lunedì 31 gennaio 2011

Il tempo mio e il tempo loro


Ieri sera Javier Marias, da Fazio, ha parlato del suo rapporto col tempo, concetto in genere banalmente trattato, ma che solletica la riflessione su se stessi.
Ha detto che la maggior parte della gente vive il tempo con un senso di panico, cercando di non guardarlo scorrere per non pensare alla sua continua fuga, come se non sentendolo non passasse. Lo scrittore, invece, proprio per ridurre questo panico molto umano, ha bisogno di sentirlo scorrere, il tempo, di guardarlo, anche di perderlo, di viverlo con lentezza; in caso contrario lo sentirebbe fuggire ancora più velocemente.

E ho pensato: ha ragione, dovremmo stare di più a guardarlo, il tempo.

E poi ho pensato che lui probabilmente il suo tempo lo osserva dalla sua scrivania, con la sua penna preferita in mano e una discreta visuale alla finestra, dandosi il tempo di limare una frase fino alla perfezione. Io per troppe ore dovrei guardare il tempo di queste carte che non hanno fine, di decine di fax, di centinaia di mail tra sconosciuti che cercano di risolvere qualcosa di irrilevante.
Eh, no, almeno le mie ore in questo ufficio, continuerò a lasciarle scivolare nel modo meno doloroso possibile, quello del non pensiero. Peccato che contribuiscano anche loro ad invecchiare.

Libri di gennaio


Sono rimasta indietro con i libri, le pagine volano e le parole restano appiccicate alla memoria, meglio scrollarsele di dosso prima che cadano nelle consuete voragini dell’oblio.
D’altra parte, è infinitamente meglio che le pagine lette scorrano e quelle scritte latitino, l’effetto è molto meno dannoso per l’ecosistema.

Dunque: Crepuscolo di uno scrittore, di Francis Scott Fitzgerald. E’ un libro che riunisce racconti, articoli e saggi, dunque estremamente difficile da recensire, a tratti anche faticoso, ma nel complesso molto ma molto docente. Ho sguazzato negli anni Venti attraverso racconti che si depositavano automaticamente in quell’atmosfera pur senza puerili illustrazioni di pantaloni alla zuava, come quando si legge Montalbano e non ci si riesce a liberare del viso di Zingaretti; mi sono divertita con i racconti sui tentativi di risparmiare i primi soldi guadagnati con lo scrivere, ho imparato qualcosa sulle università americane, sulla casa di uno scrittore e sui suoi pensieri.
Poi ho letto Viva l’Italia di Aldo Cazzullo, che si ribella a questa costante e tipicamente italiana riscrittura della storia, che trasforma Risorgimento e Resistenza in momenti di cui vergognarsi, ammucchiando alla rinfusa chi ha passivamente perseguito solo la propria sopravvivenza o il proprio tornaconto con chi ha fatto una scelta che trascendeva il proprio interesse privato, spesso con la naturalezza dell’unica scelta possibile. Alla fine del libro ho riflettuto sulla domanda che ci si pone spesso: cosa avremmo fatto noi?

Non lo so, è troppo facile fingersi eroi in astratto, ma io ho conosciuto gente che per tutta la vita avrebbe potuto rispondere: io ho fatto e sto facendo altro, sempre quello che ho creduto giusto per tutti, a mio rischio; ed è un grande onore averli conosciuti.

giovedì 27 gennaio 2011

Ditemi cosa vi serve ancora


Un numero spropositato di persone che, mio malgrado e soffrendo le pene dell’inferno, sono costretta quotidianamente ad ascoltare mentre parlano di politica, restano incredibilmente indifferenti a qualsiasi novità processuale di questi giorni: sarà anche in parte vero, tutto questo fatto di Berlusconi, ma tanto sono tutti così, destra e sinistra, tutti uguali; solo più bravi a nascondersi.

