venerdì 10 dicembre 2010

Letture round about


E’ una curiosa coincidenza, leggere tre libri di seguito i cui autori si soffermano insistentemente sulle rotonde tanto di moda nelle nostre strade.
E sembrerebbe curioso che, tra i mali della nostra civiltà, tre autori sentano il bisogno di attaccare proprio i rondò, pozzanghere erbose ormai così profondamente parte dei nostri traffici quotidiani da non lasciarci ricordare com’era prima il percorso per l'ufficio.
Ma un senso c’è, perché il gusto per la sobrietà, per la naturalezza (che non è la naturalità di un formaggino industriale della pubblicità), si vede anche da un prato, da un giardino, da una rotonda.

Il primo è stato Pejrone, del cui libro ho scritto qualche post fa, che condanna la bruttezza di certe rotonde che pretendono di replicare giardini rocciosi alpini, savane africane, steppe di muschi e licheni, senza nessun gusto, senza nessun senso del luogo, della storia, delle cose.

Allo stesso modo si infervora Umberto Pasti, in Giardini e no, libro in cui se la prende con i proprietari dei giardini status-symbol, con i collezionisti fanatici, con le signore leziose, con i garden designer, contrapponendoli alla sorprendente e toccante creazione casuale dell’aiuola di un benzinaio, o dei bidoni riciclati a vasi rigogliosi in un quartiere misero di una città africana. Anche i giardini pubblici, anche la rotonda ha un padrone, la collettività. In centro sarebbe piazza, in campagna le convergenze stradali sono state per lo più eliminate, dunque la rotonda è il marchio della periferia perpetua che è diventata la nostra campagna.
Le rotonde, per la loro natura, sono luoghi di rappresentanza, non potranno mai essere vissuti; sono lo spazio dove politici, architetti, paesaggisti e vivaisti cercano di concentrare quante più bizzarrie possibili: piante anacronistiche, che, fuori dal proprio habitat, non possono che sopravvivere a stento, totalmente incapaci di replicarsi nel normale ciclo della natura. “..così che il viaggiatore capisca immediatamente che tutti gli abitanti della città italiana in cui sta arrivando odiano il loro paese, si vergognano ella sua storia e della sua cultura, e sognano solo di vivere nella perenne estate californiana degli sceneggiati televisivi”. Pasti si sofferma a pensare che ormai è diffusa la tendenza di attribuire un valore esteticamente, e moralmente, positivo a qualsiasi cosa rompa la tradizione, sia individuabile come nuovo, benché urti buon senso e i sensi, purché la rottura sia solo apparente, superficiale, non abbia a che fare con quella sofferta lacerazione che preluda alla creazione di un’opera d’arte, si limiti a soddisfare quel bisogno di stranezza che non è che conformismo.

Anche Francesco Bonami, nel libro Lo potevo fare anch’io, in cui l’autore cerca di spiegare attraverso l’uso del senno e della sensibilità perché l’arte contemporanea è davvero arte, se la prende con le rotonde, che vengono spesso usate, in un paese in cui anche l’arte è pesantemente inquinata dalla politica, come palcoscenico di scultori privi di talento ma pieni d’amicizie, che ci appesantiscono la quotidianità di oscene sculture.
Bonami descrive i collezionisti di un tempo, che non temevano di rischiare il proprio denaro e la propria credibilità sulla base di una personale valutazione del valore di un artista. Non era quello che tutti compravano, l’oggetto del desiderio, ma quello che nessuno voleva, ed era il coraggio di passare per fessi che premiava sopra ogni cosa. E i musei del mondo hanno beneficiato di questo coraggio, non del mercato fatto dalle mode e dall’esibizionismo.
Esplicativa, riguardo al mutamento dei tempi, la metafora: è come se il proprietario di una squadra di calcio non comprasse i giocatori che gli porteranno gloria, ma andasse in cerca di vecchi campioni, a prezzi esorbitanti, che i trofei li hanno vinti da tempo.
Interessante, nel libro, anche il seguente spunto di riflessione, perché a mio parere applicabile anche ad altri campi del pensiero, in cui invece di prendere in considerazione coloro che agiscono con professionalità e serietà, se ne proclama la sparizione, dovuta invece alla pigrizia di noi utenti: Il problema non è dell’arte che deve ritrovare se stessa, come molti dicono, ma della società che deve ritrovare l’arte, al di là dei numeri, dello spettacolo e della fottutissima comunicazione.

Quanto al mio modo di pormi rispetto alle tesi di Bonami, devo dire che ho vissuto il libro con sensazioni contrastanti, in certi momenti in totale accordo con le tesi dell’autore, in altri con palese fastidio e con la sensazione che anche lui si stesse un po’ arrampicando sugli specchi.
L’arte contemporanea non mi è mai stata indifferente, sulla base di due pulsioni con cui cerco di di ovviare all’ignoranza:
- una confusa emozione, assolutamente non spiegabile in termini razionali, che mi coglie davanti a certe opere, e di cui sono grata, sentendomi quasi inconsciamente parte di qualcosa di serio;
- il fastidio che mi ha sempre creato la qualunquistica frase: potevo farlo anch’io, che mi causa una pesante orticaria e la voglia di celebrare acriticamente merde d’artista, ruote capovolte, ferite nella tela, centrini di macchie di colore.

E’ però un dato di fatto che davanti ad un’arte in cui la tecnica non serve più (almeno in apparenza, perché magari dietro ci sono difficoltà di realizzazione che non si percepiscono al primo sguardo) è più facile diventare preda di un imbroglio, di ciò che ti raccontano, come se dovessi imparare ad amare un libro solo avendone ascoltato il riassunto da più parti.
Dunque, non resta che fingersi nel proprio intimo collezionisti di un tempo, rischiare con se stessi, e apprezzare quello che farebbe piacere vedere a casa propria, non solo perché “carino”, ma perché emozionante, intelligente, o pazzesco.

PS: due ultime annotazioni in questo logorroico post
1. Bonami, capisco che un libro illustrato costerebbe moolto di più, ma francamente non puoi parlarmi di decine di artisti semi sconosciuti alle folle senza uno straccio di fotografia di ciò che descrivi. L’intento pedagogico subisce un danno non da poco!
2. Ho riportato alcuni brani degli autori, qualche volta senza virgolette, se decidevo di cambiare o omettere qualche parola per brevità. Che dire, atteggiamento poco serio, ma è il privilegio di un blog letto da pochissimi, fregarsene del copyright.

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