lunedì 18 aprile 2011

La danza della realtà

Con lentezza ho letto La danza della realtà di Alejandro Jodorovsky, di cui avevo letto solo, tempo fa, Quando Teresa si arrabbiò con Dio, traendone soddisfazione, ma non un ricordo abbastanza vivido da recensirlo qui.
Con lentezza, perché frequentemente intervenivano i miei libri di giardinaggio, o di erbe spontanee, o la rivista di Emergency, o il solito Venerdì della Repubblica, e troppo spesso indulgevo nelle pause, come accade per le letture che mi lasciano perplessa.
Nelle autobiografie prediligo soffermarmi sull’infanzia, come è accaduto con Marquez, e un po’ anche con questo; rimango ogni volta affascinata da quanti ricordi restino a queste persone, e come vengano rielaborati in modo così lucido da capire molto di sé. Io, della mia, conservo poche immagini, qualche momento apparentemente privo di importanza, alcuni racconti altrui confusi con la mia memoria tanto da sembrare ricordi, fotografie in bianco e nero tramutate in personali rievocazioni.
Questi scrittori conservano tutto, particolari e significati, dunque forse meritano d’esser scrittori.

Dopo il periodo infantile, dove qualche traccia di autocommiserazione di troppo a volte mi ha infastidita (a giustificazione di cicatrici indelebili descriveva a volte episodi che al mio sentire tanto dolorosi non sembravano, forse è un problema mio), incomincia la descrizione dell’allontanamento da una famiglia che lo avviluppava rifiutandolo nell’intimo, per giungere, per lenti gradi, alla scoperta della psicomagia, del rendersi guaritori sciamani dei mali dell’animo altrui attraverso l’arte (forte l’ispirazione al surrealismo), l’immaginazione, utilizzate nella loro primitiva funzione di cura. La psicomagia, perdonino i conoscitori questa descrizione raffazzonata, intende intervenire sull’inconscio attraverso rituali comportamentali simbolici e metaforici, che ne nutrono i bisogni come farebbero comportamenti reali, forzando la barriera di censura logica della coscienza e portando a guardare la propria condizione in un modo diverso, e a intraprendere la strada per la guarigione, o per l’accettazione di sé.
Che dire: credevo di lasciare il libro a metà, allergica a qualsiasi cosa contenga la parola magia (forse proprio per barriere censorie della mia coscienza..), per poi dare all'autore la possibilità di spiegarsi in forza della sua Sudamericanità - unico continente a cui concedo arti magiche per la splendida maniera con cui le integra nella quotidianità - e alla fine sono contenta, e qualcosa ho imparato.

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