lunedì 30 agosto 2010
Vacanze
Col passo strascicato, vestita rigorosamente di nero, ho raggiunto la mia scrivania, una volta depositato Babi, attratto dalla maestra con l’inganno e chiuso nell’asilo a chiedersi perché.
Una scrivania sobria, maron come il tinello di Paolo Conte, costellata di poche carte, che già, col passar dei minuti stanno aumentando fino, lo so, a coprire tutto il laminato ciliegio, nessuna degna del minimo interesse. Anche lo spathiphyllum non pare aver sentito la mia mancanza, tutto verde, quasi ironico nel suo rigoglio.
Nessuno aveva bisogno del mio ritorno. Perché sono qui?
Tre settimane con Babi sono state molto istruttive: quel suo insistere a svegliarsi non più tardi delle sette, la colazione insieme decidendo se farla a casa o al bar come i signori, le mattine al parco, gli accordi che comportavano un’ora di giostra per un’ora di tranquillità che mi permettesse di lavare i piatti, metter su una lavatrice, impostare un ragù, come una trottola, mentre lui si guardava intorno decidendo cosa distruggere. Metterlo a letto il pomeriggio, quando il tempo vola più di ogni altro momento, e non sai se dormire, leggere, guardare fesserie alla tv, riordinare casa o accarezzare gatto Pantacollant, perché sono tutte cose assolutamente da fare, e tra poco si sveglia e dovrai dimenticarle. I viaggetti in autobus (in linguaggio babico, buatte o abutu) a vedere i treni in stazione, dove trovi altre mamme stralunate con altri bambini che guardano i treni in stazione, solo che è agosto, e questa è una città dimenticata dalla ferrovia come gli avamposti del west ai tempi dell’oro, e dunque vedere i treni significa attendere per ore una littorina sulle panchine assolate come non si è mai fatto nemmeno ai tempi dell’università, quando il solito ritardo faceva perdere la coincidenza. I giri col nonno a fare la spesa, le visite alla casa nuova, ormai fuori dal nostro controllo, che gli operai prendevano a picconate sotto lo sguardo sgranato di Babi, che esprimeva i seguenti pensieri: 1) cosa stanno facendo alla mia casa nuova? 2) perché mai non l’hanno fatto fare a me? 3) appena finiscono loro comincio io. La scoperta di una lunghissima pista ciclabile tra i campi, panorami che immagini per l’autunno visto che il mais limita lo sguardo, filari di viti, ponti di legno che percorre con noi anche il torrente, troneggiando sulla superstrada. Qualche sparuto giorno al mare, più laborioso della città, con il passeggino carico di secchielli, palette, rastrelli, mulini e gonfiabili, e la strada sotto il sole a picco fino all’appartamento di amici all’ora di pranzo, quando non ti capaciti di aver percorso lo stesso tratto poche ore prima, senza fatica alcuna. Una gita al fiume, Babi che alla vista dell’acqua si spoglia con la velocità dei Centocelle Dream Men e si butta nell’acqua gelida senza alcuna esitazione, per poi tentare di lapidare i passanti. Gli amici a cui offrire la cena che si ha il tempo di preparare, i piatti rotti ritrovati uguali, in saldo, in tutt’altro negozio; la pittura di mobili per la cameretta, arancione e azzurro come ho sempre voluto; i libri di orticoltura che mi rendono la massima esperta di orti astratti che sia terrorizzata dalla terra reale; i romanzi; le sere stanche né più né meno di quando si va al lavoro, riuscendo a fatica a vedere mezzo film.
Tutto molto istruttivo, perché la sofferenza di tornare qui non è mitigata da alcuna stanchezza per il ruolo di madre, casalinga, giardiniera che ho accolto, mai l’avrei detto, come un magnifico regalo.
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