lunedì 22 novembre 2010

Lunedì mattina


Quello in cui tuo figlio prima diventa specchio del tuo inconscio, e poi materializzazione delle tue più becere paure, non è un giorno dal risveglio dolce.

Babi, come spesso di lunedì, ha trascorso il lunghissimo periodo tra le 6.45 e le 7.15 ad arcuarsi con forza erculea urlando a squarciagola per opporsi in ogni modo al risveglio, alla vestizione, in pratica al lunedì mattina, esattamente allo stesso modo in cui mi comporterei io se non fossi foderata da un noioso substrato di regole sociali del vivere civile a cui tendere ogni giorno, o più semplicemente se Marito non ne approfittasse per farmi internare in una struttura tipo “sereni orizzonti” dove trascorrere pacificamente, sotto anestetici, il resto della mia vita. E fin qui, tutto fila: in lui vedo le mie tensioni primordiali, le odio, lo sgrido, ne comprimo la volontà, lo costringo a tornare nella fodera sociale del bravo bambino e tutto procede come da manuale anteguerra sull’allevamento della prole.

Ma poi, in macchina, mi trovo con un Babi che stringe un biscotto per mano, senza nemmeno assaggiarlo, e sussurra, tra lacrime che si dispiegano sulle gote rosate come rotoloni regina, lentamente e inesorabilmente: non voglio andare a scuola. Non portarmi a scuola. E io gli ricordo i magnifici giochi che fa coi compagni (?), le superbe pappe che gli propinano quotidianamente (??) la simpatia che secernono le maestre ad ogni piè sospinto (???), e lo rincuoro, e lo spingo con le mie mani, a dolci colpetti sulle spalle, in una casa di cui non conosco fondamentalmente nient’altro che la vetrina mattutina e le speranze che vi ripongo, e dove probabilmente costringono mio figlio a indicibili torture che mai verranno scoperte, o comunque troppo tardi per preservare la serenità di centinaia di bambini.

Così, tra la consapevolezza delle mie debolezze e il vago sospetto sugli orrori umani, inizia la mia settimana, e il naufragar non m’è dolce, in questo mare.

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