mercoledì 8 febbraio 2012

E che palle!


Sempre più spesso assistiamo all’estrinsecarsi dell’entusiasmante convinzione di gruppi di persone, che sentono un irrefrenabile bisogno di spogliarsi per porre in evidenza qualche ingiustizia, scatenare qualche protesta, insomma, far valere la propria volontà di partecipazione.
Dunque abbiamo cortei nudisti contro le pellicce (e qui ci starebbe anche una spiegazione metaforico-simbolica,: mi riduco come riducete l’amico ermellino), ma anche per fermare le corride, per protestare contro le ruspe, per la chiusura di un giornale o di una fabbrica, contro l’aborto selettivo o le frodi informatiche.
Per raccogliere fondi, poi, niente di meglio di un calendario Pirelli de noantri, come fosse necessario estrarre la vocazione alla donazione di ogni buon cittadino attraverso il suo voyeurismo.
Ammetto che atti come questo possano suscitare una certa attenzione la prima volta - oddio, forse di più agli inizi del Novecento, quando le prime donne in pantaloni affrontavano coraggiosamente i lazzi e gli improperi dei padri di famiglia – proprio perché le telecamere cercano la novità, e collegarla alla trasmissione di un messaggio può essere una buona idea.
Ma ora rischia di diventare una ridicola abitudine, una di quelle di cui ci si dimentica le radici, mantenendola come inevitabile regola. Immagino un sobrio incontro sindacale in una fabbrica in cui, in aria di cassa integrazione, tutti si spogliano come atto formale prima di discutere sul da farsi. O una manifestazione sulla dignità delle donne rimandata alla primavera per l’impossibilità di denudarsi d’inverno.
O forse hanno ragione loro: forse l’esibizionismo non c’entra niente, e l’umanità, indipendentemente dai messaggi che intende veicolare, continuerà a alzare gli occhi solo parlando di cosce, e riderà sempre solo di cacca e pipì.

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