giovedì 24 novembre 2016

Genius

Ho visto il film Genius, ieri al cinema.
Come per i libri, non inizio facendone un piccolo riassunto, sicura che ovunque in rete ci siano compendi ben più completi. Magari è lì, che mi sbaglio. Magari chi entra per errore in questo blog cercando Pennac o una giustificazione colta per saltare la battaglia di Waterloo nei Miserabili, e vi si sofferma più di quanto basti a capire di non aver trovato nulla, desidererebbe sapere di cosa tratti un libro o un film, oltre a vedersi sottoposta la mia irrilevante opinione.
Ma che dire? io continuo così, perché a differenza del protagonista di Genius, che emette parole come respiri, e che scrive libri di 5000 pagine che poi all'editor tocca tagliare barbaramente, tendo alla sintesi.

Mi hanno colpita un paio di cose, in questo bel film. Il ruolo dell'editor, nei libri di chicchessia: la riflessione in merito a quanto, del successo della letteratura che leggiamo, dipenda dal lavoro nudo e crudo dell'autore, e quanto da chi, anonimamente, in quel libro ripone tutta la sua professionalità, a taglio e cucito, rendendo un barbaro arbusto della steppa un morbido cespuglio potato a forma di palla.
Quanti degli autori che consideriamo geni lo sono in realtà a metà, o per nulla? E quanti degli editor sono invece grandi scrittori di roba altrui?

 L'altra riflessione è: ma perché, in questo mondo, in qualsiasi ambito dell'arte, coloro che nascono ricolmi di materia intellettuale da donare all'umanità invece di esprimerlo con serenità sono condannati a vivere privi di qualsiasi equilibrio, come se quel nobile materiale che hanno l'urgenza di esprimere non possa far altro che essere vomitato tra una giornata patologicamente euforica e una gravemente depressiva, il tutto ubriachi per il 70% del tempo? Questa considerazione non esprime alcun giudizio morale, solo lo spaesamento di fronte al dolore che può dare il genio, e la curiosità di capire se questo possa essere evitabile riconoscendo per tempo i sintomi della straordinarietà.


Infine, in un film che mi circondava di scrittori anni venti e trenta, da Francis Scott Fitzgerald a Wolfe, a Hemingway, mi sono chiesta, allo stesso modo in cui in passato ho analizzato il mio rapporto coi russi dell'Ottocento, che ne fosse del mio rapporto con gli americani dei primi decenni del Novecento. Diciamo che li stimo immensamente, ne riconosco il valore, ma nemmeno lì mi sento perfettamente a casa. Sono secchi, nobilmente aridi, in un perpetuo disagio col mondo. E devo ancora capire cosa mi tenga sulle spine, di quel modo di vivere. Ci penserò.
Perbacco, acciderba, perdindirindina! Che la letteratura sia anche uno psicoterapeuta?
Ah, infiniti meriti delle parole...

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