sabato 26 novembre 2016

Notti in bianco, baci a colazione

Non so che faccia possa avere l'editor che ha suggerito questo titolo. O forse l'ha fatto lo stesso Bussola, dopo alcune notti passate con la figlia minore febbricitante sullo stomaco. Roba che ci si avvicina al libraio per conoscerne la collocazione, dopo aver cercato disperatamente di far da sè, e si sussurra il titolo come si confida al farmacista di avere le creste di gallo (se poi il farmacista ti guarda in testa e dice: Non mi pare, beh, quella è un'altra storia).
Ed è vero che questo libro viene da un blog, e la cosa un po' si sente e un po' lo limita.
Ma mi è piaciuto, mi ha fatta ridere con la voce: "ah ah ah", e perfino piangere in un paio di casi. Condivido ciò che pensa, tanto da sentirlo un po' mio, capisco a fondo molte sue posizioni, e non mi sono annoiata mai. Un po' di invidia per la lucida consapevolezza dell'importanza del ruolo paterno, quando io mi sento ancora incapace di riconoscere appieno la bellezza del tempo che non tornerà nella vita di un genitore. 


giovedì 24 novembre 2016

Una spola di filo blu

Ehm. Sarò breve. Disse estraendo un fascicolo di 98 pagine da sotto l'ascella. 
Davvero non so che dire. Sto cercando invano qualcosa da dire. Sto...
Ann Tyler mi piace. Turista per caso l'adoro. Ma qui non rimane molto, e non so davvero quale sia il problema. I personaggi sono come di consueto delineati con acume, le situazioni non annoiano, ho proseguito la lettura fino alla fine con sufficiente curiosità. Ma senza innamorarmi e senza avere il bisogno di ripensarci alla fine.
Unico momento che mi ha particolarmente colpita: la madre di famiglia che descrive a una ragazza la sua storia matrimoniale come il frutto di un colpo di fulmine reciproco e di un amore infinito e immutato nelle decine di anni trascorsi. E poi, in un capitolo successivo, si racconta la storia effettiva, e si scopre che il marito, in realtà, non l'ha amata un solo giorno, ed è passato da curiosità sessuale, a disinteresse a odio assoluto, ad affettuosa rassegnazione. Per tutte quelle decine di anni. Fa mancare il fiato.

Genius

Ho visto il film Genius, ieri al cinema.
Come per i libri, non inizio facendone un piccolo riassunto, sicura che ovunque in rete ci siano compendi ben più completi. Magari è lì, che mi sbaglio. Magari chi entra per errore in questo blog cercando Pennac o una giustificazione colta per saltare la battaglia di Waterloo nei Miserabili, e vi si sofferma più di quanto basti a capire di non aver trovato nulla, desidererebbe sapere di cosa tratti un libro o un film, oltre a vedersi sottoposta la mia irrilevante opinione.
Ma che dire? io continuo così, perché a differenza del protagonista di Genius, che emette parole come respiri, e che scrive libri di 5000 pagine che poi all'editor tocca tagliare barbaramente, tendo alla sintesi.

Mi hanno colpita un paio di cose, in questo bel film. Il ruolo dell'editor, nei libri di chicchessia: la riflessione in merito a quanto, del successo della letteratura che leggiamo, dipenda dal lavoro nudo e crudo dell'autore, e quanto da chi, anonimamente, in quel libro ripone tutta la sua professionalità, a taglio e cucito, rendendo un barbaro arbusto della steppa un morbido cespuglio potato a forma di palla.
Quanti degli autori che consideriamo geni lo sono in realtà a metà, o per nulla? E quanti degli editor sono invece grandi scrittori di roba altrui?

 L'altra riflessione è: ma perché, in questo mondo, in qualsiasi ambito dell'arte, coloro che nascono ricolmi di materia intellettuale da donare all'umanità invece di esprimerlo con serenità sono condannati a vivere privi di qualsiasi equilibrio, come se quel nobile materiale che hanno l'urgenza di esprimere non possa far altro che essere vomitato tra una giornata patologicamente euforica e una gravemente depressiva, il tutto ubriachi per il 70% del tempo? Questa considerazione non esprime alcun giudizio morale, solo lo spaesamento di fronte al dolore che può dare il genio, e la curiosità di capire se questo possa essere evitabile riconoscendo per tempo i sintomi della straordinarietà.


Infine, in un film che mi circondava di scrittori anni venti e trenta, da Francis Scott Fitzgerald a Wolfe, a Hemingway, mi sono chiesta, allo stesso modo in cui in passato ho analizzato il mio rapporto coi russi dell'Ottocento, che ne fosse del mio rapporto con gli americani dei primi decenni del Novecento. Diciamo che li stimo immensamente, ne riconosco il valore, ma nemmeno lì mi sento perfettamente a casa. Sono secchi, nobilmente aridi, in un perpetuo disagio col mondo. E devo ancora capire cosa mi tenga sulle spine, di quel modo di vivere. Ci penserò.
Perbacco, acciderba, perdindirindina! Che la letteratura sia anche uno psicoterapeuta?
Ah, infiniti meriti delle parole...

una valanga, o tante piccole pietre per ritrovare il sentiero?

