti, per un Paese che da una decina d'anni perde competitività e produttività e langue con un tasso di crescita dello 0,5%. Tuttavia meglio di così non solo si poteva, ma si doveva fare. Su questo il premier ha torto marcio.

Non sono in discussione la necessità politica e l'urgenza economica di questa legge finanziaria fuori stagione, fatta di "sacrifici duri" e varata in corsa "per evitare che l'Italia faccia la fine della Grecia", secondo la definizione-shock usata tre giorni fa da Gianni Letta. Sono invece in discussione altri due aspetti, non meno essenziali: l'irresponsabilità ideologica e l'iniquità sociale. L'irresponsabilità ideologica è iscritta nel codice genetico del berlusconismo, come forma di negazione della realtà e di manipolazione della verità. Questa "manovra epocale", o "tornante della storia" secondo la prosa enfatica di Tremonti, è precipitata sul Paese in un improvviso clima di "emergenza nazionale". Per più di due anni il premier ha raccontato che la crisi non c'è mai stata, o che comunque era già finita. In meno di due settimane si scopre invece che rischiamo la bancarotta. Un drammatico cambio di fase. Per gli italiani è un trauma psicologico, per il governo un cortocircuito politico. L'unico modo per uscirne sarebbe stata una grande operazione di onestà, e dunque una forte assunzione di responsabilità. Berlusconi, in sostanza, avrebbe dovuto presentarsi in tv e dire: signore e signori, i fatti mi hanno dato torto, ho sbagliato la mia analisi sulla crisi, me ne scuso e vi chiedo di fare, tutti insieme, un grande sforzo per salvare il nostro Paese e la moneta unica.
Questo sarebbe stato un "discorso sul bene comune", comprensibile e condivisibile. Esattamente quello che è mancato in queste ore, e che deve essersi perduto in questi giorni nell'aspro braccio di ferro tra il premier e il suo ministro del Tesoro. Ieri, in conferenza stampa, Berlusconi ha continuato a negare l'evidenza, segnando una "cesura" arbitraria tra la crisi finanziaria partita due anni fa in America con i mutui subprime, trasformatasi poi in crisi mondiale per le economie reali, e la crisi "speculativa" contro l'euro esplosa in queste ultime settimane. Ha scoperto oggi che "abbiamo un debito pubblico insostenibile per colpa dei governi della Sinistra" (dov'è stato lui dal '94 in poi, e perché dal 2001 al 2006 ha azzerato l'avanzo primario che Ciampi aveva faticosamente portato al 5% del Pil?). Ha scoperto oggi che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità", e per questo "dobbiamo ridurre la presenza dello Stato in economia". Una lettura auto-assolutoria, che finge di non vedere le connessioni di questo disastro globale, per occultare le omissioni del governo di fronte ad esso.

Tremonti, al contrario, non ha mai negato la crisi. Non ha mai nascosto le difficoltà della fase, anche se non ha brillato per originalità delle soluzioni. Davanti all'attacco speculativo contro i debiti sovrani dell'eurozona, e di fronte al perdurare di una recessione ostinata, il ministro è stato coerente. Ha impostato una manovra "pesante", che riduce in due anni il deficit a colpi di taglio alla spesa pubblica. E l'ha affidata al premier, perché se ne assumesse la responsabilità di fronte al Paese. Ma è esattamente questo che il Cavaliere non può accettare. Che tocchi a lui l'ingrato compito di associare la sua immagine alla parola "sacrifici". Che tocchi a lui farsi "commissariare" non da Tremonti ma dalla verità, cioè dall'interpretazione che Tremonti dà della crisi. Che tocchi a lui, in definitiva, fare quello che fanno tutti i governanti normali nelle normali democrazie occidentali: spiegare ai cittadini cosa succede, e "rendere conto" delle scelte che si fanno. Tutto questo cozza contro l'ideologia berlusconiana, nutrita di suggestioni narrative e di moduli assertivi che rifiutano a priori il principio di realtà e dunque non contemplano, neanche a posteriori, l'etica della responsabilità.

