lunedì 12 dicembre 2011

Altri libri estivi


Che dire di “il testamento” di Grisham? Estremamente piacevole, e foriero di leggiadri insegnamenti su immani estensioni paludose brasiliane chiamate Pantanal. Si potrebbe vivere senza? Sì. Ma è piacevole la voglia di restare soli col proprio libro, come ascoltando una storia d’inverno intorno al fuoco, e faticare a staccarsene. E’ una delle sensazioni per cui vale la pena di vivere.

E poi è venuto Il giorno in più di Fabio Volo.
Quell’uomo mi ha sempre ispirato simpatia, per quel poco che l’abbia potuto seguire, lo trovo un attore dignitoso e un uomo di spettacolo spiritoso; mi incuriosiva come scrittore, con anche quel po’ d’invidia per chi tenta e riesce, pare, in tutto.
La storia non è male, ossia, alla fine è scontata, ma riesce a mantenere intatta la curiosità sul destino di questo amore, e quando un finale è scontato solo all’ultima pagina, il lavoro, per me, è riuscito. Quello che non mi ha proprio convinta è il bisogno dell’autore di spiegare come la pensi su ogni cosa e  in ogni momento, non facendo emergere il punto di vista dalla narrazione, ma spingendo la narrazione a creare luoghi di sentenze su ogni minimo aspetto della vita. Un po’ come Platone, che radunava discepoli ai piedi di Socrate, e tutti attenti a ascoltare, senza distrarsi con le proprie quotidiane vicende; ma - è scontato - senza la parvenza (e neanche la volontà) di costruire un’opera di pari spessore intellettuale. Se vuoi e sai d’esser leggero, lascia scivolare i fatti, Volo, non ingombrarli di principi.

Infine mi sono dedicata a Amy Chua, Il ruggito della mamma tigre, ovvero l’opposto perfetto ai libri di pedagogia che sono sempre stati la mia bibbia, dalla nascita di Babi. E l’ho letto in un momento in cui la famiglia Rumoretti sta prendendo le misure da zero con un piccolo adolescente di tre anni, che ha iniziato a chiarire con parole taglienti e fatti conclusivi chi, a suo parere, sia al comando del trio; non nascondo dunque che in qualche tratto la lettura abbia suscitato in me un qualche accenno di piacere sadico.
Il libro individua tre differenze principali di forma mentis tra i genitori orientali e occidentali:
la mamma cinese non si impone alcuna preoccupazione circa l’alimentare e il mantenere l’autostima dei figli, che non vede assolutamente come fragili; crede profondamente che i suoi figli siano in debito con i genitori, e debbano trascorrere la vita cercando di ripagarne con devozione i sacrifici; ritiene di sapere esattamente cosa sia meglio per i figli, assoggettandoli così senza alcuna remora alle proprie volontà e calpestandone i desideri.
Al fine di promuoverne la crescita intellettuale e il primato lavorativo, la madre cinese sottopone i figli ad ininterrotto studio, scolastico e musicale, non ammettendo alcun voto inferiore al massimo, e negando ogni svago; riducendo insomma la vita di bambini e adolescenti a qualcosa che per noi è impossibile anche solo immaginare.
In realtà, ulteriore prova di come sia sempre meglio assaggiare che sentir descrivere, dal libro non emerge una donna folle, rigida quanto sicura del proprio metodo, ovvero quella che è stata descritta in diversi dibattiti televisivi eretti sul niente in questi mesi a seguito dell’uscita del libro: questa donna, che vive di persona, prima da figlia e poi da madre, tutti i contraccolpi di uno scontro di culture, si chiede ripetutamente se il suo metodo sia in effetti superiore, se porti a risultati obiettivamente e complessivamente migliori del permissivismo occidentale, guardando onestamente ai propri fallimenti, cambiando in diversi casi opinione e riflettendo sui limiti della propria severità.
Fondamentalmente, conclude, nessuno dei due metodi educativi costituisce garanzia di felicità.
Sicuramente i risultati raggiunti da figli allevati in quel modo, estremamente faticoso anche per la madre stessa, soprattutto tra le famiglie di immigrati in cui a giocare contro è la società in blocco, sono stupefacenti: ma leggendo mi veniva in mente quella utile metafora, che descrive la storia del mondo come un libro di non so quante pagine, e la storia dell’umanità come l’ultima riga di quel libro. Poiché la storia di ognuno di noi è una macchia d’inchiostro infinitesimale che compone l’ultima lettera, che senso ha occuparsi esclusivamente del proprio successo, dell’eccellenza, quando già metà della vita trascorre dormendo, e una buona parte a difendersi da inutili desideri di acquisti compulsivi? Senza quella minima capacità che ci resta di goderci le nostre giornate, meglio estinguersi.


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