E dicono questo sentendo notizie di amanti, di festini buei, di decine di ragazze a cena, di minorenni che chiedono 4 milioni per tacere, di capi di stato che regalano letti matrimoniali, di appartamenti-harem in cui si combatte per la casa più grande, di 12 chili di cocaina in garage, di igieniste dentali che finiscono consigliere regionali a 25 anni, di soubrette che diventano ministri, di bunga bunga, di auto di stato che fanno la spola tra le ville, per sorvolare su affari a mio avviso ancora più gravi, come le decine di leggi ad personam, l’affare di Antigua (e qui apro una parentesi: quando vedo Antigua in TV, tentando di non pensare ai richiami letterari che me l’avevano fatta desiderare, trovo incredibile come sia stata devastata da quelle ville orrende, e mi chiedo perché mai tanti ricconi decidano di prender casa in posti così palesemente brutti).

Credo che queste persone continuerebbero imperturbabili a dire che tanto lo fanno tutti anche se si scoprisse ad Arcore un hangar per progettare un attacco alla sede della Comunità Europea con un dirigibile carico di bambole gonfiabili vestite da infermiere al plutonio, se si provvedesse a sradicare dal territorio italiano tutte le conifere perché colpevoli di causare un’allergia al capo, o se entrasse in vigore una legge che togliesse alle donne brutte e a quelle oltre i 35 la cittadinanza italiana.

Il pensiero, che ha sempre bisogno di un sorriso, va all’amatissimo Troisi, che presentando il film “Non ci resta che piangere” disse qualcosa come: volevamo parlare di una situazione che la gente conoscesse, di sensazioni note e condivise, e a chi non è mai capitato di finire nel millequattrocento?

lunedì 24 gennaio 2011

Il paradiso dei perversi


Premetto a questo post che non sto infilando interi generi cine-televisivi nella fogna della Tv spazzatura, e che riconosco l’esistenza di capolavori e di opere buone in ognuna delle tipologie di programma che andrò ad elencare, dedicandomi solo al pattume e al piattume, al “peggio di”. Ognuno può decidere cosa infilarci.

Chissà se tutti hanno i propri riferimenti televisivi trash, quelli di cui ci si vergogna pesantemente, o anche no ma si dovrebbe. Se tutti, non visti o tra le mura familiari, si dilettano con trasmissioni che in pubblico aborrono, o no, ma dovrebbero, e restano sconvolti nel conoscere la perversione dell’altro, senza prendere atto della propria, come i cocainomani.

Un amico confessava che il Processo del lunedì lo rilassava più di ogni altra cosa, pur ammettendone l’assoluta irrilevanza sportiva, e si teneva libera ad ogni costo quella sacrosanta serata. Più di una amica occhieggia dopo pranzo verso Uomini e donne, trovando forse lo spazio di coltivare la propria interiorità solo in quella volgare gazzarra da mercati generali; a decine restano nostalgicamente avvinghiati ai cartoni animati giapponesi della propria infanzia, senza che le storie infantili o il tratto indecentemente scadente dei disegni abbia alcun potere di limitarne la visione; e forse tutti, a volte, blocchiamo il frenetico zapping per impantanarci, più o meno brevemente prima di rendercene conto, in quelle storie tragiche che, non si capisce proprio il perché, a un certo punto la vittima sente il bisogno di render note a chiunque di propria volontà, dopo secoli di tentativi umani di evitare la gogna del paese. C’è poi chi non fa altro che seguire polizieschi, sparatorie, battaglie, incapace ormai di guardare scene che non si rincorrano con la velocità di inserti subliminali, e millantando di riconoscere il colpevole ai titoli iniziali.