L'iniquità sociale di questa manovra discende dalla sua stessa irresponsabilità ideologica. È giusto tagliare la spesa pubblica corrente e improduttiva, che soprattutto i governi di centrodestra hanno fatto crescere in questi anni a ritmi superiori al 2% l'anno. Ma è evidente a tutti che mai come stavolta la stangata è squilibrata e "di classe". Pesa quasi per intero sulle spalle del pubblico impiego. Nessuno nega le sacche di inefficienza e i relativi "privilegi" che si annidano in questo settore: dall'impossibilità di essere licenziati o cassintegrati ai rinnovi contrattuali spesso superiori al tasso di inflazione programmata. Ma nessuno può negare che i livelli retributivi, nel settore pubblico, siano in assoluto già bassi e spesso bassissimi. Come si fa a chiedere il tributo più doloroso a quei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici che guadagnano in media 1.200 euro al mese, senza chiedere nulla a chi ha redditi infinitamente superiori nel privato, nelle professioni, nelle imprese? E come si fa a non vedere che Germania, Frangia e Gran Bretagna hanno varato manovre ancora più severe, imponendo lacrime e sangue prima di tutto ai ceti più abbienti e alle banche?

Ma anche qui, in fondo, c'è una spiegazione ideologica che giustifica la scelta. Si parte dall'assunto forzaleghista che vuole i dipendenti fannulloni per definizione. E dunque, implicitamente, il governo gli propone uno scambio immorale: io ti rinnovo la tua "sinecura", ma in cambio ti congelo gli stipendi per tre anni. E qui si annida l'estremo paradosso di questa manovra che si profila come una vera e propria controriforma. Con la batosta sul pubblico impiego e la scure sugli enti locali, Berlusconi azzera in un colpo solo le uniche due riforme di cui poteva fregiarsi in questo primo biennio di governo: la riforma del pubblico impiego di Brunetta e la riforma federalista di Bossi. Il decretone di ieri le distrugge entrambe, almeno fino alla fine della legislatura.
Di buono, alla fine, resta la quantità dei tagli, non certo la qualità. Speriamo che basti a convincere i mercati che noi non siamo tra i "maiali" di Eurolandia. Ma di certo non basta a dire che il Paese "è in mani sicure". E meno che mai a pensare che "siamo tutti sulla stessa barca", come ha detto ieri il Cavaliere. In troppi, a partire dagli evasori fiscali che hanno scudato i capitali, non rischiano la pelle in mezzo alla tempesta perfetta. Se ne stanno sul molo, a godersi lo spettacolo.

martedì 25 maggio 2010

Rettili da bagno


NEF - Non sono male, questi animaletti di plastica da bagno per Babi, tranne forse Winnie the Pooh, che è immobile in una posizione da cadavere nella bara..
NONNA D. - Ma no, nemmeno Winnie Pooh non è male, forse solo la rana...è dubbia...
NEF: - Quale rana??
NONNA D. - quella viola con il fiocchetto..
NEF: - immagino, che sia dubbia: è un asino.

lunedì 24 maggio 2010

La poesia nel cuore


Visto il numero di frequentanti di questo blog, l’operazione che ho pensato è un tantino pericolosa, rischio di trovarmi da sola a recitare nella penombra i versi che fanno breccia nel mio cuore deserto di parole..Vi ho fatto sufficiente pena? Allora vi chiedo la massima collaborazione: commentate questo post inserendo il testo della poesia che più vi ha emozionato, antica, moderna, su qualsiasi argomento, di qualsiasi nazionalità, da Saffo a Majakovskij, da Auden a Quasimodo, da Neruda a Catullo. Poiché ci conosciamo quasi tutti, se qualcuno ha problemi di inserimento, mi scriva una mail e lo farò io per lui. L’unica indicazione che vi do è: chi ha nel cuore l’intero Purgatorio, o l’epopea di Gilgamesh e Enkidu, si faccia violenza, limitandosi a inserire la sua seconda scelta, magari Ungaretti…

