giovedì 1 giugno 2023

Il conte Attilio

Inizio con un'ammissione: ho molto amato i Promessi sposi. Certo, come tutti, non negli anni in cui ti costringono a studiarlo come fossero formule chimiche "sottolinea tutti in casi in cui don Abbondio si serve di complementi predicativi dell'oggetto, pur inconsciamente"; "in quale capitolo l'autore utilizza l'analessi?"; "confronta l'addio ai monti di Lucia con l'addio di Renzo al Ducato, fai un collegamento con l'addio di 'Ntoni del Verga e poi ipotizza un tuo personale addio a Cavalicco". Un addio a tutti i Santi, ti si formula nel cavo orale, e non trovi il tempo, e la forza, di amare niente.

L'ho iniziato ad apprezzare quando ho capito che la mia felicità letteraria trova completa realizzazione nel romanzo dell'Ottocento, con picchi inarrivabili di passione per quello inglese e rapporti aspri e altalenanti con quello russo (se qualcuno mai volesse approfondire, troverà qui un'estensione del mio pensiero). Il romanzo inglese dell'Ottocento è per me come una consolante tazza di cioccolata, quando fuori piove e dentro anche, ma senza le calorie. Dicevo, dunque, che quando ho focalizzato il centro del mio amore nella creatura ottocentesca, di carta eppur viva, mio padre, tra l'altro insegnante di lettere che, ci scommetterei, non ha mai costretto don Abbondio a contare i predicativi, mi ha consigliato di rileggere i Promessi sposi e acciderba, è un lavoro coi fiocchi.

Tutto questo per spiegare qualcosa che ora non saprò spiegare: perché diavolo mi sono messa a leggere un prequel attuale dei Promessi sposi? Non è che per ribadire il mio assoluto amore per Cent'anni di solitudine ( e daje coi link autoreferenziali) ora sentirò il bisogno di leggere "Verso Macondo. L'epopea degli Aureliani prima dei Jose Arcadi"? Però avevo bisogno di consolazione, in un periodo piuttosto nervoso e impegnato. E quindi ho pensato che cappa, spada, nobile irrazionale orgoglio e città fetide fossero l'ideale. 

Il conte Attilio, nei Promessi sposi, è una figura assolutamente marginale, pur con una sua rilevanza, dato che, da cugino di don Rodrigo, avvia l'azione del romanzo scommettendo con lui sulla conquista di Lucia. Il Manzoni non lo tratta approfonditamente, lasciando così a Paglieri tutta la libertà di immaginare le caratteristiche del personaggio e la sua storia precedente. E' un nobile cadetto, soldato coraggioso e ricco di iniziativa, che nel 1627 torna dalla guerra, sia per salvare la sorella dal convento in cui il fratello primogenito l'aveva relegata, sia per tentare, da patriota, di riportare Milano a essere una capitale libera dal dominio opprimente degli spagnoli. 
L'autore, intervistato, ha spiegato che il grande vantaggio della scelta del romanzo storico è la possibilità, per chi lo scrive, di studiare per un paio d'anni il mondo dell'epoca, in modo da poter essere accurato, e la possibilità, per chi lo legge, di gettarsi in un'avventura con tutti i tòpoi del genere, imbattibili nell'insegnare roba divertendo nel contempo. Interessante il fatto che Mazoni si sia ispirato, per don Rodrigo, a un componente della famiglia Arrigoni, realmente esistita, che nel Seicento era immersa in una faida perpetua con la famiglia Manzoni, il cui illustre discendente, dunque, non si contiene nel disegnarne i membri come malvagi. 
Paglieri riconosce invece a questi personaggi umanità e generosità, approfittando forse anche della complessità psicologica che ci hanno regalato i secoli trascorsi tra la scrittura di allora e quella di oggi, e prova a guardare dalla parte opposta. 

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