Approssimativamente, le perversioni televisive, mi pare possano essere divise in due grandi filoni, pur mantenendo le proprie tipicità:
- il filone infantile, in cui faccio rientrare fetidi cartoni animati, allucinante fantascienza, noiosissime battaglie in costume (intergalattico, da re Artù o da bagno), film che assomigliano troppo al proprio trailer, litigiose trasmissioni sportive;
- il filone casalinghe disperate, in cui inserisco le barbare trasmissioni della tv del dolore, i telefilm piagnoni sulla quotidianità familiare, la piaga dei film TV tipo Rosamunde Pilcher, in cui decine di tedeschi si agitano sull’orlo di ripide coste irlandesi, basterebbe un niente per liberarcene definitivamente.
Temo che le donne appartengano più frequentemente al secondo filone, e gli uomini al primo, più per cultura che per genetica, anche se vorrei esser smentita con veemenza.
Io, lo ammetto, mi riconosco di più nel filone casalinghe disperate, o meglio, nel suo lato cine-telefilmico, rifiutando senza alcun rimpianto la TV del dolore. Sarà per un’infanzia passata con la quasi nonna B, che mi trascinava per il paese tra famiglie che adoravano raccontarsi storie raccapriccianti di famiglie in rovina (giurano che a 4 anni io giocassi alla signora recitando testi tipo: ah, signora mia, sa, mio marito è alcolizzato…), o non so per quale altro motivo, ma il filone infantile mi ha stancata ancora prima che l’infanzia terminasse; inoltre, anche in film che apprezzo complessivamente, il momento dell’inseguimento rappresenta per me una noia pari all'interruzione pubblicitaria, in cui si corre a lavare i piatti; mentre telefilm come La casa nella prateria o Gray’s anatomy hanno sempre rappresentato pericolosi quanto maliardi rifugi, per il sonno della mia ragione.

Sono curiosa di sapere se ognuno di noi rientra in una di queste due categorie, come veicolo di utile spegnimento del cervello nei giorni più distruttivi. In un certo senso la risposta già la so: il nonno G, l’uomo che non ha necessità, è scevro da ogni richiamo televisivo che non ritenga di valore. Ma è l’eccezione che conferma la regola?

venerdì 14 gennaio 2011

Spiegatemi voi


Avete presente quelle affermazioni che si fanno la mattina coi colleghi alla macchinetta del caffè, quando pur di non sedersi davanti al proprio PC ci si sentirebbe pronti a qualsiasi avventura, quelle che abbondano il lunedì e si affievoliscono in numero e violenza il venerdì, quelle che se le parole avessero valore contrattuale ci troveremmo fregati per la vita?
"Rifiutiamoci di sederci fino a che il Kapo non viene rimosso!" "Come siamo con l’idea dell’allevamento di sanguisughe di cui si parlava l’altro giorno?" "La gente ha bisogno di estintori! E noi glieli portiamo a domicilio!" "Allora, questo agriturismo?"

Ecco: leggo sulla Repubblica un articolo che prende ispirazione dal solito libro americano che monta 252 pagine su una di quelle asserzioni che ho appena descritto, e come al solito diventa di enorme successo (liberando almeno una persona dalla schiavitù dell’ufficio, l’autore).
In questo caso si parlava di quanto il lavoro manuale, per esempio quello dell’artigiano, che può toccare con mano il risultato della sua attività, fosse fonte di soddisfazioni ben più serie e importanti del lavoro d’ufficio, e dunque fonte di maggiore serenità. E questo dato di fatto si può estendere anche ad alcuni lavori intellettuali (per esempio, la causa vinta dell’avvocato, o lo stesso libro di quel cavolo di americano che ci ha battuti sul tempo, come al solito..).

Tutto ciò ha scatenato le consuete pericolose riflessioni: da quando ho iniziato a lavorare non ho mai visto un risultato, non ho mai avuto una soddisfazione degna di nota (se non si vuole considerare tale il coraggio di rispondere a tono al Marchese de Sade, o il raro attimo di grazia di archiviare una carta e dedicarsi alle altre tremila sul tavolo). Non ho mai fatto un lavoro di cui io abbia visto un inizio e una fine. Ricevo delle carte, alimento il malloppo, faccio alcune telefonate, le passo a colui che segue, con il sollievo di chi si libera di un parente molesto. Una catena di montaggio di carta da macero.
Anche non considerando le disfunzioni, le inefficienze, le prepotenze, le incompetenze che permeano normalmente le premiate ditte di ragguardevoli dimensioni, e guardando solo al mio lavoro come entità pura e incorrotta, io sinceramente non riesco a capire come si possa definirlo altro che un mezzo legale per mantenere la famiglia. Mi stupisco seriamente quando un collega dice che il lavoro sarebbe anche bello, se libero dalle inefficienze di cui sopra. E ancora di più mi stupisce che non ci sia stato capo, tra i quattro della mia vita, che non abbia indulto in intimi compiacimenti chiedendo a me e ai colleghi se ci sentissimo soddisfatti dal nostro lavoro, e aspettandosi chiaramente una risposta affermativa.

