sabato 10 dicembre 2011

E la chiamano estate


Sono tornata in ufficio, e nell’afa del meriggio, mentre il sole feroce attraversa l’edificio venendosi a piazzare davanti alla mia porta, riflettendo caparbio la propria immagine sul condizionatore rotto creando irridenti giochi di luce, mi sento addosso la voglia di lavorare di una segretaria svedese in bikini assunta per altri fini, che batte un tasto al minuto con le unghie lunghe sette centimetri. Il dolore di tornare qui è così grande da privarmi della parola per buona parte della domenica, e il fenomeno di vivere la più profonda noia pur avendo tantissimo da fare, il tempo che non basta mai e non finisce mai, contemporaneamente, mi stupisce ogni giorno. Se la finestra avesse le sbarre non mi stupirebbe, sarebbe solo una materializzazione delle mie sensazioni.
Lo so, c’è il dolore vero e c’è chi il lavoro non lo ha. Ma sono come un bambino di fronte a una zuppa odiata e all’evidenza che milioni di altri bambini la desidererebbero. Non serve a niente, in questo meriggio afoso, una zuppa. 

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