Come ad ogni ritorno a casa, metto bando alle ciance e sbrigo subito l’affare dei libri.
Il mio comodino virtuale era rimasto alla Fred Vargas dell’Uomo a rovescio, il primo libro di questa autrice, fortemente pubblicizzata dalla cugina R., che mi capita di leggere.
Dunque: Fred Vargas scrive ottimamente, anche se da maschio. Scrive come un ottimo maschio. Mi ha strappato diversi sorrisi fintamente dimessi, e ancora bofonchio di piacere al ricordo di qualche battuta.
Ma: pur essendo un giallo (noir?), fino all'ultima pagina non ha mai sollecitato in me l’umana necessità di conoscerne la fine. Avrei potuto smettere come niente, senza la minima sofferenza, e tutto questo nonostante non avessi minimamente indovinato chi fosse l’assassino, e subendo in pieno quello che si chiama “colpo di scena”. Non è mica bello, Vargas.
Tutto ciò considerato: le darò un’altra possibilità, in virtù dello stile invidiabile di scrittura, con Chi è morto alzi la mano.
Poi mi è capitata in mano Conversazione con Woody Allen di Jean Michel Frodon, libro di cui sia io che Marito neghiamo l’acquisto (è tuo? no, nemmeno mio, mah… e pensare che in caso di divorzio si tende a strisciare nottetempo tra gli scaffali imprimendo i propri ex libris su ogni oggetto sfogliabile, compreso un avanzo di torta salata), ma che, imprigionato a casa mia, non lascerò andare, nemmeno al primo che ne certifichi la paternità. Quante cose ho scoperto, di un regista che amo visceralmente, pur non perdonandogli di non fare più capolavori! Sui problemi con la produzione, sul suo modo di lavorare, sulla sua fama praticamente nulla negli Stati Uniti.
Soprattutto, ho finalmente dato un nome all’atmosfera commovente che permea tutti i suoi film, commedie e non, e che non riuscivo a identificare se non ricorrendo agli effetti tecnici che adopera per ricrearla. E’ l’atmosfera che a Allen bambino era rimasta appiccicata addosso dai film hollywoodiani degli anni ’40. Ossia: non l’atmosfera della vita da bambino, ma l’atmosfera del cinema da bambino. I suoi film raccontano la vita come se venisse filtrata attraverso un film di allora, anche se descrive Time Square nel 2009.
E da lì, diventa facile fantasticare sul rapporto con la propria infanzia, sulle percezioni rimaste nella memoria, sufficienti a costruire la propria Weltanschauung, ma assolutamente non sufficienti, almeno nel mio caso, a immaginare un filtro visivo sul mondo, e a poterlo raccontare agli altri, come un velo, che diventi una firma, quanto e più dei contenuti.
E pensi: forse la generazione che ha vissuto l’infanzia in quegli anni ha avuto la fortuna di assistere, nell’epoca della vita in cui i confini di realtà e magia non sono ancora delineati, cambiamenti, novità, invenzioni e scoperte come nessun’altra, un po’ come vedere Venezia per la prima volta, e farlo ancora e ancora, sempre come la prima volta; e forse quella gente ha maturato grande attaccamento a quelle emozioni, facendone una culla dove mettere, e con cui dipingere, ogni accadimento della vita.
E poi pensi: No. Forse è accaduto solo a Woody Allen.
E’ seguito Diario di un fumatore di David Sedaris, di cui avevo letto Me parlare bello un giorno, traendone moderata e frivola soddisfazione. Di questo libro di racconti ho apprezzato la qualità della scrittura, meno che in passato la verve comica (pare che l’uomo furoreggi negli States), e l’ho trovato di nuovo frivolo e moderatamente piacevole. Per poi prostrarmi in preghiera, affinché mi sia concesso di scrivere un libro frivolo e moderatamente piacevole sulla mia vita. Almeno, rispetto alla remunerativa serialità dei vari Follett, Patterson, Crichton, estremamente quanto inutilmente avvincenti, non dovrei pagarmi una squadra di ghost writers che mi ricostruiscano nei particolari il Medioevo o l’Ottocento sudamericano.
