martedì 8 settembre 2009

non tutte le scelte



Voglio indurre alla riflessione su questa giornata consigliando a me stessa, visto il numero di lettori del blog, di rivedere il film Tutti a casa di Luigi Comencini, il cui finale, sempre commovente, mi rende orgogliosa della scelta di coloro che hanno ridato dignità a questo Paese, e mi fa tenere bene a mente che non tutte le scelte che si possono compiere nella vita hanno lo stesso valore.

E ne approfitto per pubblicare un discorso che ho ascoltato con commozione nel giorno della Giornata della memoria, voluta con la cosiddetta legge Colombo – De Luca, approvata dal Parlamento il 20 luglio del 2000, discorso che rimane anonimo ma la cui pubblicazione qui è autorizzata dall'autore.

Secondo uno storico ebreo, David Bidussa, in un libro pubblicato in questi giorni, la giornata, progettata come commemorazione pubblica, potrebbe essere destinata a consumarsi nel tempo, come tutte le commemorazioni, come quella del 4 novembre, e forse anche quella del 25 aprile, una volta che i testimoni non ci siano più. E identifica questo rischio col rapporto squilibrato che esiste tra memoria e storia.
Cioè si celebra come fatto etico la memoria del massacro, senza ricostruirne la storia.
E la prova ne è che, se sul giorno della memoria esiste una unanimità evidente, in tutti i restanti giorni dell’anno impera nei media il revisionismo storico più sfacciato, che per esempio tende a fare dell’Italia delle leggi razziali un paese senza responsabilità, che tende a spostare il momento discriminante all’8 settembre 1943, alla “morte della patria”, quando inizia la deportazione. Un evento, quello della deportazione, che sarebbe avvenuto senza responsabilità italiana, perché viene attribuito al tedesco occupatore, quindi un evento estraneo allo “spirito italiano”, al mito del bravo italiano.
Non era questa la volontà dei presentatori della legge. Nella seduta del 27 marzo 2000, Furio Colombo così si espresse, riferendosi alle leggi razziali: Esse furono “un delitto culturale, vale a dire un delitto che la cultura ha compiuto contro se stessa: la cultura di scienziati o sedicenti tali, la cultura di accademici o di persone che comunque rappresentavano l’Italia ed avevano microfoni aperti, avevano scolaresche e studenti… Ricordo l’ispettore della razza che arrivava nelle classi per misurare i volti, crani e profili dei bambini. L’ispettore della razza è esistito e ha riguardato un evento della vita italiana: è un fatto che è accaduto nel nostro paese… In quest’aula, in questa stessa aula in cui stiamo parlando, anche dal banco in cui sto parlando io in questo momento, qualcuno si è levato in piedi, gridando, inneggiando alle leggi razziali e alla loro difesa. E 351 su 351 hanno detto “sì” con furore, passione e con un grande applauso…”.

È facile ricordare la Shoah, male assoluto, come fatto metafisico, astratto, attribuendolo sostanzialmente agli “altri”.
Non c’è memoria vera senza storia; la memoria, in questo caso, è vuota celebrazione se non si vuole indagare come, per quanto ci riguarda, la società italiana reagì alle leggi razziali, perché sulle vetrine dei negozi apparvero impunemente scritte antisemite, perché gli speculatori, senza vergogna, fecero incetta dei beni espropriati agli ebrei, perché con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, quando il partito fascista fu dichiarato fuori legge e le sue sedi chiuse, la monarchia e Badoglio si guardarono bene dal dichiarare decadute quelle leggi vergognose.
E’ questo mettere in discussione il nostro passato culturale e politico che la memoria pubblica non vuole fare ( e si potrebbero aggiungere i crimini perpetrati negli anni Trenta durante la riconquista della Libia e l’occupazione dell’Etiopia, con le stragi connesse e l’uso di iprite e fosgene, e si potrebbe aggiungere la deportazione di sloveni e croati nei tanti Lager in Italia). Non lo si vuole fare perché porterebbe a evidenti conclusioni: altro che “8 settembre morte della patria”! L’8 settembre 1943 è la patria che rinasce, attraverso il sacrificio dei caduti della resistenza, dei deportati, degli internati militari che dissero “no” agli inviati della repubblica sociale, dei volontari del Corpo italiano di liberazione che risalirono la penisola insieme agli alleati, di quanti protessero, rivestirono, nutrirono, nascosero: fossero ebrei, soldati sfuggiti al disarmo, ex prigionieri alleati in fuga.
Era il segno, quell’8 settembre, che la coscienza individuale stava rinascendo, che era venuto il momento di scegliere non secondo la convenienza, ma in nome dell’umanità, contro il fascismo che aveva umiliato e disprezzato la persona, contro il nazismo che con scellerata prepotenza aveva ridotto gli esseri umani a numero, a nulla, nella nebbia e nella notte della disumanità. Non sono cose di poco conto, queste! Questo relegare la Shoah come fatto estremo, da considerare con orrore ma che sostanzialmente non ci riguarda, ha delle analogie con i frequenti attacchi alla Resistenza a cui si rifiuta il merito di aver generato l’Italia repubblicana, mentre contemporaneamente si considera con bonomia il fascismo (“che mandava gli oppositori in vacanza”, per intenderci).
La tecnica dell’attuale revisionismo passa attraverso la sacralizzazione di fatti storici che si scelgono come esemplari (Shoah, foibe, gulag, la persecuzione dei “vinti”), contenuti in un passato storico incerto, generalmente grigio, nel quale tutto si uniforma.
Così si liquida la storia.
Ma un passato incerto, senza scelte che abbiano un valore di principi da difendere e su cui costruire, significa un futuro incerto, significa incapacità di identificare valori forti che guidino la politica e che coinvolgano nuove generazioni. Ne va quindi del nostro futuro.

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