A volte temo che mi sfugga qualcosa, o che mi sia montata la testa circa il mio destino rubato a chissà quali imprese, ma in realtà mi trovo più a mio agio qualificandomi col detto “braccia rubate all’agricoltura”, sospirando ogni mattina mentre abbandono il mio orto in costruzione per questo cimitero delle illusioni.

Parole altrui



Da "Caduto il privilegio, il premier va alla guerra" di Giuseppe D'Avanzo, Repubblica di oggi.

(...)"La nuova davvero pessima la si scorge nelle manifeste intenzioni del premier. Lo si vede già muovere i fili con attenzione. Clamorosamente fallito come uomo che governa e modernizza finalmente il Paese, il Cavaliere affida il suo destino al solo congegno che conosce e controlla: le elezioni. In queste ore, con queste mosse - ieri la sortita a Berlino contro "l'ordine giudiziario fuoriuscito dall'alveo costituzionale", oggi la catilinaria televisiva dalla tv di casa in compagnia di un dipendente - le sta preparando con cura mentre dice in pubblico - spudorato - di non volerle. Come sempre, ha bisogno di creare un "contratto emotivo" con gli elettori ricordando che la sua proposta politica è egli stesso. Che il suo destino è il destino di tutti. Che la sua persona e i suoi interessi privati sono gli interessi del Paese. È una strategia che funziona (in passato ha funzionato tre volte su cinque) quando ogni questione nazionale o espressione politica precipita in una conflittualità concreta che consente di dividere il Paese in amico e nemico. È un metodo che trasforma in una vuota astrazione ogni altro problema: il debito pubblico, il declino dell'Italia, il dramma delle giovani generazioni, il fallimento delle liberalizzazioni, lo Stato di diritto, i precetti della Carta costituzionale, la sovranità, il discredito dell'Italia nel mondo. Quel che conta è il Corpo mistico del Capo, al tempo stesso sovrano e popolo. Quel che conta è sapere qual è il nemico che minaccia il Capo e che quindi deve essere - dal popolo, dai membri del corpo mistico - contrastato e colpito.

Ecco la notizia pessima: Berlusconi si prepara al voto ed è intenzionato a far rotolare il Paese in un conflitto senza confini e il nemico da distruggere sarà la magistratura. Una magistratura che il Cavaliere vorrà rappresentare come nemica del popolo, della democrazia, dell'Italia, come appunto pare si chiamerà il suo nuovo partito. Se sei contro l'Italia (partito), sei contro l'Italia (nazione). "Quando si avoca a sé la piena rappresentatività della comunità nazionale e si disconosce la legittima cittadinanza dell'altro in quanto anti-nazionale è guerra civile", sostiene Marco Rovelli. Si può anche non sapere se ci attende davvero una moderna "guerra civile", è certo che Berlusconi sta preparando, a partire dai suoi contrasti con la giustizia, qualcosa di molto simile".

giovedì 13 gennaio 2011

senza parole


Ieri è morta I.
Non trovo un posto dove raccattare le parole necessarie, quindi uso le sue.

martedì 11 gennaio 2011

Assaggio di vita


Tiriamo le fila di queste vacanze natalizie: la nostra casa nuova si è riempita di ospiti fluttuanti secondo quello che, dipendesse da me sola, sarebbe l’andazzo quotidiano.
Sono sempre stata stregata dalla donna cuciniera che tiene in serbo nel corpetto una carbonara calda per il viandante inaspettato, sempre che poi il viandante non si limiti a dividerlo con il suo cavallo, un rutto e via, ma offra in cambio una brillante conversazione.
E a tal fine scelgo bene gli amici, e me la godo mentre li rimpinzo.