I giallisti più amati


Dunque: è finito il sondaggio "il giallo più giallo", e francamente, all'ora del commento, sono imbarazzata. I voti sono stati la bellezza di sei, spiaccicati in giro per lo schermo più che mai, per cui formulare una qualsiasi osservazione sensata risulta molto difficile. Il campione ha più o meno la valenza di quelli dei sondaggi di Lilo&Greg su Radio2 (...siamo noi dell'ufficio sondaggi...sette...ma abbiamo coinvolto anche le nostre mogli, eh!), e non c'è un singolo autore che abbia raccolto più di un voto. E' indispensabile concludere che è abissale la differenza tra chi ha preso un voto e chi non ne ha preso nessuno: a questo punto la feccia del mondo letterario, Hammett, Chandler, Mankell & c, si renda conto della sua pochezza e ne tragga le sue conclusioni!
I gioiosi vincitori (che siano vivi o meno, poco importa, visto che non ne sapranno niente comunque) sono dunque: Agatha Christie, di cui ho letto molto, ma ammetto di dubitare delle sue doti squisitamente letterarie, pur ammirandone gli intrecci; Andrea Camilleri, la cui intelligenza ed il cui acume trasudano da ogni riga scritta e da ogni parola detta ad un qualsiasi microfono; Georges Simenon, nelle cui cupe atmosfere riconosco una professionalità eccezionale, nonostante mi manchi un po' di luce (censuro invece i romanzi non gialli: si sappia che non li condivido); M. V. Montalban, autore di estrema classe dalle ambientazioni da canicola, mare e cibo, Barcellona che si contrappone a Parigi; A. C. Doyle, magnifico, e chi mi segue sa come amo gli inglesi che scrivono.
Un voto va a: sei una pazza, manca... ma chi l'ha scelto non ha rispettato il regolamento, che imponeva di commentare il post di inizio con l'autore mancante, dunque rifiuto pubblicamente l'accusa di pazzia fino ad arcano svelato.
Ho avuto invece da altri votanti consigli interessantissimi (Qiu Xiaolong, Boris Akunin), che ho messo nella lista dei libri del desiderio (potrei pubblicarla, in effetti; magari invoglia qualcuno alla partecipazione).

giovedì 20 maggio 2010

Partita di giro

Prendo spunto dal post di Parliamone - pur, lo sottolineo, senza alcun altro riferimento alla sua avventura, di cui non conosco abbastanza da parlarne - per qualche considerazione su una piaga sociale a spettro mondiale, che pare sopravvivere ai secoli e alle crisi economiche con una pervicacia impressionante: il matrimonio.
Ma no, non l'istituto, non la vita matrimoniale: la cerimonia.

Ma no, non gli aspetti religiosi, quelli li lascio a chi ne ha titolo: l'organizzazione della cerimonia.

Sono pochissime le famiglie che lasciano piena libertà ai due maritandi. La mia, addirittura, trovava tutto questo fervere di attività superfluo; se non ci fossimo sposati sarebbe stato assolutamente lo stesso, e se il pranzo fosse consistito in una distribuzione di gavette di sbobba fuori dal Municipio, non avrebbero avuto niente da obiettare; io ho dovuto quasi combattere per ricondurre il mio matrimonio ad una parvenza di ordinarietà, dunque non posso parlare per esperienza personale; parlerò da osservatrice incuriosita da questi fenomeni.
Quello che mi impressiona molto è il concetto di partita di giro a cui spesso queste cerimonie si riducono. Non nel senso, umano, basato sulla considerazione: stai mettendo su famiglia, da parente ti aiuto con quello che ho, e magari tu un giorno aiuterai me o i miei figli nello stesso modo, se potrai.

