mercoledì 17 novembre 2010

A casa


Rediviva, torno da giornate faticose, residente in altro topoluogo: siamo entrati nella casa nuova il 5 novembre, 29 ottobre per la questura, quando Babi ormai cominciava a sospettare che si trattasse di una grande illusione a cui non volevamo arrenderci.

Ogni giorno evitiamo di soffermarci sul brulicare di arnesi da lavoro che sommergono il ripostiglio esterno, sulla betoniera che ancora troneggia in cortile a fingere, dolce capro espiatorio, che la colpa di tanto degrado non sia nostra, ma dei ritardi dell’impresario che ostacolano le nostre pulizie, sui detriti che rivestono le scale della cantina e sui centimetri di polveri fini che ammantano la soffitta; occhieggiamo solo il caco (kaki?), temendo che un frutto stufo di restare appeso all’abbandono ci si spiaccichi in testa, e corriamo in casa a goderci la sudata normalità che riveste i due piani abitabili.

Ma si può onestamente parlare di normalità?
Si parla di infissi color pervinca che non si chiudono bene perché per rendere il tutto più interessante non abbiamo attribuito una corrispondenza tra ogni finestra e la sua location abituale, prima di toglierla per dipingerla, e molti giorni febbrili sono stati trascorsi da un cupo Marito, che attraversava ogni stanza con una lastra di vetro tenuta, come un francese la baguette, cercandone la più consona collocazione;
si parla di una cucina amaranto con piastrelle viola prugna, antiche madie noce scuro, moderni tavoli color betulla, piastrelle color asfalto e pensili avorio, una sedia stokke arancione per Babi e altre impagliate per noi: la scelta del colore delle tende temo sia troppo anche per me.
Si parla di un numero di porte decisamente superiore ai buchi tra le stanze che dovrebbero contenerle, dunque immagino che alcune di loro rappresentino entrate prive di cardini per altre dimensioni o cauti ostacoli al risucchio in buchi neri, ma quali? Sarebbe meglio saperlo.
Si parla di parquet che emana random orrendi effluvi di vernici che mi fanno sentire così anacronistica, nel mio bandire detersivi chimici e cosmetici petroliferi, diffondendo ovunque bicarbonato e aceto di mele, mentre Babi si bea nell’aspirare a pieni polmoni tutto il contenuto in colla di una bidonville brasiliana.
Si parla di armadi riempiti all’inverosimile a fingere un ordine maniacale: appena hai bisogno di una canottiera, prima di accingerti alla ricerca, devi sederti sul letto a raccogliere le forze trattenendo i singhiozzi, mentre il ritratto di Dorian Gray si sgretola a rivelare la verità.

Si parla di Pantacollant, che, giunto ormai alla sua settima casa in otto anni di vita, ormai non presenta nemmeno i segni di spaesamento tipici della prima visita, ed esce dal trasportino come dicendo: - ok, dov’è la mia camera? Vi prego di portarmi al più presto i bagagli e un Martini.

Il trasloco ha coinvolto 50 quintali di roba, tra i mobili e circa 95 scatoloni, alcuni fatti con metodo, alcuni figli della disperazione: tanta ne hanno cagionata al momento dell’allestimento, tanta ne hanno rivomitata all’arrivo, quando l’ultima cosa di cui hai bisogno è un cartone pieno di minuscole cianfrusaglie da spargere tra sette stanze diverse al solo fine di ricreare l’atmosfera di follia che ti eri ripromesso di fuggire.
E poi, tutti quei buchi. Trapano ovunque, per attaccare lampade, pensili, specchi, mensole, quadri, ganci, e ogni volta io ripulisco testarda, e ogni volta poi si fa un altro buco, e tutta quella polverina rossastra riemerge, tu lavi e lei riemerge, tu sputi per terra nella disperazione e lei ritorna, e poi…

Lo so, forse sto esagerando, è altamente probabile che nessun Omero canti un giorno le nostre gesta.
Ma noi abbiamo conquistato la nostra casa.

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