A Natale abbiamo riempito la cucina di parenti venuti da lontano carichi di regali e terrine, e ho sperimentato dalla parte del cuoco, e con tutta l’angoscia prevista, la lentezza dei pranzi da matrimonio, quelli in cui tra l’antipasto e il primo primo (perché in quelle situazioni c’è inesorabilmente un secondo primo e un terzo primo, prima del primo secondo) fai tempo a saziarti di tutti i grissini della tavolata, a digerirli, a sonnecchiare e a tornare in sella. Mi sono come dire incasinata con l’antipasto, la cui cottura è terminata col panettone, ho cercato diversivi nuotando controcorrente nella vellutata e ho ristabilito tempi umani solo col cappone. D’altra parte eravamo in quattordici, una cosa simile non mi era mai capitata. Babi, per nulla perplesso, teneva banco, si faceva imboccare da chiunque passasse, raccontava certe sue storielle, e distribuiva regali alle persone sbagliate, atto dalle conseguenze potenzialmente esplosive.

A Capodanno ci siamo riempiti la bocca di bollicine di champagne con R. e T, tentando di domarle con aria da intenditori e ammettendo infine, in una sussurrata confessione di gruppo, che lo champagne non ci convince, con quella sua mania di largheggiare tra le fauci come un cucchiaio di citrosodina per poi abbandonare sulla lingua nient’altro che una versione più secca del prosecco. Abbiamo evitato a priori, pur in vena di banalità da catering di lusso, di aprirci anche al caviale, accontentandoci al riguardo della magnifica recensione che Amado ne fa in Dona Flor (leggete, leggete..).

Il giorno dopo Capodanno ho servito ad altri 5 amici avanzi infiocchettati da tartine, anche se non era difficile capirne la reale natura, all’apparire di un vassoio di crostini colmi di musetto, gamberetti, affettati vari, funghi in tecia, lenticchie; poi ho tentato di farmi perdonare con una spaghettata alla bottarga. Alla fine, la torta di cioccolata e pere dell’amico N. ha mostrato ad ogni gaudente nuove prospettive sulle reali potenzialità contenitive del proprio stomaco, che tutti davano per sconfitto già all’aperitivo.

L’epifania, infine, ha visto ospiti per qualche giorno gli amici Parliamone e Topo, con scorribande (brividi freddi solo a scriverla, questa parola, ma sono in vena di masochismo) all’Ikea, scale 40 e perfino una partita di monopoli Euro, nuova versione con carte di credito che sostituiscono i soldi cartacei e zone reali di Milano al posto di viali dei ciliegi e vicoli stretti. Non giocavo dalla nascita di Babi; strano, eppure da allora non mi pare di far altro che giocare..

Tutte le feste, infine, sono state attraversate da un incaponimento trasversale nello studio del frico friabile, una sorta di fresbee di formaggio, a cui si può dare anche altra forma se si possiedono dita d’amianto o la volontà di ferro di chi piega cucchiai. E’ stata dura, forse anche per le cavie che via via hanno sperimentato le creature inquietanti che emergevano dai fornelli, ma ora ce l’ho fatta. L’apoteosi è stato imporgli con severità la forma di coppetta e servirci dentro il risotto al radicchio.

Amara considerazioni finale: eppure, qualsiasi modello di vita sperimentale si pratichi, tutto finisce, e si torna al lavoro. E’ estremamente desolante.

venerdì 7 gennaio 2011

Dolci illusioni


Alfonso Signorini ha, con la consueta raffinatezza specchio di granitica moralità, chiesto a Berlusconi se abbia mai avuto una tresca con una donna di sinistra.
- Mai e poi mai, ha risposto il nostro Presidente.

Ora, che un uomo la cui abitudine di far sesso a pagamento è notizia discretamente diffusa nel mondo, tra giornali, ambasciate, siti internet e passanti, giuri di non essere mai stato con donne di sinistra, risulta affermazione estremamente buffa; come i semplici di Bocca di rosa o di Via del campo, pare che gli uomini non possano mai fare a meno, più che del sesso, delle illusioni extraconiugali, categoria entro la quale comprendo senza timore le informazioni personali fornite tra le lenzuola dalle signore della notte.