No, qui si parla di ricavi, spese, e ritorni immediati: mi inviti, mi paghi l'albergo se vegno da lontano, dunque ti farò un regalo adeguato, ma il pranzo deve prevedere almeno dodici portate, altrimenti non ti facevo questo regalo, e poi la bomboniera deve essere il più possibile appariscente, così giustifico anche con chi mi aspetta a casa l'esborso del regalo e il viaggio intrapreso.

Ma la cosa più curiosa, è che tutto questo non si basa sull'avidità, sull'attenzione ai soldi; questo comportamento, che a un extraterrestre apparirebbe un fatto di attenta distribuzione di dividendi tra manager, in realtà ha tutta un'altra lettura.

A nessuno fondamentalmente frega niente di passare la giornata seduto come un deficiente a mangiare dodici portate, in quest'epoca in cui ci si ostina a prevedere pranzi che avevano un senso quando la pancia era vuota il resto dell'anno, e quando nemmeno l'un per cento degli ospiti era in costante lotta con la bilancia.
Nessuno passerà più di due minuti in tutta la sua vita a rimirare la bomboniera costosa che si è procurato, e che si è affrettato a porre in bella mostra nella orrida vetrinetta di famiglia, altra piaga sociale.
Semplicemente, questi comportamenti non riescono a svincolarsi da una lettura distorta della considerazione sociale che una famiglia deve assolutamente assicurarsi, a ogni costo e oltre ogni razionalità, attraverso lo sperpero più ampio possibile, e indipendentemente dalle reali possibilità economiche e dai reali bisogni che la construenda famiglia avrebbe. E con un indotto, che ogni sabato ringrazia, di ristoranti elefantiaci, wedding planner, pasticceri, fioristi, e purtroppo spesso anche ridenti parrocchie poste in punti strategicamente vantaggiosi.

A pensarci, se storicamente la famiglia media perseguiva questa considerazione sociale in tutti i momenti della sua esistenza, attraverso un insieme di comportamenti che venivano, a torto o a ragione, definiti dignitosi, una condotta ritenuta morale dei membri, magari una sobria capacità di cristiana carità (pur senza entrare ora in una valutazione sulla reale consistenza di questi parametri), in questa obnubilata società che ha perso da tempo immemorabile la consapevolezza della sostanza delle cose, ma ora anche qualsiasi residuo di forma che poteva salvaguardare almeno dal ridicolo, questo ossessivo perbenismo nelle cerimonie non risparmia anche le famiglie i cui membri poi non si vergognano di risultare pubblicamente nullatenenti ai fini fiscali, o di esser visti a fare la fila per scippare una pensione di invalidità fingendosi ciechi.

mercoledì 12 maggio 2010

Il dito del professore


Sola, in un corridoio su cui si affacciano mille uffici, mando decine di fax, per l’assenza del benemerito collega che di questo si occupa da mane a sera.
Regna un silenzio plastico, che molti giudicherebbero innaturale, ma chiunque in questo posto sa che è dovuto alla presenza del Marchese de Sade, il cui incedere tra le stanze riporta ad un ricordo molto vivido nella vita di tutti, ovvero al dito impietoso del professore che scorre il registro per decidere chi sottoporre al supplizio.
Quando il Marchese passa, vorrei coprirmi il capo con un paralume e attaccarmi alla presa, per sembrare con più convinzione qualcosa di inanimato. O potrei appendermi diversi cappotti alle dita, fingendomi appendiabiti fuggito all’inventario.
L’amico fax non condivide a sufficienza questa profonda voglia di anonimato; continua a sbuffare, gracchiare, fiiifittare con i consueti suoni che, sparati alle spalle del Marchese errante, risultano assomigliare penosamente alla famosa pernacchia di De Filippo al Duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari, e se c’è una cosa che il Kapo non sopporta è la mancanza di rispetto via fax.
Se ci sia qualcosa che il kapo sopporti, è cosa ancora da scoprire, ma è un'altra storia.
Ed ecco che accade il peggio: confusa dalla vicinanza al pericolo, muovendo in modo impercettibile le dita sulla tastiera, compongo un numero di telefono invece di quello del fax, e dopo brevi squilli tuona una voce poco disposta al dialogo elettronico, forse per aver già vissuto in giornata simili approcci fischettanti:

Pronto? Pronto? Ma va in mona de to mare!

