martedì 11 gennaio 2011

Assaggio di vita


Tiriamo le fila di queste vacanze natalizie: la nostra casa nuova si è riempita di ospiti fluttuanti secondo quello che, dipendesse da me sola, sarebbe l’andazzo quotidiano.
Sono sempre stata stregata dalla donna cuciniera che tiene in serbo nel corpetto una carbonara calda per il viandante inaspettato, sempre che poi il viandante non si limiti a dividerlo con il suo cavallo, un rutto e via, ma offra in cambio una brillante conversazione.
E a tal fine scelgo bene gli amici, e me la godo mentre li rimpinzo.

A Natale abbiamo riempito la cucina di parenti venuti da lontano carichi di regali e terrine, e ho sperimentato dalla parte del cuoco, e con tutta l’angoscia prevista, la lentezza dei pranzi da matrimonio, quelli in cui tra l’antipasto e il primo primo (perché in quelle situazioni c’è inesorabilmente un secondo primo e un terzo primo, prima del primo secondo) fai tempo a saziarti di tutti i grissini della tavolata, a digerirli, a sonnecchiare e a tornare in sella. Mi sono come dire incasinata con l’antipasto, la cui cottura è terminata col panettone, ho cercato diversivi nuotando controcorrente nella vellutata e ho ristabilito tempi umani solo col cappone. D’altra parte eravamo in quattordici, una cosa simile non mi era mai capitata. Babi, per nulla perplesso, teneva banco, si faceva imboccare da chiunque passasse, raccontava certe sue storielle, e distribuiva regali alle persone sbagliate, atto dalle conseguenze potenzialmente esplosive.

A Capodanno ci siamo riempiti la bocca di bollicine di champagne con R. e T, tentando di domarle con aria da intenditori e ammettendo infine, in una sussurrata confessione di gruppo, che lo champagne non ci convince, con quella sua mania di largheggiare tra le fauci come un cucchiaio di citrosodina per poi abbandonare sulla lingua nient’altro che una versione più secca del prosecco. Abbiamo evitato a priori, pur in vena di banalità da catering di lusso, di aprirci anche al caviale, accontentandoci al riguardo della magnifica recensione che Amado ne fa in Dona Flor (leggete, leggete..).

Il giorno dopo Capodanno ho servito ad altri 5 amici avanzi infiocchettati da tartine, anche se non era difficile capirne la reale natura, all’apparire di un vassoio di crostini colmi di musetto, gamberetti, affettati vari, funghi in tecia, lenticchie; poi ho tentato di farmi perdonare con una spaghettata alla bottarga. Alla fine, la torta di cioccolata e pere dell’amico N. ha mostrato ad ogni gaudente nuove prospettive sulle reali potenzialità contenitive del proprio stomaco, che tutti davano per sconfitto già all’aperitivo.

L’epifania, infine, ha visto ospiti per qualche giorno gli amici Parliamone e Topo, con scorribande (brividi freddi solo a scriverla, questa parola, ma sono in vena di masochismo) all’Ikea, scale 40 e perfino una partita di monopoli Euro, nuova versione con carte di credito che sostituiscono i soldi cartacei e zone reali di Milano al posto di viali dei ciliegi e vicoli stretti. Non giocavo dalla nascita di Babi; strano, eppure da allora non mi pare di far altro che giocare..

Tutte le feste, infine, sono state attraversate da un incaponimento trasversale nello studio del frico friabile, una sorta di fresbee di formaggio, a cui si può dare anche altra forma se si possiedono dita d’amianto o la volontà di ferro di chi piega cucchiai. E’ stata dura, forse anche per le cavie che via via hanno sperimentato le creature inquietanti che emergevano dai fornelli, ma ora ce l’ho fatta. L’apoteosi è stato imporgli con severità la forma di coppetta e servirci dentro il risotto al radicchio.

Amara considerazioni finale: eppure, qualsiasi modello di vita sperimentale si pratichi, tutto finisce, e si torna al lavoro. E’ estremamente desolante.

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