Il mio comodino virtuale era rimasto alla Fred Vargas dell’Uomo a rovescio, il primo libro di questa autrice, fortemente pubblicizzata dalla cugina R., che mi capita di leggere.
Dunque: Fred Vargas scrive ottimamente, anche se da maschio. Scrive come un ottimo maschio. Mi ha strappato diversi sorrisi fintamente dimessi, e ancora bofonchio di piacere al ricordo di qualche battuta.
Ma: pur essendo un giallo (noir?), fino all'ultima pagina non ha mai sollecitato in me l’umana necessità di conoscerne la fine. Avrei potuto smettere come niente, senza la minima sofferenza, e tutto questo nonostante non avessi minimamente indovinato chi fosse l’assassino, e subendo in pieno quello che si chiama “colpo di scena”. Non è mica bello, Vargas.
Tutto ciò considerato: le darò un’altra possibilità, in virtù dello stile invidiabile di scrittura, con Chi è morto alzi la mano.
Poi mi è capitata in mano Conversazione con Woody Allen di Jean Michel Frodon, libro di cui sia io che Marito neghiamo l’acquisto (è tuo? no, nemmeno mio, mah… e pensare che in caso di divorzio si tende a strisciare nottetempo tra gli scaffali imprimendo i propri ex libris su ogni oggetto sfogliabile, compreso un avanzo di torta salata), ma che, imprigionato a casa mia, non lascerò andare, nemmeno al primo che ne certifichi la paternità. Quante cose ho scoperto, di un regista che amo visceralmente, pur non perdonandogli di non fare più capolavori! Sui problemi con la produzione, sul suo modo di lavorare, sulla sua fama praticamente nulla negli Stati Uniti.
Soprattutto, ho finalmente dato un nome all’atmosfera commovente che permea tutti i suoi film, commedie e non, e che non riuscivo a identificare se non ricorrendo agli effetti tecnici che adopera per ricrearla. E’ l’atmosfera che a Allen bambino era rimasta appiccicata addosso dai film hollywoodiani degli anni ’40. Ossia: non l’atmosfera della vita da bambino, ma l’atmosfera del cinema da bambino. I suoi film raccontano la vita come se venisse filtrata attraverso un film di allora, anche se descrive Time Square nel 2009.
E da lì, diventa facile fantasticare sul rapporto con la propria infanzia, sulle percezioni rimaste nella memoria, sufficienti a costruire la propria Weltanschauung, ma assolutamente non sufficienti, almeno nel mio caso, a immaginare un filtro visivo sul mondo, e a poterlo raccontare agli altri, come un velo, che diventi una firma, quanto e più dei contenuti.
E pensi: forse la generazione che ha vissuto l’infanzia in quegli anni ha avuto la fortuna di assistere, nell’epoca della vita in cui i confini di realtà e magia non sono ancora delineati, cambiamenti, novità, invenzioni e scoperte come nessun’altra, un po’ come vedere Venezia per la prima volta, e farlo ancora e ancora, sempre come la prima volta; e forse quella gente ha maturato grande attaccamento a quelle emozioni, facendone una culla dove mettere, e con cui dipingere, ogni accadimento della vita.
E poi pensi: No. Forse è accaduto solo a Woody Allen.
E’ seguito Diario di un fumatore di David Sedaris, di cui avevo letto Me parlare bello un giorno, traendone moderata e frivola soddisfazione. Di questo libro di racconti ho apprezzato la qualità della scrittura, meno che in passato la verve comica (pare che l’uomo furoreggi negli States), e l’ho trovato di nuovo frivolo e moderatamente piacevole. Per poi prostrarmi in preghiera, affinché mi sia concesso di scrivere un libro frivolo e moderatamente piacevole sulla mia vita. Almeno, rispetto alla remunerativa serialità dei vari Follett, Patterson, Crichton, estremamente quanto inutilmente avvincenti, non dovrei pagarmi una squadra di ghost writers che mi ricostruiscano nei particolari il Medioevo o l’Ottocento sudamericano.
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