Ecco: il dito del professore si è fermato.

martedì 11 maggio 2010

Escort sitter


E’ sempre un piacere ascoltare la collega S, alla macchinetta del caffè; è sempre sorprendente e coinvolgente, nei suoi racconti un po’ folli e un po’ naif.
Ieri ricordava i vecchi tempi, quando, disoccupata, per cercare lavoro usava pubblicare annunci su giornali locali. Tutto accadeva molto lentamente, il telefono languiva, non si può dire che il sistema garantisse la pagnotta.
Con una sola eccezione, la settimana in cui il telefono di casa sua diventò bollente, e la madre, resasi centralinista in assenza della figlia, cercava di promuoverla come poteva, tenendo viva l’attenzione dei potenziali fruitori. S. gioiva, chiedendosi da cosa dipendesse questo improvviso interesse. E lo scoprì grazie a un signore gentile, che dopo numerosi tentativi in cui la madre garantiva la professionalità della figlia, riuscì a parlare direttamente con S, chiedendole se gradisse accompagnarsi a lui la domenica sera.
S. mise giù la cornetta di scatto, e poi, presa dal panico, corse a riguardare il suo annuncio, nel quale aveva cercato per una volta di ampliare il numero di fruitori offrendosi anche per compagnia ad anziani non autosufficienti:

Giovane disoccupata offresi come baby sitter e eventuale accompagnatrice.

Ridiamo tutti. S. ammette che l’annuncio era involontariamente ambiguo, e viene subito corretta dal collega G., che ribatte che di ambiguo non c’è proprio niente.

Ma ora non posso fare a meno di chiedermi che tipi siano, le decine di uomini che adocchiano un annuncio come questo, al di fuori degli spazi riservati alle centinaia di massaggiatrici che infestano settimanalmente ogni bacheca, e si fregano le mani compiaciuti. Pensando a cosa?
Al solo suono della parola, che muove barbari istinti irrefrenabili?
Al travestimento da bebè per un gioco erotico?
Ai due piccioni con una fava, prima con me e poi gioca coi figli che vado al cine?

mercoledì 5 maggio 2010

deo mio!


Se io entrassi di soppiatto nell'ufficio di fronte, e spegnessi l'interruttore della presa a cui è stato attaccato un mortifero deodorante per ambienti alla vaniglia, otterrei:
un divertentissimo litigio tra le colleghe dai rapporti già tesi che occupano la stanza, poichè una penserebbe che l'altra l'abbia spento senza parlargliene;
un deciso alleggerimento dell'impatto ambientale ;
un misurabile miglioramento della salute pubblica;
l'allontanamento della fastidiosa sensazione di trovarsi completamente vestiti e pieni di scartoffie in mano sulla spiaggia di Malibu
con l'unica controindicazione del prepotente riemergere della collega dall'ascella pezzata.

Valuteremo i pro e i contro e faremo sapere.

lunedì 3 maggio 2010

A mo' di Caracalla

Esperienza assolutamente nuova nel fine settimana, sotto diversi aspetti: Marito, sacrificando il suo personale desiderio di terme con cascata cervicale bollente, mi ha regalato per il compleanno 8 ore da tortellino nella piscina termale, con pranzo light sul bordo della piscina e massaggio rilassante professionale, il tutto senza famiglia, come Remì.
Analizzando i singoli aspetti della vicenda:

