lunedì 22 febbraio 2010

Armadale


Finite le 823 pagine di Armadale, e devo dire che mantengono la promessa del classico classico: estremamente avvincenti, fanno affezionare ai personaggi, attirano tra le coperte per conoscerne gli sviluppi. Quello che Wilkie Collins riesce a realizzare con costanza, come in La pietra di luna, o La donna in bianco. Quello di cui c'è bisogno in certi momenti.

E così passo a Alice Munro, il cui nome mi frullava nella mente da un lontano incontro con Jonathan Franzen al Festival della letteratura di Mantova, mi sembra anno 2004. Ne ho un ricordo particolarmente vivido, perchè, tra mille incontri con autori che dimostravano invariabilmente di avere una padronanza del pubblico, una capacità di coinvolgere, una verve comica che non era assolutamente dovuta in chi sia famoso per saper scrivere, lui era stato assolutamente imbarazzato, incapace di trovare qualsiasi cosa da dire, insomma indecente dal punto di vista dell'intrattenimento, tanto che l'incontro si era tramutato in una esibizione dell'interprete, finalmente libero dai fili di dover tradurre parole altrui e precipitato in una situazione che, era palese, attendeva da anni.
La cosa non mi aveva disturbato, mi era finalmente sembrato che esistesse un uomo capace di scrivere ma incapace di ballare, cantare e recitare.
Tra le poche parole carpite a forza di domande dal pubblico, Franzen si è appassionato un momento solo, quando ha nominato la sua scrittrice preferita, augurandosi che un giorno ricevesse il Nobel: Alice Munro (parole che, pronunciate da un anglosassone boffonchiante e timido, sono state veramente difficili da indovinare). Ogni volta che risentivo questo nome mi ricordavo la scena e mi ripromettevo di leggerla. Ora ce l'ho fatta, e ne riferirò.

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