lunedì 3 gennaio 2011

E qui finisce il 2010

Come ad ogni ritorno a casa, metto bando alle ciance e sbrigo subito l’affare dei libri.
Il mio comodino virtuale era rimasto alla Fred Vargas dell’Uomo a rovescio, il primo libro di questa autrice, fortemente pubblicizzata dalla cugina R., che mi capita di leggere.
Dunque: Fred Vargas scrive ottimamente, anche se da maschio. Scrive come un ottimo maschio. Mi ha strappato diversi sorrisi fintamente dimessi, e ancora bofonchio di piacere al ricordo di qualche battuta.
Ma: pur essendo un giallo (noir?), fino all'ultima pagina non ha mai sollecitato in me l’umana necessità di conoscerne la fine. Avrei potuto smettere come niente, senza la minima sofferenza, e tutto questo nonostante non avessi minimamente indovinato chi fosse l’assassino, e subendo in pieno quello che si chiama “colpo di scena”. Non è mica bello, Vargas.
Tutto ciò considerato: le darò un’altra possibilità, in virtù dello stile invidiabile di scrittura, con Chi è morto alzi la mano.

Poi mi è capitata in mano Conversazione con Woody Allen di Jean Michel Frodon, libro di cui sia io che Marito neghiamo l’acquisto (è tuo? no, nemmeno mio, mah… e pensare che in caso di divorzio si tende a strisciare nottetempo tra gli scaffali imprimendo i propri ex libris su ogni oggetto sfogliabile, compreso un avanzo di torta salata), ma che, imprigionato a casa mia, non lascerò andare, nemmeno al primo che ne certifichi la paternità. Quante cose ho scoperto, di un regista che amo visceralmente, pur non perdonandogli di non fare più capolavori! Sui problemi con la produzione, sul suo modo di lavorare, sulla sua fama praticamente nulla negli Stati Uniti.
Soprattutto, ho finalmente dato un nome all’atmosfera commovente che permea tutti i suoi film, commedie e non, e che non riuscivo a identificare se non ricorrendo agli effetti tecnici che adopera per ricrearla. E’ l’atmosfera che a Allen bambino era rimasta appiccicata addosso dai film hollywoodiani degli anni ’40. Ossia: non l’atmosfera della vita da bambino, ma l’atmosfera del cinema da bambino. I suoi film raccontano la vita come se venisse filtrata attraverso un film di allora, anche se descrive Time Square nel 2009.
E da lì, diventa facile fantasticare sul rapporto con la propria infanzia, sulle percezioni rimaste nella memoria, sufficienti a costruire la propria Weltanschauung, ma assolutamente non sufficienti, almeno nel mio caso, a immaginare un filtro visivo sul mondo, e a poterlo raccontare agli altri, come un velo, che diventi una firma, quanto e più dei contenuti.
E pensi: forse la generazione che ha vissuto l’infanzia in quegli anni ha avuto la fortuna di assistere, nell’epoca della vita in cui i confini di realtà e magia non sono ancora delineati, cambiamenti, novità, invenzioni e scoperte come nessun’altra, un po’ come vedere Venezia per la prima volta, e farlo ancora e ancora, sempre come la prima volta; e forse quella gente ha maturato grande attaccamento a quelle emozioni, facendone una culla dove mettere, e con cui dipingere, ogni accadimento della vita.
E poi pensi: No. Forse è accaduto solo a Woody Allen.

E’ seguito Diario di un fumatore di David Sedaris, di cui avevo letto Me parlare bello un giorno, traendone moderata e frivola soddisfazione. Di questo libro di racconti ho apprezzato la qualità della scrittura, meno che in passato la verve comica (pare che l’uomo furoreggi negli States), e l’ho trovato di nuovo frivolo e moderatamente piacevole. Per poi prostrarmi in preghiera, affinché mi sia concesso di scrivere un libro frivolo e moderatamente piacevole sulla mia vita. Almeno, rispetto alla remunerativa serialità dei vari Follett, Patterson, Crichton, estremamente quanto inutilmente avvincenti, non dovrei pagarmi una squadra di ghost writers che mi ricostruiscano nei particolari il Medioevo o l’Ottocento sudamericano.

Doverosamente


AUGURI A TUTTI!