- 8 ore senza Babi e senza essere al lavoro, non accadeva dalla di lui nascita: che dire? Sembrava strano poter tenere il libro in mano senza interruzioni, chiacchierare con Parliamone senza requie, scoprendo di condividere la passione per il ballo del cotechino nell’acqua di cottura (se non ne fossimo uscite da sole, pur a fatica, a sera ci avrebbero scolate dalla piscina con le presine). Mi guardavo intorno con un inutile istinto di sorveglianza del pargolo, sussultavo a ogni vagito, e poi mi tranquillizzavo tornando in questo mondo di me stesse, con cui forse non so più vivere, non ne vedo più un motivo chiaro.
Lo ammetto: anche se non l’avrei mai detto, anche se ridacchiavo incredula davanti alla descrizione di assurde nostalgie per brevi assenze della prole da parte di blogghiste che frequento abitualmente, Babi mi mancava. Solo otto ore e mi mancava. Son cose che danno da pensare, eh?

- Pranzo light sul bordo piscina. Il bordo c’era, ma fortunatamente disponevamo di sedia e tavolo. Quanto al pranzo, a definirsi light era un’insalatona con circa quindici mozzarelle e un vasetto di olive denocciolate da 350 grammi, così da rendere felice e incolpevole la totale sazietà che seguiva a ruota;

- Il massaggio: ecco, qui avevo riposto molte speranze, essendo una tipa che per un grattino alla schiena darebbe via la macchina; quando mi è stato detto che il massaggiatore si sarebbe chiamato Guido, la cosa già mi ha disturbata un poco; quando mi son dovuta sdraiare seminuda su un lettino largo 25 centimetri, in cui si pretende rilassamento assoluto pur dovendo costantemente trattenere le braccia da una rovinosa caduta, ho rinunciato del tutto alla perdita dei sensi che queste attività di solito promettono. Il cervello lavorava a tutto spiano per il fastidio di queste mani sconosciute, pur attempate e gentili, per la scomodità, per il tempo che passava, per tante di quelle cose che alla fine l’esperienza ricordava troppo le mie notti, quando tento di addormentarmi districando i pensieri; ma lì almeno è gratis.
Alla fine ho capito. Le mani addosso son cose di famiglia, amici, amanti. Non di: salve, si spogli, si distenda, ecco fatto.

Ho un sogno


Capita solo a me di desiderare ardentemente di trovarmi in un musical?
Il fascino che hanno su di me le scene di canto inaspettato e corale, che coinvolge passanti d’ogni tipo, è assoluto; mi entusiasmano irrazionalmente, e trattengo una certa invidia.
Oggi, svolgendo una tra le mie più ripetitive e cretine attività lavorative, con la radio nelle orecchie, ho incontrato il vecchio Terence Trent D’Arby alle prese con Wishing Well, e solo una lunga abitudine all’autocontrollo mi ha evitato di liberare con una bracciata la scrivania per poi camminarci sopra cantando, oltre alla convinzione che molto difficilmente i colleghi si sarebbero prestati a salvare a ritmo portapenne e mouse davanti al mio incedere, tra il divertito e il diffidente, fino a lanciarsi nella danza favorendomi coretti intonati di “Wish me love a wishing well To kiss and tell A wishing well of crocodile cheers”.
Non sarebbe un mondo favoloso? Il marchese de Sade non sarebbe costretto a levarsi quel palo che frena la fluidità del suo agire e della sua anima, per liberarsi come il duro padre inglese di Mary Poppins? Non costituirebbe il momento dello scioglimento di ogni tensione tra colleghi, della mutua comprensione, dell’attribuzione di un senso a questo nostro riunirci quotidiano tra grigie stanze a ripetere azioni senza speranza?

Forse è malattia legata ai cantori, siano professionisti o oscuri dilettanti, forse per uno stonato la cosa è così inconcepibile da non rappresentare qualcosa di salvifico.
Forse, invece, è che nessuno ci prova mai, e magari sarebbe stupito di incontrare tanto seguito, cantando improvvisamente in metropolitana...

… e invece verrebbe solo filmato da un impietoso cellulare, e finirebbe su youtube, immotivatamente cliccato nella sua giornata di vana e solitaria fama mondiale che non si nega a nessuno.