Un amico, appollaiato tra i quattro libri iniziati contemporanea, aperti su poltrone e comodino, che lo attendono truci pretendendo la parola, mi ha scritto che l'enorme quantità di libri tra cui scegliere può creare una sorta di panico da prestazione, nella consapevolezza dell'impossibilità di affrontare l'intera umana produzione, e dunque della fallibilità nella scelta di quali libri affrontare e quali escludere o rimandare. 
Mi è venuto in mente Troisi, in Le vie del Signore... "Io non leggo mai, non leggo libri, cose... pecché che comincio a leggere mo' che so' grande? Che i libri so' milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so' uno a leggere, là so' milioni a scrivere (...)"
E' successo anche a me, in passato. Ma poi mi sono ribellata. E' come guardare un frigo pieno angosciati dagli yogurt in scadenza, oppure entusiasti all'idea dell'abbondanza della scelta e della possibilità di invitare amici per terminare insieme le scorte. 
Che poi i libri non puzzano, ed è un grandissimo vantaggio. E illudono di poterne godere all'infinito. Tutte queste cose non si può che considerarle con gioia. 
I diritti del lettore di Pennac, qui tanto citati, e tanto stimati da trarne il nome del blog, sono stati in questo campo un ottimo ansiolitico. I libri non devono essere subiti, presi al volo prima che ti uccidano mentre ti si scapicollano contro come meteoriti nella playstation; devono essere usati, nel senso più nobilmente deteriore. Aprendoli anche a costo di scompaginarli, amandoli, bagnandoli col mare che spruzza sugli scogli (e qui un discorso a parte si deve fare per il kindle, ché col cavolo lo bagno nell'onda dell'oceano), saltando pagine noiose e interrompendoli senza temerne la perpetua offesa. 
Quando mi butto in mare non penso al fatto che mai sarò sfiorata dalle gocce che, nel fluttuare delle correnti, lambiscono ora lidi lontani. Penso grata a quelle che accarezzano adesso la mia pelle, e che continueranno a farlo generose ogni volta che mi vorrò abbandonare ai flutti. 
Così devono essere guardati i libri. Li incontro perché me ne parlano con amore, perché leggo un'opinione di cui mi fido, perché ne sentivo parlare da bambina, perché lo stesso autore mi ha resa felice, perché costa poco e la trama pare assomigliare a quella della mia vita. Il resto della letteratura mondiale, che lambisca altri scogli, finché non avverrà un altro casuale incontro, come tra stranieri con cui all'improvviso ci si sente a casa. 

venerdì 4 novembre 2016

Un covo di vipere

Eh, il mestiere. Sempre godibile, e questo mi è piaciuto molto. Anche se mi ha colpito il fatto di aver capito quasi immediatamente come fossero andate le cose...visto che nemmeno Montalbano, data l'orribile soluzione (incesto), non accettava di ammetterla fino a che non ne ha potuto fare a meno di fronte all'evidenza, trovo singolare che a me fosse venuto in mente come prima ipotesi.
Qua c'è da riflettere...

Lucidità

- Babi, ma così antipatico ci sei nato, o ti pagano?
- Mi pagano. In dollari. Non so come spenderli.

giovedì 3 novembre 2016

Buchi nella sabbia

A volte credo di essere poco lucida, poco obiettiva, quando parlo di Malvaldi. Sarà che fa (faceva?) un lavoro che mi è caro, e che apre la testa da una parte, sarà che poi ha intrapreso un'attività che la apre dall'altra, e che mi è ancor più cara. Sarà che ha la mia età, che riconosco in lui la mia sensibilità sui più svariati argomenti, come se la sua adolescenza fosse per alcuni versi stata simile alla mia. Sarà. Ma io lo adoro, innamorata di ciò che scrive. E questo libro, pur in assenza dei cari vecchietti all'ombra dell'albero che Massimo taglierebbe volentieri, l'ho iniziato e terminato ridendo come una pazza, fotografando pagine per condividere risate notturne e scialandomela all'inverosimile. Que viva Malvaldi.

Eccomi

Il titolo del libro corrisponde al significato del mio rientro.
I libri di Foer mi danno sempre la stessa sensazione: iniziano col botto, decine di citazioni eccezionali, momenti in cui devo interrompere la lettura per l'emozione di vedermi a mia volta letta dentro, come in uno specchio di metalettura.
Poi inizia a protrarsi. Poi non non accenna a smettere.
Poi ci sarebbe la fine, ma lui prosegue, un po' come il vecchio Tolstoj, che non si accorge della morte dell'eroina se non dopo altre trecento pagine.
Poi immagino la moglie che gli dice: "esci da questa stanza! Falla finita! C'è il tucano da portare dal veterinario!"
Ma lui nulla, imperterrito. 
E noi a leggere. Poi, all'improvviso, dopo una decina di finali, qualche forza misteriosa riesce a strapparlo dalle sudate carte e ad ammucchiare tutto correndo dall'editore che da giorni attende con le rotative surriscaldate. 
In ogni caso mi rimarrà nel cuore per questo inizio esplosivo in cui ho trovato così tanto di me da rabbrividire, e per quel senso di coltissimo irrisolto nella Weltanschauung che spesso gli autori ebrei regalano a piene mani.